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HARLEKING / BROTHER – FESTIVAL INTERPLAY

Immaginate la potenza di una creazione capace di influenzare le rappresentazioni a distanza di cinque secoli. La commedia dell’arte riesce in questa impresa sconfinando nel mondo della danza con Harlekingdel duo italo-tedesco Gineva Enrico.
Ad aprire la stagione del festivalInterplaysono due giovani artisti che portano in scena un contemporaneo passo a due.La frivolezza della più celebre maschera della commedia dell’improvviso segue un canovaccio che prima lascia spazio all’improvvisazione per diventare sempre più vincolante. I riflettori si scaldano sui movimenti spontanei causati dalle contrazioni muscolari dovute al riso. Il mescolarsi del sogghigno con spasmi dovuti a conati non permette allo spettatore di rallegrarsi, e ricorda la fame senza freni della maschera originale. La forte gestualità passa attraverso la valorizzazione del corpo e delle pose attribuite all’Arlecchino del passato, in questo caso senza maschera, ma facilmente riconoscibile. La partitura diventa sempre più serrata fino ad entrare in un loop magnetico. La staticità delle gambe si contrappone al continuo moto delle braccia trasformate in arti meccanici e costrette ad eseguire una sequenza infinita sempre simile ma mai identica. Sorprende come il movimento dei due performer, nonostante si faccia minuto fino a ridursi al moto delle sole falangi, riesca ad ipnotizzare il pubblico.

“Brother” è una panoramica sul mondo del movimento. Marco Da Silva Ferreira, coreografo portoghese nominato Aerowaves Twenty18, utilizza i corpi dei sette performer come malleabile argilla prima della cottura. Presentando uno ad uno ogni danzatore, l’autore dona a ciascuno un momento solistico atto a mostrare le doti personali. Il movimento viscerale che caratterizza ognuno si distingue da quello degli altri compagni di scena per intensità, stile e utilizzo del corpo, dando così allo spettatore una varietà visiva fuori dal comune. Questa diversificazione la troviamo anche durante i momenti di insieme che, pur avendo una partitura ben  definita, lasciano la possibilità ad ogni interprete di dare un’impronta  personale  al gesto. Ritroviamo sul palco movimenti che percorrono la storia della danza fino ai tempi più recenti, nobilitando linguaggi come il voguing che difficilmente vengono illuminati dai riflettori di un palcoscenico di questo genere. Il sapiente utilizzo della musica dilata oltre al visivo la creazione di Marco Da Silva Ferreira creando echi dei versi primordiali prodotti dai ballerini durante lo sforzo fisico.

di Davide Peretti

INTERPLAY 2019
Associazione Culturale Mosaico Danza

HARLEKING
di e con Ginevra Panzetti, Enrico Ticconi
sound design Demetrio Castellucci
light design Annegret Schalke
costumi Ginevra Panzetti, Enrico Ticconi
illustrazioni e grafica Ginevra Panzetti
diffusione Marco Villari

BROTHER
direzione artistica e coreografia Marco Da Silva Ferreira
performers (fase creativa) Anaísa Lopes, Cristina Planas Leitão, Duarte Valadares, Filipe Caldeira, Marco da Silva Ferreira, Max Makowski, Vitor Fontes
assistente direzione artistica Mara Andrade
direzione tecnica e design luci Wilma Moutinho
musiche dal vivo Rui Lima and Sérgio Martins

“BUONA LA PRIMA” RUBRICA FRINGE FESTIVAL – UN’ORA DI NIENTE

UN’ORA!! SOLO IN UN’ORA! …Incredibile.
Niente da dire. E come si potrebbe dire qualcosa? Come si potrebbe dire tutto quell’universo di verità riassumendolo in queste poche e fugaci righe?! Eppure in una recensione, sarà pur questo che bisognerà fare.

Ora ci penso.
Raramente si vede qualcosa di simile. Uno spettacolo così non si può
Assurdamente sintetizzare, non si può incastonare in un riquadro, non lo si può svestire di quell’equilibrio aureo che ne è parte così essenziale.

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“Buona La Prima” Rubrica fringe festival – Samya jusuf omar

Odore di oriente che ti prende alle spalle. Una figura bianca materna, carnale, ma al tempo stesso leggera, come una vaporosa nuvola, compare sulla scena. La dimensione aerea e quella terrena si fondono, la voce calda di Valentina Volpatto attraversa la scena che brilla ancora della polvere del deserto, e poco alla volta il corpo di Samya Josuf Omar.

