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Aspettando il Trovatore

Entrando nel foyer del Teatro Regio, la mattina del 3 ottobre, per assistere alla conferenza di presentazione del titolo inaugurale, vediamo campeggiare la grande locandina dello spettacolo che aprirà la stagione d’opera e balletto 2018-2019. Sfondo nero, scritte bianche, al centro una grande rosa incendiata e sotto di essa una citazione: “Ah, l’amorosa fiamma/ m’arde ogni fibra”. Continua la lettura di Aspettando il Trovatore

La trilogia Mozart-Da Ponte chiude la stagione del Teatro Regio

La stagione del Regio si chiude con tre titoli fondamentali della storia dell’opera, proposti a Torino per la prima volta in un unico corpus: Le Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte. I tre capolavori di Mozart, composti tra il 1786 e il 1790, su libretti di Da Ponte, sono una meravigliosa realizzazione di drammaturgia musicale: parole e note si fondono in modo perfetto e trasformano l’opera buffa, un genere fino a quel momento frivolo e superficiale, in una forma d’arte capace di toccare le corde più profonde dei sentimenti umani. Tra unioni coniugali, tradimenti, rimpianti e libertinaggi è rappresentata una sfaccettata fenomenologia dell’amore nei suoi inestricabili legami col potere: il Settecento come momento topico di questo intreccio ad ogni strato sociale. Le tre regie sono firmate da nomi di rilievo, Elena Barbalich per Le Nozze di Figaro, Michele Placido per Don Giovanni, Ettore Scola per Così fan tutte (le ultime due riprese da Vittorio Borrelli), al fine di richiamare un vasto pubblico, il quale ha effettivamente risposto numeroso all’evento confezionato dal Regio.

Nelle Nozze di Figaro si respira l’atmosfera del secolo, con alcune incursioni nel futuro prossimo: Cherubino è iconograficamente connotato come il Napoleone a cavallo del quadro di David ed è seguito da una folla di rivoluzionari. Le scene di Tommaso Lagattolla (che ha curato anche i costumi) in accordo con la regia intendono rappresentare il tortuoso percorso iniziatico dei personaggi, connotato da una “componente massonica” attraverso i simboli della squadra, della scala, dell’alternanza luce e buio ecc. Purtroppo però la resa è quella di una scenografia che comunica oppressione e i personaggi appaiono come incastrati tra i pannelli: il messaggio non arriva. La resa canora e interpretativa è invece comprensibile e nell’insieme godibile, grazie soprattutto alla direzione di Speranza Scappucci, misurata e puntuale.

Nel Don Giovanni la direzione di Daniele Rustioni coglie equilibratamente gli aspetti musicali barocchi che in quest’opera colorano lo stile classico mozartiano. La medesima ambizione sembra animare la regia la quale tuttavia degrada in una forma scenica che sfiora il cattivo gusto. I colori cupi degli arredi e dei costumi (firmati da Maurizio Balò) rabbuiano la scena senza, per altro, comunicare la conturbante oscurità dell’opera. Le coreografie trascurate, da orgia campestre, animano la scena del ballo attraverso dei fermo-immagine catturati da flash anacronistici di una macchina fotografica presente sul palco. È ricorrente nell’opera lirica, spesso senza giustificazione drammaturgica, esporre corpi esausti e seminudi in pose plastiche, che mirano a compiacere un immaginario nutrito di stereotipi televisivi. Se effettivamente funzionali a riempire un vuoto dello sguardo, tali danze sminuiscono il valore dello studio coreutico dei corpi in scena. Nonostante (o forse grazie a) questo l’allestimento, a distanza di tredici anni dal suo debutto, è ancora apprezzato dal pubblico, formato da molti turisti, che ha applaudito calorosamente.

Così fan tutte incanta con il suo fascino misterioso e la struggente bellezza delle melodie. L’allestimento è il più riuscito dei tre, fedele al clima settecentesco, delicato nei colori ed elegante negli arredi, trasmette le medesime suggestioni sensuali delle tele di Fragonard. Altrettanto coerenti i giochi di nascondimenti e rivelazioni realizzati, nella pienezza della profondità scenica, da Luciano Ricceri. L’opera presenta arie tra le più impegnative di tutta la produzione mozartiana, in particolare per i ruoli femminili. Pure un soprano di prim’ordine come Federica Lombardi non si rivela una Fiordiligi abbastanza agile nelle acrobatiche arie Come scoglio immota resta e Per pietà ben mio perdona. Da segnalare anche Francesco Marsiglia nel ruolo di Ferrando non perfetto nell’intonazione della cavatina Tradito, schernito!. L’interpretazione orchestrale è più convincente: il maestro svizzero Diego Fasolis, al suo debutto sul podio del Teatro Regio, ha impresso il suo tocco personale alla direzione, derivato anche dalla sua profonda esperienza nel repertorio antico.

