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Lezioni di Teoria alla Lavanderia a Vapore – Esperienza e Memoria

Nella serata del 13 dicembre, presso la Lavanderia a Vapore di Collegno, la celebre compagnia belga ROSAS ha presentato il suo nuovo ed attesissimo lavoro, A Love Supreme, un’intensa coreografia di cinquanta minuti scritta sulle musiche dell’omonimo disco di John Coltrane. L’egregio dialogo tra scrittura musicale e coreica, messo a punto da Anne Teresa De Keersmaeker e Salva Sanchis, ha motivato alcuni incontri storico-teorici tenutisi nelle ore precedenti allo spettacolo, negli spazi della stessa Lavanderia. Le lezioni hanno visto la partecipazione di Susanne Franco, studiosa dell’Università Ca’ Foscari Venezia, e del musicologo Luca Bragalini.

La prima, svoltasi nel pomeriggio all’interno della sala prove, si inserisce nel percorso di formazione Botteghe d’Arte, che la Lavanderia a Vapore (con il supporto di Piemonte dal Vivo) ha avviato insieme alla Rete Anticorpi XL in collaborazione con la  NOD (Nuova Officina della Danza), offrendo una buona commistione di pratica e teoria ai professionisti del settore. Susanne Franco ha illustrato quelle peculiarità proprie della teoria della danza che ne fanno una disciplina tanto difficile quanto affascinante da approcciare. Esistono infatti, ci insegna la studiosa, due tipi di archivi dai quali attingere la storia della danza: i documenti segnici (foto, video, scritti, disegni, che raccontano di una determinata produzione coreografica) e i corpi dei danzatori sui quali la coreografia stessa è stata scritta. Dall’incontro di questi due serbatoi di memoria, ontologicamente molto diversi, emergono molteplici modalità di ricostruzione del passato coreutico che Susanne Franco, attingendo dal saggio di André Lepecki Il corpo come archivio, ha delineato attraverso alcuni casi topici. Primo quello di Lamentation, celebre solo di Martha Graham presentato dalla stessa autrice negli anni trenta, la quale ne modificò considerevolmente alcuni tratti quando, quarant’anni dopo, lo ricostruì, interpretato da Peggy Lyman. Secondo caso, il dissacrante pezzo che Jerome Bel ha scritto nel 2004 per la danzatrice Véronique Doisneau, ballerina del corpo di ballo dell’Opera di Parigi, la quale racconta, in scena, di come gli agi e i disagi del suo lavoro e del suo ruolo professionale abbiano influito sulla sua vita personale.

Susanne Franco ha poi invitato i partecipanti, prevalentemente addetti ai lavori (danzatori e/o coreografi) a riflettere sul complesso concetto di copyright applicato alla danza. A chi appartiene un’opera creata e firmata da un autore ma scritta sul e con il corpo di un interprete, il quale ne rende a sua volta possibile l’esistenza e la trasmissione? La studiosa ha preso a esempio il caso clamoroso di Richard Move, danzatore in grado di imitare lo stile e il carattere di Martha Graham in maniera tanto fedele da addossarsi più denunce da parte dei possessori dei diritti della Graham. Il processo ha interessato avvocati, critici e teorici, tra i quali lo stesso Lepecki. Addirittura Yvonne Rainer, storica coreografa della post-modern dance, si è cimentata nel tentativo di una “trasmissione impossibile”, cercando di insegnare (con scarsi risultati) i passi del suo Trio A alla finta Martha Graham interpretata da Move. L’ultimo caso di studio analizzato dalla ricercatrice è stato quello della Seasons March, semplice sequenza coreografica scritta da Pina Bausch per i danzatori della sua compagnia, i quali oggi insegnano la stessa sequenza ad amatori di tutto il mondo attraverso video tutorial accessibili a chinque. Sono così gli stessi fan della coreografa tedesca a farne rivivere la memoria attraverso il loro corpo, “appropriandosi” fisicamente dell’opera d’arte. I numerosi cortocircuiti culturali e coreografici esposti da Susanne Franco, in ultima istanza, dimostrano come la memoria necessiti di essere esperita per non perdere il suo profondo significato. Soprattutto nel campo della danza.