Olimpiadi di Pechino 2008 – Sulla linea di partenza dei 200 metri tutte le atlete, con i loro abiti attillati e colorati fatti di materiali tecnici per meglio fendere l’aria durante la corsa, si preparano alla partenza. Samya è una di loro, ma contrariamente alle altre indossa un paio di fuseaux neri e una maglia di cotone bianca con su la scritta Somalia, sulla fronte una fascia di spugna della Nike che le aveva regalato il padre prima di essere ucciso. Durante quella gara farà il suo miglior tempo ma arriverà ultima. Nessuno poteva immaginare che una giovane donna somala, mentre il suo paese era martoriato e afflitto dalla guerra civile, potesse avere il coraggio di andare contro tutto e tutti presentandosi alle olimpiadi.

Lo spettacolo ha debuttato il 9 maggio al Museo Egizio, è la prima volta che Valentina Volpatto si cimenta in un monologo di cui è anche autrice. E’ grande l’emozione, Valentina accetta la sfida perché si innamora della storia di Samya, sente l’urgenza di raccontarla per non dimenticarla, perché diventi un simbolo di coraggio, e dopo aver visto lo spettacolo come biasimarla, è difficile non innamorarsi di Samya. Lo spettacolo è emozionante e commovente, sedie e drappi che compongono la scenografia risultano a tratti persino superflui, quando hai un personaggio e una storia così ricca come quella di Samya e un’attrice che sa, con la sua passione, connettersi e connetterci al cuore di questa giovane atleta.

Samya intraprende il “viaggio”che dalla Somalia la porterà in Libia attraverso stenti e sopprusi, per salpare su quei barconi che non trasportano più corpi ma sogni, l’unica cosa che sembra restare ancora vivo su quei visi emaciati, spettri di esseri umani. Samya vuole andare in Europa per cercare un allenatore che possa prepararla per le Olimpiadi del 2012 di Londra. Samya vuole meritarseli quegli applausi del pubblico non solo come incoraggiamento ma perché ha tagliato per prima il traguardo.

Samya corre veloce con i piedi ben piantati al terreno per meglio poter prendere la rincorsa per spiccare il suo volo. E vola in alto verso il cielo, lontana da quel mare e lontana da quella terra a cui quel barcone, il suo barcone non approderà mai. Vola in alto nel cielo Samya e scompare, diventa pulviscolo, odore d’oriente che ti prende alle spalle e ti rimane dentro.

Autore: Adattamento teatrale del romanzo “Non dirmi che hai paura” di Giuseppe Catozzella a cura di Valentina Volpatto.

Regia: Luca Busnengo

Interpreti: Valentina Volpatto.

Nina Margeri

Piemonte dal vivo. conferenza stampa

Mercoledì 15 aprile 2019 ha avuto luogo la conferenza stampa di Piemonte dal Vivo in Piazza della Repubblica a Torino. Non poteva tenersi in una cornice migliore, quella del nuovo Mercato Centrale, dal quale è possibile ammirare l’intera città pur rimanendo all’interno del suo cuore pulsante. Sicuramente un’analogia con quella che è l’attività della Fondazione, di smuovere, valorizzare e vivificare culturalmente l’intera regione piemontese, con le radici ben piantate nel suo territorio.

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“BUONA LA PRIMA” RUBRICA FRINGE FESTIVAL – THEO, STORIA DEL CANE CHE GUARDAVA LE STELLE

Sono tante le cose che si potrebbero raccontare del grande genio che fu Vincent Van Gogh, tanti i misteri che si potrebbero voler svelare e tante le fantasie che si potrebbe voler sognare pensando a questo affascinante artista. Eppure non sono queste le domande a cui la compagnia Anomalia Teatro ha deciso di rispondere, ma piuttosto: “Chi era l’ombra di questa enigmatica figura? Chi era la sua spalla? Chi tace dietro ai suoi schizzi di colore?” Perchè si sa, alle spalle di ogni colosso della Storia, si nasconde sempre qualcuno! Ed è esattamente questo di cui lo spettacolo “Theo – storia del cane che guardava le stelle” ci vuole narrare.

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Fair Play, il pugilato dolce e malinconico della stagione 2019-2020 TST

Travolgente, inatteso, ardente di passione come gli amori extraconiugali (il mio matrimonio, celebrato e consumato, era con il cinema), l’amore per il teatro.