L’istituzione torinese, forte dei suoi recenti cambiamenti (ricordiamo William Graziosi alla sovrintendenza e Alessandro Galoppini alla direzione artistica), si avvia verso una nuova stagione molto attesa. Alla sua presentazione infatti, oltre alla sindaca Chiara Appendino, si è registrata la presenza di un gran numero di torinesi. Nuovi melomani o cittadini preoccupati dalla “tempesta” che ha recentemente scosso il prestigioso ente lirico? In attesa di nuovi sviluppi, la trilogia mozartiana rimarrà in scena fino all’8 luglio. Il Teatro riaprirà la stagione 2018/19 con Il Trovatore di Verdi a partire dal 10 ottobre.

Recensione di Marida Bruson e Tobia Rossetti

Il Segreto di Susanna e La Voce Umana al Teatro Regio

Due opere moderne, brevi e senza arie, costellano la serata del 16 maggio al teatro Regio di Torino: Il segreto di Susanna, del veneziano Ermanno Wolf-Ferrari, datata 1909 e La voix humaine, di Francis Poulenc, la cui prima rappresentazione risale al 1959. Cinquant’anni le separano, ma non solo. Una è in stile comico, l’altra in stile tragico, una è italiana, l’altra è francese. Tuttavia la produzione dell’Opéra Comique di Parigi, in coproduzione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg e Opéra Royal de Wallonie, ha scelto di farle circuitare insieme, rappresentandole nella stessa serata, con il medesimo allestimento e la medesima cantante, la formidabile Anna Caterina Antonacci, nei due ruoli di soprano.

Il segreto di Susanna è una irriverente lezione di costumi, in pieno stile primonovecentesco, un intermezzo in atto unico, di un comico ben innescato, che strizza l’occhio alla frizzante musicalità di Mozart (che l’autore amava) e che risveglia quella sarcastica propensione al riso propria del Rossini di due secoli precedenti (che, non si può negarlo, se la si possedesse oggi, troverebbe una marea di frivolezze da schernire). È un misunderstanding tutto avanguardista quello del conte Gil, che scambia il vizio del fumo della giovane moglie, Susanna, per un’infedeltà amorosa: il libretto dipinge il tabagismo come l’amante della modernità, in una perfetta caricatura salottiera memore della stagione settecentesca. Tre sono i personaggi, il conte Gil (Vittorio Prato), Susanna (la Antonacci) e Sante, il servitore muto (interpretato da un simpatico Bruno Danjoux). Ai lussuosi interni déco, e ai bellissimi abiti anni Dieci, che ci si aspetterebbe dall’opera di Wolf-Ferrari, le scene di Antoine Vasseur sostituiscono un piccolo alloggio fintamente elegante, in stile terzo millennio, che vuole economizzare tempi e costi dei cambi scena. Anche la seconda rappresentazione, infatti, si avvarrà del medesimo alloggio, che, ruotando, trasferirà il personaggio femminile dal salotto, al bagno, alla camera da letto, alla cucina. La piccola scena sacrifica un poco i movimenti dei personaggi, ma l’opera si fa apprezzare nella sua semplicità, senza pretese.

La voix humaine è l’adattamento musicale di un celebre monologo teatrale che Jean Cocteau scrisse negli anni Trenta. Francis Poulenc, suo amico, nonché membro del Gruppo dei Sei, adotta una partitura assolutamente moderna, in bilico tra forti tensioni emotive e lirismo tragico, sulla quale si innesta una voce sopranile che deve fronteggiare stili di interpretazione vocale eterogenei e difficili pause e cambi ritmici che è lei stessa a dirigere. La protagonista infatti, unica presenza sul palco per l’intera rappresentazione, intrattiene una drammatica conversazione telefonica con il suo fidanzato, il quale si allontanerà progressivamente dalla sua amata, riagganciando il telefono alla fine del dramma. L’autore stesso inserì un’indicazione particolare nel libretto: “l’intera composizione deve sprofondare nella più grande sensualità orchestrale”. Tuttavia la forza della Antonacci, ci sembra, traspare da un’ottima tecnica vocale e da un solido controllo interpretativo che non sfociano mai nella sensualità auspicata da Poulenc. La cantante, infatti, supera i 50 minuti di monologo apparentemente senza fatica, concedendosi un solo sorso d’acqua a metà della pièce.

A scopo informativo comunichiamo che recentemente lo storico sovrintendente del Teatro Regio, Walter Vergnano, che in 19 anni tanto ha fatto per consacrare la celebrità dell’istituzione a livello internazionale, ha dato le dimissioni. Con lui hanno lasciato anche il direttore musicale, Gianandrea Noseda, e il direttore artistico, Gastón Fournier-Facio. Ad essi sono subentrati William Graziosi alla sovrintendenza e Alessandro Galoppini alla direzione artistica. Preso atto di questi grandi cambiamenti, avvenuti molto rapidamente, e rivolgendo un caloroso ringraziamento al lavoro svolto da Vergnano per la città di Torino, noi, da semplici spettatori del Teatro Regio, ci auguriamo che la sua altissima qualità non ne risenta nel corso dei prossimi anni.