Foto di Fabio Melotti

Successivamente, nel corso della serata, si sono succeduti altri due incontri, interni al nuovo programma di formazione del pubblico avviato dalla casa della danza collegnese, denominato Scuola dello Spettatore. Gli interventi, propedeutici allo spettacolo A Love Supreme ed aperti a tutti, hanno trattato il primo la carriera musicale di John Coltrane e l’intrecciarsi di questa con la ricerca spirituale, il secondo la vita e la poetica dell’apprezzatissima coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker. Luca Bragalini ha introdotto gli spettatori al mondo intimo e creativo di uno tra i più geniali compositori nella storia della musica jazz, capace di reinventarsi ad ogni incisione, il quale, proprio nell’ultima traccia di A Love Supreme (1965), ha spinto la sperimentazione compositiva all’estremo, registrando una parte di sassofono fedelmente suonata secondo la metrica del testo di una preghiera da lui precedentemente scritta. Similmente, la coreografia presentata in prima regionale la stessa sera alla Lavanderia a Vapore, traduce la fitta partitura musicale di ogni singolo strumento presente nel disco in un tessuto di precisissimi movimenti affidati ad ognuno dei quattro danzatori in scena. Ancora Susanne Franco, infatti, ha poi illustrato la coretica dell’autrice belga, unica nel suo genere, e non a caso estremamente influenzata dallo studio della musica (la giovane De Keersmaeker ha infatti frequentato il conservatorio per qualche anno prima di virare verso la danza ed iscriversi alla Scuola Mudra di Maurice Béjart). “È una coreografa che pensa da musicologa – racconta la Franco – e che ha sviluppato uno stile compositivo di una complessità disarmante”. La lezione ripercorre esaustivamente le tappe dell’avvincente biografia dell’artista, dalle prime produzioni della compagnia al femminile ROSAS, fino all’apertura del P.A.R.T.S. a Bruxelles, forse ad oggi il più celebre e discusso centro di formazione di danza contemporanea di tutta Europa.

L’interessante ciclo di lezioni tenutosi alla Lavanderia a Vapore le vale a pieno merito il titolo di centro regionale per la danza in Piemonte, e, oltre ad incuriosire gli spettatori, informa gli addetti ai lavori di come la ricerca storica e teorica sia necessaria alla pratica coreutica e a sua volta bisognosa di stringere un più fertile rapporto con danzatori e coreografi. Inoltre l’eterogeneità delle materie trattate ci dimostra come il rapporto tra musicologi e teorici della danza, seppur imprescindibile, sia ancora attraversato da molta timidezza. Timidezza che, se nei primi è dettata da una storica posizione di superiorità culturale, nei secondi è quanto mai, ad oggi, ingiustificata. Musica e danza devono essere studiate insieme, non tanto per evidenti affinità contenutistiche, bensì per coincidenze metodologiche e, soprattutto, di linguaggio. Perché, citando il pensiero della De Keersmaeker, che delle due discipline ha fin da subito compreso la fondamentale inseparabilità, “la danza è un modo di agire, crescere e pensare che più di altri linguaggi richiede di svilupparsi in un contesto collettivo”.

Tobia Rossetti

Foto di copertina di Fabio Melotti

 

Una pioggia di truciolato e d’applausi

Dal  29 novembre  al 3 dicembre 2017, all’interno del cartellone dello stabile al Teatro Carignano, è stato messo in scena il Pinocchio di Latella.

Nella memoria dei più non è più presente il Pinocchio scritto da Carlo Lorenzini bensì quello raccontato dalla Disney. Da questo bisogna partire per capire la scelta di mettere in scena lo spettacolo di Latella. C’è  il desiderio di distruggere un immaginario oramai ridondante per tornare all’originale, ma allo stesso tempo riletto in chiave personale, con spunti di riflessioni moderne.
Un grosso tronco è sospeso in orizzontale, abbiamo una porta di metallo che sbatte nell’arco della rappresentazione, un tavolo da falegname e tutt’attorno piccoli mucchi di truciolato, sotto a cui sono nascosti alcuni personaggi.
In scena  viene portato effettivamente il Pinocchio collodiano; un tronco che aveva del magico fin da quand’è stato tagliato, Mastro Ciliegia e Geppetto che litigano e se le danno, Geppetto che dà forma al suo Pinocchio, già briccone ed energico, pronto ad imparare  da ciò che ha intorno. La prima parte dello spettacolo segue perfettamente la narrazione del romanzo, mentre Christian La Rosa (Pinocchio) si agita in scena, con addosso una pesante e limitante imbragatura a cui è attaccato un ceppo di legno. Il burattino è  come un bambino, interessato a conoscere il mondo, ma allo stesso tempo è molto di più perché desidera conoscerlo tutto in una volta, stando in piedi sulle proprie gambe e senza dare retta a nessuno, neanche a Geppetto o al Grillo. Il rapporto tra i tre in particolare è molto importante. In scena viene rappresentata una specie di trinità che si percepisce nei loro movimenti, negli spasmi che Pinocchio ha per la fame che si ripercuotono pure su Geppetto e il Grillo. Dopo la morte del Grillo sarà meno evidente questo collegamento con Pinocchio, invece ne primo tempo  e in buona parte del secondo sarà incessante con il Creatore Geppetto.
Per tutto il primo tempo si ha davanti uno spettacolo che chiaramente non vuole essere una fiaba, seppur pare presentarsi come tale per la leggerezza con cui inizia, per l’impianto scenografico semplice ed essenziale (anche se al Carignano non si ha goduto appieno di ciò, essendo lo spettacolo creato per le dimensioni del palco del Piccolo di Milano), che richiede fantasia del pubblico ad immaginare gli spostamenti dei personaggi in vari ambienti, e soprattutto per la magica pioggia di truciolato sul palco.