Ed ecco quindi che, dopo una serie di serate memorabili della stagione del Teatro Stabile di Torino non ancora conclusasi (Arlecchino! Novecento…! La scorticata…! Così è (se vi pare), ma anche L’Abisso, Pueblo, i recenti Amleto e Petronia!), il 7 maggio, a mezzogiorno sono al Carignano per la conferenza stampa in cui si annuncia la stagione 2019-2020, goloso come una golosa di Gozzano, che pur mentre inghiotte, / già pensa al dopo, al poi; / e domina i vassoi / con le pupille ghiotte. Ad aprire la stagione, Valerio Binasco come regista e attore (evviva!), al Carignano con Rumori fuori scena, spettacolo ormai cult del teatro contemporaneo in cui una scalcagnata compagnia tenta di mettere in piedi uno spettacolo (passare non può senza menzione nel cast il nome di Margherita Palli, scenografa che vanta collaborazioni con Luca Ronconi; quest’anno ci ha lasciati senza fiato con le sue architetture sceniche di Se questo è uomo,  con la regia di Valter Malosti che apprezzeremo anche nella stagione ventura: è infatti una delle tre riprese in cartellone). Sempre Binasco firma la regia di Uno sguardo dal ponte, altro classico contemporaneo che chiuderà le danze della stagione.

Dai primi titoli è già lampante che si tratta una stagione con i piedi ben piantati per terra e uno sguardo – velato di malinconia – sul mondo: a confermarcelo, la bambina pugile sul manifesto all’ingresso che ha sostituito quella della scorsa stagione che aveva occhi sgranati di meraviglia. Pugilato e teatro. Un’arte e uno sport che hanno a che fare col corpo e non hanno paura della sporcizia umana. L’attore e il pugile devono affrontare un avversario. La differenza: l’attore è solo contro una moltitudine. Sono pugni malinconici quelli che ci prenderemo dalla stagione prossima, assestati con dolcezza. Non a caso l’immagine richiama, come ben ricorda Binasco, una raccolta poetica molto amata: La bambina pugile di Livia Candiani. Ha proprio ragione: la bambina pugile è la nostra anima, l’anima del teatro, «quella di tutti gli artisti e di chi ama l’arte». Il titolo completo della raccolta è La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, e a me sembra che tutto torni perché la stagione si chiama Fair Play. Ora, se oltrepassiamo la comune traduzione di “buone maniere” come ci chiede di fare Binasco, scopriamo che significa anche “gioco leale, corretto” e tutto questo ha a che fare con la precisione, con la precisione dell’amore.

Dunque, sul ring, tra i 74 titoli in programma – 17 produzioni TST  (9 nuove produzioni esecutive, 5 nuove coproduzioni e 3 riprese), a combattere lealmente saranno tante donne. Per Elena Serra addirittura il ring non sarà a fine gennaio tra le mura teatrali, ma all’interno di una delle più note gallerie torinesi, la Franco Noero, accanto al Carignano: a lei dobbiamo Scene di violenza coniugale / Atto finale co-prodotto con il Teatro Nazionale di Dioniso. Una doppietta di Serena Sinigaglia: a novembre dirigerà una riscrittura goldoniana operata da Trevisan, La Bancarotta,alle fonderie Limone, a marzo Macbeth, al Carignano, entrambi prodotti dal dallo Stabile di Bolzano. Da non perdere il ritorno, con un produzione del Teatro Stabile di Torino, di Kriszta Szèkely dal teatro Katona di Budapest. Sua sarà la regia di Zio Vanja con la partecipazione di Pierobon e Marescotti. Laura Curino (che tra pochi giorni salirà sul palco del Gobetti) tornerà anche durante Fair Play in compagnia di Lucia Vasini con L’anello forte, spettacolo tratto dall’omonimo testo di Nuto Revelli, «una gigantesca Spoon River contadina», come scrisse Stajano di questi racconti di donne povere.