 

Il musical Evita al Teatro Regio

Il celeberrimo musical firmato da Andrew Lloyd Weber e Tim Rice, la coppia d’oro di successi come Jesus Christ Super Star e The Phantom of the Opera, è al Regio dal 4 al 9 maggio 2018. Uniche date italiane del tour internazionale per questa produzione di Bill Kenwright in accordo con The Really Useful Group e prima esecuzione assoluta della versione per orchestra sinfonica: Sir Lloyd Webber in persona ha curato la revisione e orchestrazione della partitura, con David Cullen.

La presenza di un musical nella stagione Opera & Balletto ha fatto storcere il naso ai melomani tradizionalisti e in difesa della scelta qualcuno ha addotto la necessità di avvicinare all’opera gli under 30, presenze rare nei teatri lirici. La sera della prima erano presenti alcuni giovani, ma c’erano soprattutto anziani abbonati e persone di mezz’età che “avevano visto il film” (di Alan Parker, 1996, con Madonna e Antonio Banderas). La scelta del direttore artistico Gaston Fournier-Facio mira ad abbattere confini rigidi tra i generi, tema sempre dibattuto tra i musicologi, e ci offre la possibilità di godere di un brillante esempio di teatro musicale “leggero”.

Nelle ambizioni di Lloyd Webber c’era quella di avvicinare il suo musical alla tradizione operistica, in particolare a Giacomo Puccini: Evita è un sung-through musical in cui i dialoghi parlati sono sostituiti da recitativi e tutti i numeri musicali sono organicamente funzionali allo svolgersi dell’azione drammatica.

La vicenda segue la parabola esistenziale di Marìa Eva Duarte, adolescente ambiziosa e spregiudicata, che sposa il colonnello Juan Domingo Peròn e diventa Evita, influente first lady. Lloyd Webber e Rice furono accusati di aver reso glamour la dittatura, nonostante abbiano tracciato con parole e musica un ritratto ricco di contrasti. Il personaggio del Che (liberamente ispirato, ma non storicamente coincidente, con un altro argentino particolarmente affascinante) è una sorta di alter-ego di Evita ma anche voce di un popolo non compatto nell’osannare la Santa Peronista. Il Che pone le domande direttamente al pubblico, fa sorgere dubbi e ironizza sugli aspetti più smaccatamente celebrativi.

La regia di Bob Tomson e Bill Kenwright, insieme con la coreografia di Bill Deamer, mette in risalto gli aspetti più glamour e insieme contraddittori della vicenda. La visione che ci restituisce l’allestimento è quella di un panorama politico che funziona attraverso i meccanismi dello star system. Madalena Alberto rifiuta di sentimentalizzare l’eroina da lei interpretata e ne esalta invece le qualità di performer. La voce della Alberto si mostra sempre adatta a interpretare Evita mentre diventa sempre più bionda e più indispensabile al marito e da soubrette si trasforma in guida spirituale dell’Argentina. Ironica ed energica quando chiede di “Christian-Dior-izzarla”, soffice e suadente nella celebre Don’t cry for me Argentina. I due atti sono idealmente imperniati proprio su quest’ultimo song, che riassume la vicenda umana della protagonista e costituisce il più importante Leitmotiv, tessendo una trama di rimandi drammaturgicamente significativi e conferendo all’opera una eccezionale unità formale ed espressiva. Il Che è interpretato da Gian Marco Schiaretti, la sua voce è capace di esprimere una variegata gamma di tonalità e porta con sé un mix di passione e disincanto. Il Coro di voci bianche del Teatro Regio e il Coro del Conservatorio “G.Verdi” ben si amalgamano al cast di protagonisti. L’Orchestra del Teatro Regio diretta da David Steadman presenta, integrata all’organico sinfonico tradizionale, una sezione di strumenti appartenenti alla musica pop che rendono con forza espressiva stili diversi, tra cui tango argentino, ritmi sudamericani e rock anni Settanta: l’insieme che ne deriva è godibilissimo.

La prima di Evita è stata una serata in cui il piacere dei sensi e (la possibilità di) riflessione critica si sono incontrati lasciandoci l’amara consapevolezza che il populismo risuona fragorosamente nelle politiche contemporanee.

I Lombardi alla prima crociata del Teatro Regio

I Lombardi alla Prima Crociata, opera giovanile di Verdi, è in scena al Teatro Regio di Torino dal 17 al 28 aprile. Considerata emblema del melodramma primo-ottocentesco, intrisa di valori risorgimentali, l’opera debuttò al Teatro Alla Scala di Milano l’11 febbraio del 1843, un anno dopo lo strepitoso successo del Nabucco.

La regia di Stefano Mazzonis di Pralafera è nata nel marzo del 2017 per Jérusalem, in coproduzione con l’Opéra Royal de Wallonie-Liège, ma presenta qui la doverosa aggiunta del fondale iniziale raffigurante la piazza milanese di Sant’Ambrogio. Fedele all’impianto tradizionale, l’allestimento si costituisce di numerosi quadri, poco coreografati, decorati con scenografie classiche e costumi non troppo appariscenti, né anacronistici. Unica sperimentazione il breve video nell’interludio del quarto atto, a rappresentazione della battaglia fra crociati e musulmani. La musica di scena, sulle vecchie immagini in bianco e nero, spezza la recita con un pizzico di modernità.