 

Con l’inizio del secondo tempo l’atmosfera cambia, si fa più cupa e ci si chiede come farà Pinocchio a salvarsi, a imparare dai propri errori e a diventare un bambino vero. Tutto sembra perso e ci si aspetta l’intervento magico della Fata Turchina, che invece ci sorprende perché è tutto fuorché buona e generosa. Anzi è una fata invecchiata che vorrebbe avere per sé Pinocchio. Desidera essere la sua mamma e non accetta di buon occhio di doverlo ricondurre da Geppetto, tant’è che non lo aiuta veramente. La vera svolta dello spettacolo si ha in questo secondo tempo, dove la narrazione non rispetta più tutti i tempi dettati da Collodi, dove Pinocchio ha imparato dai suoi sbagli e diventa diligente, un perfetto studente modello. Nel grigiore di una vita monotona, lontano dal padre a cui si vorrebbe ricongiungere e stimolato da Lucignolo, si concede un’ultima bravata. Il Paese dei Balocchi si è rivelato l’ennesimo sbaglio e Pinocchio si separa del tutto dal suo lato esagitato e sfrenato, abbandona il Ceppo che ha sempre avuto addosso.

Nel finale abbiamo un dialogo tra un Pinocchio oramai adulto e un Geppetto troppo vecchio e inacidito. Geppetto non vuole più avere nulla a che fare con la sua creatura, non l’ha mai desiderata se non per necessità e Pinocchio vorrebbe un dialogo, un confronto e finalmente amore. Ma non è più possibile e tutto si spegne lasciando una profonda amarezza, che il pubblico ha accolto positivamente scoppiando in un collettivo applauso sia alla fine del primo tempo che alla chiusura definitiva del sipario.
Personalmente trovo che Latella abbia fatto un lavoro importante, portando in scena uno spettacolo che andrei a rivedere più volte anche a causa della difficoltà del sottotesto teatrale, dei suoi simboli, delle citazioni e dei momenti di riflessione sul teatro. La scenografia è in linea con ciò che Latella ha già fatto altre volte e Christian La Rosa è stato a dir poco eccezionale, mantenendo una carica continua. Gli si vedeva proprio colare il sudore in fronte pure dal fondo della sala. Apprezzabile in generale anche il lavoro degli altri attori, seppur nutro perplessità nei confronti di Anna Coppola (la Fata) che riusciva a spiccare più nelle scene collettive che in quelle in cui aveva monologhi e l’attenzione era concentrata su di lei.
Andreea Hutanu

Aperiscena

A qualche settimana dal nostro evento, cogliamo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno partecipato,
coloro che sono venuti e si sono divertiti,
al Cafè della Caduta che ci ha ospitato,
e un forte ringraziamento anche ai Professori Armando Petrini e Federica Mazzocchi che sono i nostri pilastri!
Un grande Grazie e cogliamo l’occasione per augurarvi
BUONE FESTE!

La Redazione

C’era una volta Pinocchio

C’era una volta Carmelo Bene, poi Comencini e infine Latella. Antonio Latella e il suo Pinocchio, andato in scena dal 29/11 al 3/12 al Teatro Carignano, una produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.
Ad accoglierci una scena completamente aperta, col fondo palco a vista e le casse in alto che fanno parte della scenografia, tipico di Latella. Oltre a questo, alcuni elementi che scopriremo più tardi l’utilizzo e un tavolo, sotto il quale si intravedono le gambe incrociate di un personaggio che mima con le mani tutto quello che succede prima di fare il suo ingresso in scena: il futuro Pinocchio, Christian La Rosa.
La storia la conosciamo tutti: il Burattino magico che diventa Bambino. Latella però  non ci mostra la versione che tutti da bambini abbiamo ascoltato. Piuttosto, lavora su Collodi e la sua vita, sulla perdita della sua bambina, sul dover far resuscitare Pinocchio per la stessa ragione capitata a Sir Arthur Conan Doyle con i suo Sherlock Holmes.
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UNA “SCANDALOSA GRANDEZZA”: A OTTANT’ANNI DALLA NASCITA DI CARMELO BENE

Mercoledì 13 Dicembre si è svolto presso Palazzo Nuovo un convegno dedicato alla controversa e singolare figura di Carmelo Bene, che proprio quest’anno avrebbe compiuto ottant’anni. Sembra quasi impossibile inquadrare completamente questo grande artista, che negli anni del suo lavoro ha sempre scatenato sentimenti e reazioni potenti, sia in negativo che in positivo. Scandali, ma un’innata genialità: già il titolo del convegno mette in evidenza la profonda contraddittorietà incarnata da Carmelo Bene, che per tutta la sua esistenza ha cercato di mostrare quanto ormai fosse impossibile parlare di attore tragico, mostrandolo apertamente al pubblico. Durante il convegno non si è parlato però solo dell’attore, ma anche del regista, del drammaturgo, del pensatore, del filosofo, dell’intellettuale, del letterato, che ha orbitato attorno al teatro, al cinema, alla televisione e alla radio, costruendo così una carriera che ha toccato molti aspetti dell’arte; nel corso del convegno infatti abbiamo ascoltato vari punti di vista di esperti del settore che hanno cercato di mettere a fuoco l’opera complessa di Carmelo Bene.