Ma il mondo umano è un continuo scambio tra maschile e femminile, in questa lotta meravigliosa quotidiana e infinita di equilibri mai raggiunti. Il teatro è il luogo per eccezione dove questo accade: non è un caso che un fiore all’occhiello della stagione sarà Macbettu. (E badate, chi come il sottoscritto ha avuto la fortuna di vederlo  alla scorsa edizione del Festival delle Colline Torinesi non può essere imparziale: è il cuore che parla!). Tre uomini nei panni delle streghe, pietre terra sangue e maschere, questi gli ingredienti con cui Alessandro Serra ci racconta in sardo la tragedia inglese; mai potrei mancare dal 19 al 24 novembre alle Fonderie Limone. Il talentuoso regista sardo, che affonda le radici del suo percorso artistico nel teatro di ricerca, ci regalerà anche la regia del primo dei due titoli di Ibsen nel cartellone della bambina pugile: Il costruttore Solness, capolavoro della maturità nel quale colui che ha messo a nudo l’anima borghese di fine Ottocento racconta della lotta a perdere di uomo contro il tempo che passa. Lo spettacolo vedrà in scena Umberto Orsini, che peraltro – eh, tante volte mi fa l’occhiolino questa Fair Play – sarà impegnato nel titolo Il nipote di Wittgenstein, tratto da un testo di Bernhard, autore da me molto ammirato. L’altro titolo del norvegese messo in scena è Nemico del popolo, Popolizio alla regia. Tra gli altri must della storia del teatro: ritornano Arlecchino servitore di due padroni, diretto da Binasco, e la regia buñueliana del Così è (se vi pare), a oggi il successo della stagione in corso, portato a casa da Filippo Dini (al lavoro anche per la regia di un’altra produzione dello Stabile: il kinghiano Misery), poi Mistero Buffo, produzione TST e regia di Eugenio Allegri (il suo posto in Novecento lo prenderà Alessandro Baricco con un reading del suo testo al Carignano). Chicca: Allegri, con il placet di Dario Fo, aggiunge misteri inediti ai tanti irriverenti del premio Nobel scomparso nel 2016. Ancora: I Giganti della montagna con Gabriele Lavia regista e attore; e infine in questa rassegna di classici, Tartufo, regia del maestro del teatro internazionale Koršunovas.

Dalle numerose sere di Wonderland posso confermare le parole del presidente Lamberto Vallarino Gancia, quando alla conferenza sottolinea che il rischio culturale è il comun denominatore di molti spettacoli dello Stabile, continuo è infatti lo sguardo al nuovo e alla contaminazione di linguaggi: nella stagione sono presenti spettacoli come L’arte di morire ridendo o Lodka che guardano al mondo dei clown. Come dimenticare, inoltre, la presenza del maestro del teatro di ricerca Peter Brook con il suo Why? in scena alle Fonderie Limone a maggio? Nemmeno i frequentatori degli spettacoli di danza resteranno a bocca asciutta: sempre viva è infatti la collaborazione con il Festival Torinodanza.

Nell’attesa che si spengano le luci delle sale del Teatro Stabile di Torino, che si riconferma un’eccellenza nazionale riconosciuta anche a livello europeo.

 Concludiamo con le parole del direttore Filippo Fonsatti: «La bambina che indossa i guantoni da pugilato, pronta a difendere lealmente una nobile causa, ci ricorda Greta Thunberg  e  Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante: un inno all’adolescenza, alla sua energia e alla sua bellezza come visione politica per cambiare il mondo. Oggi più che mai, per gestire questo cambiamento senza scontri astiosi abbiamo bisogno di fair play nelle dinamiche socio-economiche e nella convivenza civile, nelle relazioni umane e nelle scelte politiche, recuperando il valore assoluto dell’etica comportamentale, della lealtà, del rispetto per chi la pensa diversamente».

Ci vediamo in sala!

Giuseppe Rabita

“BUONA LA PRIMA” RUBRICA FRINGE FESTIVAL – La semimbecille e altre storie

“Sono fuori di me e sono in pena perché non mi vedo tornare” (Luigi Tenco)

Tre interpreti, sei personaggi, un tema: storie di ordinaria follia. Ha qualcosa di delicato e poetico, ironico e malinconico, lo spettacolo dei Nouvelle Plague. Storie vere tratte dal saggio di una sociologa napoletana: Stefania Ferraro, che vengono riscritte per la scena. Sulle note di violi e sinfonie classiche personaggi dai toni bianchi e neri disvelano un arcobaleno di emozioni. Nella scena che si presenta sin da subito scarna, sono i gesti precisi e puntuali, di corpi che hanno la qualità della danza, a disegnare nell’aria scenari immaginari e immaginati. Luoghi che i personaggi disegnano abitandoli. Un po’ quello che succede nella mente di un “semimbecille” che abita un mondo disegnato nell’aria che noi “imbecilli” non riusciamo a vedere.