Alla prima tra il numeroso pubblico figuravano diversi volti dell’élite torinese oltre ad esperti del settore. In seguito all’annuncio che il tenore Gabriele Mangione avrebbe sostituito Giuseppe Gipali nel ruolo di Arvino, un inaspettato gracchiare di microfoni ha divertito la sala e preoccupato il fonico che prima di risolvere il problema ha dovuto dire a gran voce al direttore d’orchestra: “Michele aspetta”. Risolto il guasto, l’opera ha potuto svolgersi piacevolmente sotto la direzione di Michele Mariotti, al suo debutto ne I Lombardi. Nel ruolo di protagonisti il basso-baritono Alex Esposito (Pagano), il soprano Angela Meade (Giselda), il tenore Francesco Meli (Oronte)e il basso Antonio Di Matteo (Pirro). Notevole l’interpretazione del celebre assolo di violino a sipario chiuso nel preludio del terzo atto. Meritati inoltre gli applausi per il Coro del Teatro Regio i cui unisoni delicati, puntuali e dinamicamente ben regolati sono il vero e proprio corpo portante dell’opera.

Nonostante il libretto di Temistocle Solera presenti una certa confusione drammaturgica, con quel groviglio di eventi che si succedono frettolosamente, la partitura verdiana già rivela la grandezza del compositore. La firma di Verdi basta a giustificare la ripresa di un’opera di per sé minore o la scelta va cercata in altri motivi, non solo artistici? La linea ideologica del soggetto è chiara a tutti: la lotta dei cristiani contro i musulmani nella prima crociata, terminata nel 1099 con la presa di Gerusalemme. Al tema della gelosia scatenata dall’amore e della redenzione del personaggio malvagio si accompagna la celebrazione dell’invasione nostrana in terra d’oriente, che termina fra le esultazioni patriottiche di un popolo fiero di aver conquistato la terra promessa. Riconosciamo che sarebbe tuttavia limitante rinunciare a una creazione del genere per via dei tempi che corrono. La scelta del regista è stata di concludere con le due parti che si abbracciano e cantano insieme. Al di là delle scelte di messa in scena, è una grande possibilità dell’opera lirica quella di farci vedere la realtà con una maggiore coscienza storica, anche quando si presenta nei suoi aspetti più controversi.

Recensione di Tobia Rossetti e Marida Bruson

Bravo bravissimo! Al Regio l’inarrestabile vitalità di Rossini.

In occasione dell’anno rossiniano torna l’allestimento de Il barbiere di Siviglia creato nel 2007 dal Teatro Regio di Torino e più volte ripreso fino a diventare un piccolo classico. Le quattro recite (16, 20, 23 e 25 marzo) hanno registrato il tutto esaurito.

Il regista Vittorio Borelli restituisce la vocazione all’allegria propria di quest’opera, che Verdi definì «la più bella opera buffa che esista». La semplicità della regia se forse appiattisce la drammaturgia musicale di Rossini e Sterbini, che avevano sostituito all’incontenibile risata di Paisiello un sorriso divertito e malizioso, ha certo il merito di evidenziare i nodi essenziali della vicenda e di divertire il pubblico. Merito, quest’ultimo, da non sottovalutare.

Nel Rossini comico lo scavo psicologico è del tutto assente e sarebbe inutile e fuorviante andare a cercarlo. Il motore è l’ingegno, non necessariamente messo a servizio dei buoni sentimenti, e il propellente è il ritmo. Si pensi ai celeberrimi crescendo e ai magnifici concertati d’insieme: l’individualità dei personaggi è trascesa nell’effervescenza di un meccanismo ingegnoso descritto cronometricamente dalla pulsazione.

La direzione di Alessandro De Marchi trasmette, senza esagerazioni, il piacere del suono e del ritmo, la gioia che si sprigiona dalla partitura rossiniana.

Al godimento della vicenda ben si prestano i semplici parati lignei dipinti mossi a vista a definire gli ambienti della scena, a cura di Claudia Boasso, e i costumi di gusto andaluso di Luisa Spinatelli.

I cantanti si fanno apprezzare per la loro vis comica, in particolare Simone Del Savio nei panni di Don Bartolo e Carlo Lepore in quelli di Don Basilio.

Il giovane baritono Davide Luciano interpreta il barbiere factotum facendosi apprezzare, con il suo timbro scuro e caldo, sia per l’effervescenza, sia per il controllo dell’esecuzione.

Il tenore Francesco Marsiglia nel ruolo di Almaviva è capace di restituire i passi che richiedono particolare agilità, così come i momenti più lirici.

In questa versione è presente l’aria Cessa di più resistere, spesso tagliata perché considerata inutile al dramma. Lungi dall’essere una mera esibizione vocale, questo rondò con coro porta a compimento l’azione e riconsegna al personaggio del conte l’importanza che doveva avere per Rossini e Sterbini. Si ricorda che l’opera debuttò al Teatro Argentina di Roma nel 1816 con il titolo Almaviva, o sia l’inutile precauzione e nel ruolo del protagonista c’era la star Manuel García.