Dopo l’introduzione dell’organizzatore del convegno Armando Petrini, professore dell’Università di Torino, il primo a intervenire è stato Piergiorgio Giacchè, antropologo e autore della monografia Carmelo Bene: antropologia di una macchina attoriale. Innanzitutto Giacchè ha spiegato che lo scandalo provocato da Bene è dovuto principalmente a una sorta di “permalosità” del pubblico, che veniva direttamente provocato e soprattutto abbandonato, poiché assisteva a degli spettacoli creati appositamente per non essere compresi: siamo quindi di fronte a un uomo scandaloso sia dal punto di vista politico sociale che da quello dell’abbandono del teatro ufficiale, dove l’arte rompeva il senso comune e il rapporto con il pubblico. Giacché individua nella carriera di Carmelo Bene tre atti unici, tali per originalità e irripetibilità:

  • Separazione dal pubblico: si tratta di una scelta di solitudine, Bene si isolava usando soprattutto monologhi, distruggeva il tessuto drammatico evitando la prosa e usando il ritmo musicale, trasmettendo così l’impossibilità dell’azione teatrale. L’ironia era la chiave di questa separazione, che poteva irritare o attrarre il pubblico.
  • Sublimazione della voce: l’ironia si realizza separando il segno dal senso delle parole: in questo la voce è sublime. Tramite i risuonatori, che attraversano il corpo, sembra di stare in ascolto di se stessi e non della voce dell’attore; ogni frase detta sembra essere una domanda che diventa teatralmente reale. La sublimazione della voce fa sparire la conversazione, e questo eco ha sempre l’accento finale, come una musica in levare.
  • Sparizione della macchina attoriale: Come può l’attore sparire? Negandosi deve sparire l’identità, che non è altro che una imposizione sociale che annulla la vita. L’attore deve diventare inorganico, una macchina che possa innalzarsi sopra di esso.

Il secondo intervento è stato di Emiliano Morreale, docente di Cinema presso l’Università di Roma, che ha analizzato la figura cinematografica di Bene. Quest’ultimo affermava che il cinema non fosse mai esistito e per questo possiamo intuire che per lui la macchina da presa fosse in realtà uno strumento per accentuare ancora di più la separazione dal pubblico. Attraverso questo mezzo egli voleva complicare ancora di più la visione, il film è un dispositivo per l’accecamento attraverso l’eccesso di colori, oggetti e immagini. La negazione del cinema di Bene è poi un modo per interrogarsi sul cinema stesso, che forse è un’arte con delle potenzialità inespresse, che non ha mai raggiunto i suoi obbiettivi. Anche in questo caso Bene mostra l’impossibilità di fare cinema negandolo, realizzando quindi delle opere totalmente diverse da qualsiasi film lo avesse preceduto e sabotando una dopo l’altra tutte le potenzialità del cinema: distrugge la sceneggiatura, il montaggio diventa un momento di distruzione delle riprese e il doppiaggio la distruzione del montaggio; ogni atto della realizzazione del film è un’opera d’arte di distruzione pura.

Donatella Orecchia, anche lei docente presso l’Università di Roma, ci parla invece del Non – Attore che è stato Bene, riferendosi alla perdita dell’aura dell’attore che si confronta con il suo doppio grottesco che deride la tensione al tragico e ribalta parodicamente il senso di un teatro che non riesce a riconoscere la sua impossibilità. Bene studia le tecniche del Grande Attore per poi citarle ribaltandole completamente, ma studia anche con passione Ettore Petrolini, nel quale possiamo individuare un suo “predecessore” per l’idea della deformazione così esasperata che anela alla sparizione.

Dopo la pausa  ci accoglie Roberto Tessari, a lungo docente dell’Università di Torino, con un intervento dal taglio filosofico che analizza il romanzo e il film Nostra Signora dei Turchi, soprattutto per quanto riguarda l’accostamento della figura del santo e dell’attore. Tessari individua come elemento comune quello di eccedere tutte le norme, infrangere ogni limite per raggiungere uno stato di creatività simile all’estasi del Santo. L’attore è colui che la visione mistica non può o/e non vuole averla, mentre il Santo è chi riesce ad averla e ci crede fermamente. Questo rapporto tra attore e santo si basa sulla negazione dell’Io: oggettivarsi è l’obbiettivo comune, il Santo vive un’illusione di oggettivarsi in sé, di identificarsi in questo modo con Dio, mentre l’attore persegue l’eclissi del proprio Io tramite un’idiozia controllata.