Il disagio mentale, raccontato nello spettacolo, che sfocia in atti di violenza, causato quasi sempre dalla “mancanza” d’amore, di condivisione, dalla mancanza dell’altro, sottolinea come l’uscire fuori di sé sia la condizione necessaria all’atto d’amore. Ma questo uscir da sé se trova nell’altro un approdo sicuro e accogliente riesce a tornare in sè in una navigazione che da sé porta all’altro e viceversa e che ogni volta è uno scambio e un arricchimento che si chiama crescita. Se quindi nell’atto d’amore è auspicabile sapere e potere uscire da sé per emanciparsi da un egoismo apocalittico, in una condizione di assenza dell’altro, l’uscire da se non ha rotte tracciate e vagando alla cieca c’è il rischio di perdere per sempre la via del ritorno:

Sono fuori di me e sono in pena perché non mi vedo tornare

Con Cesare Lombroso a scrutare e indagare i volti degli spettatori che cominciano ad accomodarsi su sedie molto a ridosso della scena che essendo allo stesso livello degli attori accorcia di molto la distanza. Forse proprio in un tentativo inconscio di restituire se non proprio alle vite originarie almeno alle memorie di esse un altro in cui tornare in sé.

Autore: Giulia Bocciero, Stefania Ferraro.

Regia: Giulia Bocciero, Valentina Bosio, Davide Simonetti.

Interpreti: Giulia Bocciero, Valentina Bosio, Davide Simonetti.

Luci: Rosa Vinci.

Musiche: Vincenzo Bocciero, Ettore, Maggese.

Nina Margeri

“SE QUESTO è UN UOMO”

“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e i visi amici, considerate se questo è un uomo.”


In occasione del centenario della nascita di Primo Levi, il direttore del TPE Valter Malosti firma l’interpretazione e la regia di “Se questo è un uomo“, in collaborazione col “Centro Internazionale di Studi Primo Levi”.


Ad accoglierci proiettata in scena vi è la neve che cade lenta, e riusciamo quasi a percepirne il freddo pungente.
Il tempo rallenta e noi veniamo catturati dalla sua maestosa danza, che sembra rendere incorruttibile ogni cosa.
Malosti è solo sulla scena, preso a schiaffi dai contrasti di luce che con violenza ora ne mostrano il volto, ora lo lasciano in penombra. Porta con sé una valigia per l’intera durata dello spettacolo: quella valigia è il suo attaccamento alla vita, contiene i suoi ricordi ed il suo essere uomo. Quello che è stato e quello che deve, nonostante tutto, rimanere. Il testo è totalmente fedele all’omonimo libro, le parole sono lapidarie e sembrano correre come sui binari di un treno.

“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo.


Il protagonista si fa portavoce di queste parole ed il suo è un procedere incessante, con l’urgenza interiore di chi non può e non vuole dimenticare nemmeno un frammento dei propri ricordi. E’ la paura di chi non vuole perdersi neanche una parola, è la necessità di raccontare, perché è l’unica arma che ha per restare vivo, ancora.
La scenografia iniziale è l’idea di una casa: ne ritroviamo le sole pareti mentre gli interni sono spogli, proprio come sono vuote le poche persone di ritorno dai campi di concentramento.

Fa una breve entrata in scena una donna: sembra spezzata, piegata da qualcosa che ancora non è in grado di comprendere e di spiegare e che forse mai potrà. Sfiora i muri della casa con la delicatezza con cui si accarezza un bambino e poi viene trascinata contro la sua volontà insieme agli atri.

“Vagoni merci, chiusi dall’esterno. E dentro uomini, donne, bambini, compressi senza pietà come merce di dozzina in viaggio all’ ingiù, verso il fondo.”

Lo spettacolo punta moltissimo sulla componente sonora: Gup Alcaro ne cura la riscrittura scenica ponendolo in primis come un’opera acustica. Questo risulta evidente nei 3 madrigali creati da Carlo Boccadoro a partire dalle poesie che Levi scrive di ritorno dal campo. Malosti dichiara di essersi ispirato per questo rifacimento ed in particolare per l’inserimento di questi cori, al teatro antico. Anche la scelta di un unico interprete in scena, di una sola voce senza alcuna mediazione, è spiegata dal fatto che è –una voce che, nella sua nudità, sa restituire la babele del campo degli ordini, delle minacce e del rumore della fabbrica di morte-.