Ad ogni modo, che si ponga l’attenzione sull’élan vital di Figaro come celebrazione della nuova borghesia o se, al contrario, si riconosca nella vittoria di Almaviva un atto da Ancien Régime, tutt’altro che progressista, l’essenziale è l’aspetto ludico. Benvenuti, allora, quegli allestimenti non oscurati da improbabili echi di ghigliottine.

Gli applausi scroscianti del pubblico affermano, ancora una volta, l’importanza del gioco e del riso, elementi fondamentali del nostro vivere.

Orfeo: il mito alle origini del teatro d’opera

L’Orfeo di Monteverdi andò in scena la prima volta nel palazzo Ducale di Mantova il 24 febbraio 1607. Se esso sia o meno considerabile dalla storiografia il primo esempio ufficiale di teatro musicale è una questione che tutt’ora fa dibattere i musicologi. Tecnicamente il primo melodramma fu l’Euridice di Peri e Rinuccini, rappresentato a Palazzo Pitti, a Firenze, il 6 ottobre 1600, a cui probabilmente Monteverdi assistette. Sicuramente l’opera monteverdiana è la più antica ancora presente nei cartelloni delle stagioni liriche.

Ricordiamo che alla corte dei Gonzaga fu invitato un ristretto numero di cortigiani. Il fatto che a distanza di quattro secoli il pubblico contemporaneo continui ad applaudire la creazione mantovana è indicativo dell’appeal che ancora esercita sui suoi fans. Forse in virtù dell’ordine armonioso che Monteverdi e Striggio infondono ad un’articolazione drammatica in cui si mescolano echi classicheggianti, gusto pastorale e vari effetti scenici.

Arduo è per gli stessi musicologi decretarne un’appartenenza certa allo stile barocco o a quello rinascimentale. A detta di Alessio Pizzech, regista della versione in scena al Teatro Regio di Torino dal 13 al 21 marzo, l’opera sarebbe musicalmente già barocca, ma drammaturgicamente ancora rinascimentale. Il soggetto infatti, ispirato al mito greco, è trattato in chiave profondamente filo-umanista: l’uomo alle prese con la necessaria comprensione dell’irreversibilità della morte.

A riflettere sulla propria condizione, amorosa prima e tragica poi, è il protagonista Orfeo, interpretato dall’eccellente baritono Mauro Borgioni, con un timbro appropriato, sempre comprensibile e un’interpretazione sentita.

La rappresentazione si inserisce nell’ambito del Progetto Opera Barocca. L’orchestra e il Coro del Teatro Regio sono affiancati dall’Ensemble strumentale La Pifarescha.

Dispiace che l’esecuzione sia stata disturbata da alcuni rumori, come quelli delle moquettes erbose, goffamente trascinate via nel bel mezzo dell’aria della Messaggera, interpretata dall’intensa Monica Bacelli.

Il bellissimo trompe l’oeil da studiolo umanista di corte che ospita scenograficamente la vicenda ha forse qualcosa a che fare con un certo inganno visivo, filo conduttore di questa resa dell’Orfeo. Esso viene rappresentato con immagini suadenti, attraverso coreografie sensuali, costumi di gusto kitsch (Caronte Aquaman, Apollo dorato con cetra al neon, becchini di Al Capone che trasportano il cadavere di Euridice), scenografie più barocche del barocco e quantità esageratamente fastose di persone in scena (non sempre coordinate tra loro) e di fantastici oggetti mobili.

Il palco inclinato è metaforicamente aggressivo, un’immagine aggettante verso lo sguardo inerme e goduto dello spettatore. Una regia consapevolmente provocatoria o semplicemente dettata dalle ineludibili tendenze attualizzanti che investono il mondo dell’opera?

Tobia Rossetti e Marida Bruson

Salome semiscenica al Teatro Regio

Torino, 15 febbraio 2018.

La perversa teenager Salome è il cuore del Festival Richard Strauss (2-25 febbraio) e titolo cardine della Stagione operistica: il Teatro Regio non vi rinuncia, nonostante l’incidente occorso il 18 gennaio durante una recita di Turandot, quando un elemento scenico è caduto sul palco ferendo due artisti del coro.

Costretto ad una soluzione di ripiego, il Regio presenta, per le cinque recite dell’opera (15, 18, 20, 22 e 25 febbraio) una versione semiscenica curata da Laurie Feldman, assistente di Robert Carsen, il cui allestimento del 2008 aveva riscosso grande successo.

La prima assoluta di Salome andò in scena il 9 dicembre 1905, diretta da Ernst von Schuch alla Semperoper di Dresda, e fu un vero trionfo, nonostante il clamoroso scandalo, o forse anche grazie ad esso: temi scabrosi come l’incesto e la necrofilia si univano ad una musica di enorme potenza espressiva. L’opera venne definita rivoluzionaria e fu eseguita nei maggiori teatri d’Europa. In Italia venne rappresentata la prima volta il 22 dicembre 1906 proprio al Regio di Torino, diretta dallo stesso Strauss.