Sergio Ariotti, studioso e critico, direttore del Festival delle Colline Torinesi, ci racconta invece in maniera aneddotica, e per questo affettuosa e divertente, il periodo della registrazione dell’Otello televisivo di Carmelo Bene nel ‘79, alla quale ha potuto assistere personalmente. Anche se questa azione rientrava in una prassi piuttosto consolidata in quegli anni, ovvero di riprendere uno spettacolo teatrale e registrarlo negli studi televisivi, lo scontro di Carmelo con il mezzo televisivo fu molto interessante. Bene non voleva adottare una tecnica di ripresa standard, le sue erano riprese estenuanti quasi come performance teatrali. Bene aveva un approccio innovativo che lo ha portato a diversi scontri con gli operatori e a difficoltà. Va però ricordato che chi ha vissuto queste riprese si trovava di fronte a un Genio che stava sconvolgendo e rivoluzionando questo tipo di lavoro con consapevolezza, poiché Carmelo Bene sapeva tutto anche degli aspetti più tecnici, faceva delle richieste chiare e specifiche e la sua fu quindi anche una grandissima lezione di tecnica televisiva su come superare ad esempio il guaio dei contrasti, dato che aspirava a una saturazione dei bianchi che sembrava impossibile ai registi. Purtroppo la messa in onda di questo Otello, nel 2000, non è riuscita a sottolineare lo sperimentalismo dato che il materiale nel frattempo era stato interamente digitalizzato; quella che si può vedere ad oggi non è altro che una rielaborazione dell’opera che ci dà solo il senso delle riprese: Bene non ci mise mai mano direttamente, il montaggio è infatti quello classico televisivo e possiamo dunque concludere che quasi sicuramente lui lo avrebbe fatto in maniera totalmente differente.

A conclusione di questa interessante giornata Franco Prono, docente di Cinema all’Università di Torino, ci parla di che cosa ha significato l’intervento di Carmelo Bene all’interno della televisione italiana, proiettando alcuni spezzoni di trasmissioni alle quali Bene partecipò come ospite. Quello che si può notare è che Bene si presta al gioco della trasmissione in cui si trova, ovviamente esprimendo il suo punto di vista, ma mantenendo nelle diverse occasioni il giusto profilo richiesto dallo spettacolo al quale era stato invitato. Nonostante quindi egli abbia più volte espresso un giudizio negativo sulle trasmissioni televisive e su chi le realizza, Bene secondo Prono si presta ad esse come un vero uomo di spettacolo, camaleontico leone da palcoscenico che sa adattarsi con intelligenza a tutte le situazioni: un’ulteriore contraddizione presente all’interno del grande, e scandaloso, Carmelo Bene.

A cura di Alice Del Mutolo

La densa nebbia pasoliniana arriva a Torino – Caffè della Caduta

Il 14 e il 15 dicembre scorsi al Teatro Della Caduta è stato messo in scena lo spettacolo La Nebbiosa, che Pier Paolo Pasolini scrisse come sceneggiatura cinematografica – pur non essendo mai stato trasposto in pellicola – e che LinguaggiCreativi ha trasformato in opera teatrale.

L’idea di far diventare La Nebbiosa uno spettacolo teatrale è di Paolo Trotti e Stefano Annoni, curato registicamente dal primo e con attori Diego Paul Galtieri e Stefano Annoni. Ha vinto il premio “Next – Laboratorio di idee per la produzione e distribuzione dello spettacolo dal vivo lombardo”, promosso dalla Regione Lombardia, ed è andato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano per undici sere consecutive.

Lo spettacolo comincia in un nightclub milanese, si esibisce Miss Malafemmina (burlesque) incitata dal presentatore che poi ci narrerà la storia dei Teddy Boys, una banda di teppisti che danno sfogo alla loro violenza la sera di Capodanno a Milano. Il piccolo Cino, fratello di uno dei membri della banda formata da Rospo, Gimkana, Teppa, Elvis, Contessa e Mosè, ci racconta dal suo punto di vista le  avventure accadute quella sera. Il gruppo ruba dei gioielli che agghindavano la Madonna di una chiesa, picchiano e maltrattano un prete e una barbona, devastano una villa, rapiscono due donne borghesi con le quali si scatenano a mezza notte.

Il fratellino è affascinato dal modo di comportarsi di questo gruppo, vorrebbe farne parte anche lui e cerca di emularli, ma la differenza di età non gli permette di fare parte del loro mondo. Cino viene fortemente segnato dai gesti del gruppo, pur non essendo estremamente brutali, tanto che all’alba involontariamente sarà lui a portare la banda ad un punto di svolta. Avverrà una trasformazione e la loro trasgressione diventerà conformismo, avvicinandoli al mondo degli adulti che poche ore prima disprezzavano.

Al contempo c’è un’alternanza tra momenti recitativi e di descrizione degli avvenimenti, molti dei quali sono prettamente cinematografici, come se venisse letta effettivamente la sceneggiatura di Pasolini. Stefano Annoni narra mentre Diego Paul Galtieri ci accompagna con un ritmo rock ‘n’ roll suonato da una batteria ed entrambi recitano. In scena i due attori interpretano i vari personaggi, alternandoli freneticamente ma dando una caratterizzazione e un modo di fare personale per ciascuno di loro, rendendoli inconfondibili e mantenendo chiara la trama.
Come ci ha raccontato la compagnia, prima di lavorare personalmente sulla messa in scena del testo, hanno realizzato un workshop con non professionisti per testare il testo, che è stato tagliato e rimodellato. Durante questa esperienza i due attori hanno preso spunto dalle interpretazioni acerbe dei principianti e hanno così arricchito i personaggi da portare in scena.