Sul podio adesso c’è Gianandrea Noseda, al suo terzo appuntamento operistico della Stagione, dopo Tristano e Isotta e Turandot. Il direttore fa il suo ingresso con le mezzeluci in sala, cogliendo di sorpresa il pubblico. Le luci si spengono e la musica ha inizio.

Un atto unico che richiede grande abilità da parte del direttore d’orchestra, dei musicisti e dei cantanti, «una vera e propria vetta da scalare» afferma Noseda, che torna alla Salome dopo dieci anni. Si tratta di una partitura complessa, che richiede scelte difficili: ci sono linee musicali da prediligere e i fortissimi non possono essere tutti uguali se si vuole che venga alla luce il nucleo dell’opera, che si trova in quella connessione, strettissima, tra musica e parole.

«Questo testo grida musica» disse Strauss assistendo alla recita di Salome di Oscar Wilde e decise di musicare il dramma, nella traduzione tedesca di Hedwig Lachmann e con opportuni tagli e modifiche, senza la mediazione del librettista: è quella che, in termini tecnici, si chiama Literaturoper, operazione poco praticata allora, ma destinata ad una certa diffusione nel corso del Novecento.

L’opera si apre con il tema della principessa: un serpeggiante arabesco Jugendstil dei clarinetti che non è solo elemento decorativo, ma costruisce, con la sua linea, il personaggio dell’adolescente annoiata, capricciosa e sensuale. Questo disegno sinuoso definisce inoltre il clima di fondo dell’opera, il perverso intrecciarsi di passioni non corrisposte e giochi di potere. I temi musicali proposti, nonostante le variazioni, rimangono gli stessi dall’inizio alla fine: tale fissità dei temi, che non si influenzano gli uni con gli altri, rispecchia l’immobilità dei personaggi, che non hanno né la capacità, né la volontà di comunicare tra loro.

In un soffocante clima caldo umido il Profeta, che viene dall’arido deserto, annuncia con un semplice canto diatonico la venuta del Messia, ma la sua voce profonda e solenne è un corpo estraneo nel tessuto musicale dell’opera, la sua è una purezza che non purifica. Jochannan è incapace di redimere la fanciulla e ne teme persino lo sguardo. Se il bacio necrofilo con la testa mozzata non scandalizza più come nel 1905, rimane sconvolgente l’assenza completa di qualsiasi possibilità di cambiamento e di salvezza.

Durante la recita, tuttavia, non serpeggia alcun turbamento tra il pubblico e alcuni spettatori faticano a seguire il filo conduttore della vicenda, lasciandosi disorientare dal fatto che tutti gli interpreti siano sempre presenti sul palco, anche quando il personaggio è uscito di scena, come nel caso di Narraboth. Le sedie che connotano lo spazio all’interno del quale i personaggi interagiscono sono un segno chiaro per chi già conosce lo svolgersi degli eventi, ma non per tutti. I costumi, a cura di Laura Viglione, sono abiti da sera contemporanei che non caratterizzano in modo incisivo i personaggi. Allo stesso modo, le luci firmate da Andrea Anfossi, non sono in grado di infondere il necessario dinamismo a ciò che avviene in scena.

La direzione di Noseda mette in evidenza tutte le soluzioni musicali innovative per cui la Salome è apprezzata, la violenza espressiva di un’opera che ha anticipato il teatro musicale espressionista. Di fronte all’intensità dell’orchestra i cantanti risultano, a volte, un po’ deboli. Tuttavia il soprano svedese Erika Sunnegårdh, nel ruolo della protagonista, il tenore Robert Brubaker in quello di Erode, il mezzosoprano Doris Soffel, che interpreta Erodiate e il baritono Tommi Hakala nel ruolo di Jochanaan riescono ad entrare nella psicologia dei personaggi.

Questa Salome semiscenica, che alla ridondanza verbale di Wilde e musicale di Strauss accosta una essenzialità scenografica da teatro epico brechtiano, porta alla luce uno dei temi fondamentali su cui si gioca la ricezione del pubblico: la regia.

Parte degli spettatori ha espresso il proprio gradimento per questa versione perché ha permesso di concentrarsi esclusivamente sulla musica. Ma non di sola musica si compone l’opera: in essa si combinano, in modo equilibrato, la recitazione, la danza, i costumi, le luci e altro ancora. Quando ogni elemento si fa portatore di un’istanza espressiva coerente con il significato della vicenda, allora questa può comunicare qualcosa che ha a che fare con noi e con il mondo in cui viviamo. Che Salome sia ambientata nell’antica Palestina o nell’odierna Las Vegas, sarà riuscita soltanto quando il pubblico uscirà dal teatro turbato per quel Fantasma di perversione che è in grado di evocare.

La Turandot al Teatro Regio – Puccini ai tempi di Matrix

Una Turandot “attraverso il cervello moderno” aveva chiesto Puccini in una lettera del 18 marzo 1920 a Renato Simoni, autore del libretto con Giuseppe Adami. La grande “incompiuta” del Novecento, tratta dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi, sembra proprio abitare il palcoscenico mentale contemporaneo nel nuovo allestimento del Teatro Regio, in scena dal 16 al 25 gennaio.

Gianandrea Noseda, Direttore musicale del Teatro, che ha appena ricevuto una nomination ai 60th Grammy Awards, sceglie di fermarsi là dove si fermò Toscanini, alla prima assoluta, il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala. Si dice che a metà del terz’atto il leggendario Direttore si sia voltato verso il pubblico dicendo: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». La versione più eseguita è quella di Franco Alfano, con i pesanti tagli di Toscanini; sono da citare, inoltre, la versione di Alfano senza tagli, resa disponibile dal 1979 e quella di Luciano Berio del 2001.

Sul finale dell’opera le questioni sono aperte: non fu la morte a interromperne la creazione ma complessità compositive sul fronte musicale e drammaturgico. Il problema della Turandot è soprattutto un problema teatrale. Può un bacio sgelare una tiranna che si dedica con ferocia a decapitazioni seriali? Il melodramma ha esigenze interne di coerenza, da cui la fiaba può dirsi libera. Il disagio che si cela tra le pieghe delle due linee tematiche incarnate da Turandot-donna carnefice e Liù-donna vittima sembra irrisolvibile. Liù si presenta come l’ultimo anello della catena di donne pucciniane, martiri di una passione amorosa, vissuta come religione. Proprio sul sacrificio della dolce schiava termina l’allestimento del Regio. Noseda dichiara: «Quella fine non mi ha mai convinto. Non ho mai capito quel lieto fine esagerato». Turandot non esiste, dicono le maschere Ping Pang e Pong. Non esiste che il Niente, nel quale ti annulli!

La regia di Stefano Poda, che cura anche scene, costumi, coreografia e luci, segue questa suggestione e crea uno spazio mentale in cui l’io onirico di Calaf è chiamato a confrontarsi con l’enigma dell’Alterità. Turandot è la proiezione del fantasmatico Altro che si replica all’infinito sul palcoscenico. Ad interpretarla il soprano sloveno Rebeka Lokar, mentre Calaf è il tenore Jorge de León e Liù è il soprano Erika Grimaldi. Danzatrici e danzatori accompagnano la messa in scena e ne sono, a detta dello stesso Poda, l’anima profonda. La sua è una Turandot tanto cantata quanto coreografata, nella quale il validissimo corpo di ballo, selezionato fra centinaia di danzatori torinesi, ha consentito al regista-coreografo una scrittura motoria impeccabile, che niente ha da invidiare ai migliori pezzi di danza contemporanea presenti sulle scene oggi. Corpi seminudi, pitturati di bianco e privi di caratterizzazioni, apparentemente inanimati, riportano la materia coreica ad un incedere primitivo e misterioso, un sussulto spirituale, fra l’atletico e l’inquietante.

Lo spettacolo ha un forte impatto visivo che, pur senza compiacimenti decorativi, cerca evidentemente il gusto di un pubblico, la cui cultura visuale è nutrita da campagne pubblicitarie, serie televisive, riviste di moda e post glamour di giovani influencer. Espressamente debitore di tale immaginario si rivela tutto il materiale scenico di cui si avvale l’opera. La scena è un’unica stanza asettica, nella quale un minimalismo architettonico convive con un’estetica hi-tech da ultimo grido, mentre un’immancabile struttura circolare consente al palcoscenico di girare nei momenti salienti della recita. I costumi incrociano lo stile dei film di fantascienza, tra armi e copricapo alla Guerre Stellari, e parrucche e mantelli cyberpunk in stile Matrix, attraversando un orientalismo coerentemente riadattato ai tempi contemporanei. Orientalismo che, tra l’altro, è da sempre parte della tradizione estetica e tematica del più alto teatro europeo. La matrice cinematografica risulta inoltre dalla commistione di riferimenti che intrecciano universi culturali i più diversificati in una miscela spettacolare tipicamente post-moderna dove le possibili citazioni si sprecano. Tale ottica forse non è in contrasto con quella capacità, tutta pucciniana, di tradurre attraverso nuove estetiche i valori della modernità. Tra il fashion design e la sfilata in passerella, lo stesso futuro del melodramma sembra così traslare la sua provenienza artigianale dal campo del teatro a quello della moda. La scelta di lasciare l’opera aperta è senz’altro suggestiva perché mette in risalto il mistero del dramma e le contraddizioni che i vari finali non sono riusciti a risolvere: una scelta “di tendenza”, anche questa.

Sottolineiamo, in coerenza con gli aggiornamenti in atto all’interno della secolare industria dello spettacolo, che questa produzione è il primo contributo del Teatro Regio al progetto europeo OperaVision, piattaforma video dedicata all’opera, sulla quale sarà visibile in streaming gratuito per sei mesi a partire dal 25 gennaio, offrendosi ad una platea virtuale internazionale.

Quella di Noseda e Poda è, in definitiva, una Turandot plastica, attraente e sensuale, che contemporaneamente sa e vuole essere algida e fredda come una sala operatoria. Gli 11 minuti di applausi rendono onore al mastodontico lavoro che l’opera ha alle sue spalle.