Il testo contiene avvenimenti che si possono ricollegare ad Arancia Meccanica, trattando sempre di giovani ribelli, però Pasolini ci consegna una versione più soft, in cui comunque oltre al maltrattamento non c’è crudele violenza fisica. Per questo motivo la compagnia non ha neanche lontanamente pensato di creare un impianto scenografico che rimandi al film di Kubrick. Ha preferito mantenere una linea cinematografica usando un telo bianco, spesso durante lo spettacolo illuminato da dietro, facendoci vedere sagome retrostanti, e delle luci in scena poste accanto ad un microfono e ad una panca, che sollevano e spostano durante lo spettacolo. Quindi si può intuire quanto le luci siano importanti in questa messa in scena; assieme alla musica segmentano le vicende, aiutano a darci il senso di cambio d’ambientazione all’interno della Milano caotica, festaiola e nebbiosa.

La scelta da parte della compagnia di questo testo di Pasolini deriva dalla voglia di portare in scena un’opera che mostrasse il lato comico e d’azione dello scrittore. Pasolini scrisse delle canzoni di cabaret e lo spettacolo ne ha preso ispirazione, cercando di mostrare il lato leggero di Pasolini ma sempre critico, soprattutto verso la borghesia milanese. Inoltre il testo è rimasto ancora attuale e ha molti spunti di riflessione,contenuti che possono colpire un pubblico di diverse età.

Articolo scritto da Roberto Lentinello e Andreea Hutanu.

LA NEBBIOSA
Di Pier Paolo Pasolini
Adattamento Paolo Trotti e Stefano Annoni
Con Diego Paul Galtieri e Stefano Annoni
Scene e costumi Giada Gentile
Regia Paolo Trotti
Produzione Teatro Linguaggicreativi

A LOVE SUPREME_Sinestesia che danza

La Lavanderia a Vapore di Collegno è stato il primo palcoscenico Piemontese a ospitare il capolavoro di Salva Sanchis e Anne Teresa De Keersmaeker A Love Supreme, coreografia per quartetto di danzatori sulle note dell’omonimo e celeberrimo brano di John Coltrane. Lo spettacolo si apre in un sorprendente silenzio. Continua la lettura di A LOVE SUPREME_Sinestesia che danza

Il Falstaff di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Torino

“Questo non è Verdi!” è un’esclamazione tipica degli ammiratori verdiani, dell’Ottocento e di oggi, che assistono al Falstaff. L’opera debutta il 9 febbraio 1893 alla Scala e riscuote uno strepitoso successo alla sua prima: vengono chiesti molti bis e gli applausi durano più di un’ora. Le successive rappresentazioni, tuttavia, lasciano perplesso il grande pubblico di Verdi e in generale i melomani italiani. Falstaff è un’opera comica che, attraverso il superamento del canto lirico e la ricerca sull’orchestrazione, accantona le convenzioni formali dell’opera italiana.

Il libretto è di Arrigo Boito, che per Giuseppe Verdi aveva già scritto l’Otello (1887). È tratto da Le allegre comari di Windsor e da Enrico IV, nel quale compare per la prima volta il personaggio di sir John Falstaff: un uomo non più giovane e dalla corporatura enorme, la cui fisicità ingombrante è parte della sua personalità, come le parole di Boito mettono in evidenza e come la musica di Verdi sa rendere in modo plastico. La grassezza di Falstaff è una condizione di vita, e arriva anche a salvarlo quando cade nel Tamigi, vittima di una crudele burla. La sottile ricerca orchestrale di Verdi, declinata qui con effetti analitici, entra in contrasto drammatico con la figura grossolana del personaggio, con la sua pancia in cui trova dimora la sua stessa identità: se si assottigliasse, infatti, non sarebbe più lui. Ci troviamo di fronte a un personaggio profondamente umano, comico nel contrasto stridente tra le velleità di seduttore e le reali possibilità, ma portatore di un’energia tragica. Ridiamo della pancia di Falstaff ma, allo stesso tempo, ci fa piangere la sua solitudine. Il raffinato gioco musicale che questo personaggio shakespeariano richiede per emergere in tutta la sua teatralità porta Verdi a scrivere qualcosa di diverso dalla melodia orecchiabile.

Gli spettatori della prima al teatro Regio di Torino, il mercoledì 15 novembre di quest’anno, hanno applaudito con calore questo Falstaff, interpretato da Carlos Álvarez che, forte della sua presenza scenica e vocale, dà vita ad un personaggio ironico, non esagerato, che sfiora la commozione nel bilancio della sua esistenza e che sa scuotersi dalla malinconia per consegnarci la saggia conclusione in stile fugato: «Tutto nel mondo è burla». La pronuncia nitida permette anche a chi non conosce bene il libretto di cogliere le parole di Boito e di seguire la vicenda.