Foto di copertina di Ramella&Giannese

 

Recensione di Tobia Rossetti e Marida Bruson

Il Falstaff di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Torino

“Questo non è Verdi!” è un’esclamazione tipica degli ammiratori verdiani, dell’Ottocento e di oggi, che assistono al Falstaff. L’opera debutta il 9 febbraio 1893 alla Scala e riscuote uno strepitoso successo alla sua prima: vengono chiesti molti bis e gli applausi durano più di un’ora. Le successive rappresentazioni, tuttavia, lasciano perplesso il grande pubblico di Verdi e in generale i melomani italiani. Falstaff è un’opera comica che, attraverso il superamento del canto lirico e la ricerca sull’orchestrazione, accantona le convenzioni formali dell’opera italiana.

Il libretto è di Arrigo Boito, che per Giuseppe Verdi aveva già scritto l’Otello (1887). È tratto da Le allegre comari di Windsor e da Enrico IV, nel quale compare per la prima volta il personaggio di sir John Falstaff: un uomo non più giovane e dalla corporatura enorme, la cui fisicità ingombrante è parte della sua personalità, come le parole di Boito mettono in evidenza e come la musica di Verdi sa rendere in modo plastico. La grassezza di Falstaff è una condizione di vita, e arriva anche a salvarlo quando cade nel Tamigi, vittima di una crudele burla. La sottile ricerca orchestrale di Verdi, declinata qui con effetti analitici, entra in contrasto drammatico con la figura grossolana del personaggio, con la sua pancia in cui trova dimora la sua stessa identità: se si assottigliasse, infatti, non sarebbe più lui. Ci troviamo di fronte a un personaggio profondamente umano, comico nel contrasto stridente tra le velleità di seduttore e le reali possibilità, ma portatore di un’energia tragica. Ridiamo della pancia di Falstaff ma, allo stesso tempo, ci fa piangere la sua solitudine. Il raffinato gioco musicale che questo personaggio shakespeariano richiede per emergere in tutta la sua teatralità porta Verdi a scrivere qualcosa di diverso dalla melodia orecchiabile.

Gli spettatori della prima al teatro Regio di Torino, il mercoledì 15 novembre di quest’anno, hanno applaudito con calore questo Falstaff, interpretato da Carlos Álvarez che, forte della sua presenza scenica e vocale, dà vita ad un personaggio ironico, non esagerato, che sfiora la commozione nel bilancio della sua esistenza e che sa scuotersi dalla malinconia per consegnarci la saggia conclusione in stile fugato: «Tutto nel mondo è burla». La pronuncia nitida permette anche a chi non conosce bene il libretto di cogliere le parole di Boito e di seguire la vicenda.

La regia di Daniele Abbado, figlio del grande direttore Claudio, ci accompagna in quell’atmosfera shakespeariana (ma anche mozartiana) di gioco, travestimenti e inganni. Abbado ha respirato fin dall’infanzia l’aria vivificante del teatro musicale e nella sua carriera ha ricercato il dialogo tra i diversi linguaggi dello spettacolo: sa comprendere quanto sia importante che ogni singolo elemento converga verso un unico fine, in un’armonia che permetta allo spettatore di godere dell’insieme, anche nel caso non si possegga il retroterra culturale per cogliere tutte le risonanze dell’opera.

Lo spettacolo si caratterizza per l’agilità e la leggerezza, grazie alla scena unica realizzata da Graziano Gregori e alle luci nette di Luigi Saccomandi. I personaggi e gli elementi di arredo ci sorprendono apparendo da botole o calando dall’alto, grazie a sottili carrucole, su una piattaforma circolare che rimanda allo spazio scenico del teatro elisabettiano.

I costumi di Carla Teti sono semplici e collocano la vicenda in una dimensione atemporale, pur evocando, in ciascun personaggio, aspetti propri del carattere: i pizzi lisi per la nobiltà decaduta del protagonista o gli abiti che segnano le forme dei corpi femminili delle allegre comari. Quest’ultime, Erika Grimaldi (Alice), Sonia Prina (Quickly), Monica Bacelli (Meg), Valentina Fargas (Nannetta) si uniscono a Tommi Hakala (Ford), Francesco Marsiglia (Fenton), Andrea Giovannini (Cajus), Patrizio Saudelli (Bardolfo), Deyan Vatckov (Pistola) nelle belle scene d’assieme.

Nella direzione di Donato Renzetti “si percepiscono” la leggerezza e l’ironia sottile dell’opera, in sintonia con l’idea registica. Questo “percepire” crea l’inesauribile e incantevole bellezza del teatro lirico: chiunque, anche chi non ha avuto il privilegio, o l’interesse, di un’educazione musicale, può abbandonarsi al flusso di quello che accade in scena, che non sarà certo verosimile, ma è senz’altro portatore di una verità che arriva allo spettatore attento.

Recensione di Marida Bruson

 

 

(Foto di copertina Ramella&Giannese © Teatro Regio Torino)