La regia di Daniele Abbado, figlio del grande direttore Claudio, ci accompagna in quell’atmosfera shakespeariana (ma anche mozartiana) di gioco, travestimenti e inganni. Abbado ha respirato fin dall’infanzia l’aria vivificante del teatro musicale e nella sua carriera ha ricercato il dialogo tra i diversi linguaggi dello spettacolo: sa comprendere quanto sia importante che ogni singolo elemento converga verso un unico fine, in un’armonia che permetta allo spettatore di godere dell’insieme, anche nel caso non si possegga il retroterra culturale per cogliere tutte le risonanze dell’opera.

Lo spettacolo si caratterizza per l’agilità e la leggerezza, grazie alla scena unica realizzata da Graziano Gregori e alle luci nette di Luigi Saccomandi. I personaggi e gli elementi di arredo ci sorprendono apparendo da botole o calando dall’alto, grazie a sottili carrucole, su una piattaforma circolare che rimanda allo spazio scenico del teatro elisabettiano.

I costumi di Carla Teti sono semplici e collocano la vicenda in una dimensione atemporale, pur evocando, in ciascun personaggio, aspetti propri del carattere: i pizzi lisi per la nobiltà decaduta del protagonista o gli abiti che segnano le forme dei corpi femminili delle allegre comari. Quest’ultime, Erika Grimaldi (Alice), Sonia Prina (Quickly), Monica Bacelli (Meg), Valentina Fargas (Nannetta) si uniscono a Tommi Hakala (Ford), Francesco Marsiglia (Fenton), Andrea Giovannini (Cajus), Patrizio Saudelli (Bardolfo), Deyan Vatckov (Pistola) nelle belle scene d’assieme.

Nella direzione di Donato Renzetti “si percepiscono” la leggerezza e l’ironia sottile dell’opera, in sintonia con l’idea registica. Questo “percepire” crea l’inesauribile e incantevole bellezza del teatro lirico: chiunque, anche chi non ha avuto il privilegio, o l’interesse, di un’educazione musicale, può abbandonarsi al flusso di quello che accade in scena, che non sarà certo verosimile, ma è senz’altro portatore di una verità che arriva allo spettatore attento.

Recensione di Marida Bruson

 

 

(Foto di copertina Ramella&Giannese © Teatro Regio Torino)

Batman Blues – Caffè della Caduta

All’interno del cartellone del Teatro Della Caduta, nei giorni venerdì 1 e sabato 2 dicembre, la Compagnia Il Misterioso Collettivo del Nano Egidio ha messo in scena Batman Blues, il secondo capitolo della trilogia dedicata al Nano Egidio.

Uno spettacolo teatrale bizzarro con la commistione di elementi di teatro di figura, comicità di situazione, stand-up comedy e tante citazioni alla cultura POP e cinematografica.

Ci viene raccontata una storia noir con protagonista Batman, il super eroe più cupo dell’universo  DC Comics nei panni di un agente di polizia anticonformista, che indaga su una serie di omicidi collegati tra loro solo dal ritrovamento sulla scena del crimine dei CD dei Modà.
Nel caso vengono coinvolti tutti i suoi amici; Nano Egidio, Dotto, Assistente Gerardo e la sperimentale Dottoressa Nuda (Barbie). In più Batman durante le indagini conosce  anche Elisabetta The, suo unico amore che purtroppo viene uccisa dal temibile assassino, causando un grande shock a Batman. Dopo 2 anni, 2 mesi e 15 giorni Batman torna alla ricerca del colpevole e intanto ci racconta la sua storia tramite flashback.

Ciò che colpisce di più di questo spettacolo non è di certo l’impianto scenografico o la regia, ma che in scena ci siano tre attori (Marco Ceccotti, Simona Oppedisano e Francesco Picciotti) che contemporaneamente coadiuvano dei pupazzi e giocattoli. Sia la struttura narrativa che l’utilizzo di giocattoli si ricollegano all’infanzia, alle storie strampalate che si inventavano i bambini, all’utilizzo di giocattoli di immaginari differenti tra loro. Ma ciò che distingue questo spettacolo da un semplice gioco tra bambini è ovviamente tutto il lavoro di ricerca dell’ambiguità all’interno della narrazione, dell’ironia e di vicende demenziali e surreali. Oltretutto le citazioni sono molteplici e comprensibili ad un pubblico eterogeneo; riferimenti all’infanzia tramite la sigla delle audiocassette di racconti per bambini, citazioni a cartoni e film come South Park e Star Wars, presenza del complesso edipico e rimandi alla scena teatrale sperimentale (cenno a Carmelo Bene tramite la frase “Non fiori ma opere di Bene”).

La struttura scenografica è composta da una specie di teatrino con tende, che si aprono durante lo spettacolo per far apparire alcuni peluche, e da un tavolo che svolge anche la funzione di batmobile. La scena viene illuminata con un’alternanza di buio e luce, che segnano il passare il tempo durante il flashback e permettono cambi di scena immediati agli attori.

Batman Blues è uno spettacolo a cui assocerei in positivo l’aggettivo leggero. Per un ora il pubblico della Caduta ha alternato attenzione alla narrazione e continue risate, apprezzando molto il lavoro svolto dalla Compagnia de Il Nano Egidio.

Andreea Hutanu

 

Batman Blues. Season two de Il Nano Egidio
Da un’idea di Marco Ceccotti, Simona Oppedisano
Drammaturgia Marco Ceccotti
Regia Nano Egidio
Con (attori e burattinai) Marco Ceccotti, Simona Oppedisano, Francesco Picciotti
Luci Giacomo Cappucci
Pupazzi Francesco Picciotti
Scenografie Gianni Ceccotti, Francesco Picciotti
Costumi Marina Oppedisano, Giuliana Salvatori
Foto di scena Elena Consoli

OMAGGIO A LUCIO RIDENTI

Mercoledì 29 novembre 2017 al teatro Gobetti si è tenuto un incontro del ciclo Retroscena diverso dagli altri: ospite non era una compagnia teatrale, ma l’Università di Torino che in collaborazione con il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino ha presentato il volume Il laboratorio di Lucio Ridenti. Cultura teatrale e mondo dell’arte in Italia attraverso “Il Dramma”  (1925-1973).  Erano presenti i docenti curatori del volume, cioè Federica Mazzocchi, Silvia Mei e Armando Petrini,  accanto al professor Franco Perrelli e a Pietro Crivellaro, quest’ultimo per molti anni direttore del Centro Studi e figura fondamentale per la valorizzazione del patrimonio archivistico legato a Lucio Ridenti. Il volume è il risultato di un convegno promosso dall’Università e dal Centro Studi nella primavera del 2016.

L’incontro è cominciato con un intervento di Pietro Crivellaro, che ha offerto una breve, ma dettagliata analisi della figura di Lucio Ridenti, nato a Taranto e trasferitosi poi nel 1925 a Torino, dove passò  gran parte della sua vita.

Pioniere della radio e della televisione, fotografo, protagonista della vita mondana, attore ma anche scrittore e giornalista. La sua carriera nasce con una serie di libri di successo negli anni venti che analizzano e descrivono il mondo teatrale, ma raggiunge l’apice con la fondazione nel 1925 del periodico “Il Dramma” con Pitigrilli. Scrive anche per la “Gazzetta del Popolo” e poi per il “Radiocoriere”; da ricordare è anche la fondazione negli anni quaranta della rivista di eleganza femminile “Bellezza”.

E’ seguito poi l’intervento di Franco Perrelli che ha cominciato a descrivere, anche attraverso ricordi ed esperienze personali, le forti differenze esistenti fra i due principali punti di vista dell’epoca di cui erano portavoce due importanti riviste “Il Dramma” e “Sipario”.

Vengono citate figure vicine agli ideali di Ridenti come Bragaglia, sostenitore dell’attore italiano che improvvisa e ha un’esperienza che non può essere diretta dalla regia, ma anche più distanti come  D’Amico, che voleva invece un regista che rispettasse i testi e che fosse in grado di tenere a freno l’attore.

Armando Petrini ha analizzato la figura di Ridenti in particolare nel suo ruolo di critico, molto affascinato e interessato all’attore e alla recitazione, per un motivo anche biografico, pur non essendo mai stato un vero teorico. Viene poi sottolineato come nei suoi lavori non sia presente solamente una certa nostalgia e volontà di recuperare qualcosa che sta morendo, ma un’attenzione nei confronti della storia del grande attore e della figura dell’autore-attore e attore-direttore.

Federica Mazzocchi ha proseguito  descrivendo i carteggi con Paolo Grassi, Ivo Chiesa e Vito Pandolfi, sottolineando la ricchezza dei punti di vista e la schiettezza dei rapporti che ha sempre legato questi protagonisti della vita teatrale italiana.  “Il Dramma” emerge quale rivista caratterizzata da una spiccata vivacità e libertà, all’interno della quale erano presenti numerose opinioni anche contrastanti fra loro e non un pensiero unico, soprattutto per quanto riguarda il tema della regia.

L’incontro si è chiuso con l’intervento di Silvia Mei che si è concentrato sul forte legame presente fra la figura di Lucio Ridenti, la moda e le altre arti, soffermandosi sulla raffinatezza con cui Ridenti concepisce “Il Dramma” soprattutto tipograficamente e sull’importanza dell’elemento visivo. Fortemente riconoscibile è l’approccio sintetico e trasversale rispetto a tutte le discipline, ma anche un forte umanesimo, un gusto per le immagini e per la cura nell’impaginazione. Da non dimenticare è la passione di Ridenti per la fotografia, alla quale si avvicinerà ancor prima del teatro e che lo accompagnerà per tutta la vita.

                                                                                           di Daniela Frezzati