Vi è l’intervento, oltre che di una donna, anche di un uomo: costui però indossa la purtroppo ormai celebre divisa a righe bianche e nere ed ha il volto totalmente coperto, ma i tratti del viso sono ancora riconoscibili.
Cammina sì, ma senza emettere fiato, mette i passi uno davanti all’altro senza alcuna meta. E’ un uomo, o forse un tempo lo è stato, e ora si aggira per la scena come un automa, un manichino, come l’ombra di se stesso.

“Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”

Queste sono le parole di Levi che però incita, nonostante tutto a mantenere almeno “lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà.”

Malosti non punta ad un coinvolgimento dello spettatore, ma anzi mantiene un certo distacco, forse proprio perchè non può esserci un’identificazione con le atrocità che uomini sono stati capaci di infliggere ad altri uomini. Nonostante ciò per quasi due ore veniamo catturati dall’atroce e scomoda verità delle parole di Primo Levi.
Grande è il lavoro di Malosti non solo dal punto di vista registico ma anche e soprattuto attoriale: dritto davanti a noi, e per lo più fermo, è in grado di sprigionare un’energia evocativa che non è data solo dalla potenza della parola.

Non c’è una senzazione di sollievo alla fine, anche se il protagonista riesce a sopravvivere, poichè la nostra mente è stata rapita e ‘contaminata’ dal ricordo di un’atroce crudeltà.
Ma Primo Levi ci ricorda che “Quando non si riesce a dimenticare, si prova a perdonare.”


Tratto dall’opera di Primo Levi “Se questo è un uomo”
regia: Domenico Scarpa e Valter Malosti
scene: Margherita Palli
luci: Cesare Accetta
costumi: Gianluca Sbicca
progetto sonoro: Gup Alcaro
madrigali: Carlo Boccadoro
video: Luca Brinchi, Daniele Spanò
Attori: Valter Malosti con Antonio Bertusi, Camilla Sandri

Ilaria Stigliano

città inferno – elena gigliotti

Dal 23 al 28 aprile al Teatro Gobetti, Elena Gigliotti e le sue splendide attrici portano in scena Città Inferno, una produzione di ariaTeatro Compagnia Teatrale e nO(Dance first. Think later) liberamente ispirato al film di Renato Castellani Nella città l’inferno.
Nel penitenziario femminile di Città Inferno cinque carcerate accolgono l’ultima arrivata: Lina, ragazza acqua e sapone, spaesata e impaurita, finita dentro per colpa del fidanzato delinquente. Passato un primo momento in lacrime, Lina impara presto come funziona la vita in carcere e a convivere con le sue nuove compagne di cella.

Questa storia, tutta al femminile, è una groviglio di passione, di forza, di instabili equilibri, è testimonianza e fantasia, realtà e menzogna. Irriverente, sgarbata e autoironica, celebra la potenza viscerale della terra, la terra delle inflessioni dialettali e la terra che è Donna, generatrice di vita.
Le indemoniate di Città Inferno sono sei, diverse per provenienza e per esperienze di vita. Una più pungente dell’altra, incontenibili, inarrestabili, sono corpi e voci che entrano ed escono dal concerto di quella cella che da claustrofobica diventa quasi accogliente, come un ventre materno in cui tutte riescono a ritagliare uno scomodo angolino dove mettersi comode. In questo spazio vitale così angusto l’energia si accumula, preme contro le quattro pareti della minuscola cella fino a esplodere al suo esterno, investendo tutto quello che trova sul suo cammino. E poi musica, balli, canti. È un inferno sì, ma un inferno così colorato che quasi quasi ti viene voglia di farci un giro.

Assistiamo a un teatro che è quasi cinema, e non mi riferisco solamente all’utilizzo dei video: qui la testimonianza audiovisiva rinasce in scena.
Il film della vita di donne realmente esistite rivive grazie a queste attrici, fantasmi in carne e ossa. Riproduzioni in bianco e nero di un’epoca che può sembrare lontana e invece eccola lì, davanti ai nostri occhi. “Che anno è lì fuori?” chiedono. “É il 2019” risponde Lina.

All’entrata del pubblico in sala le ragazze sono già sul palco, e ci rimarranno per tutte le due ore di spettacolo compresi i dieci minuti di intervallo. Se la chiacchierano e se la ridono, proprio come facciamo noi seduti in platea, quasi come a dirci che la “finzione” non inizia e non finisce mai veramente. Che loro lì sopra sono vere tanto quanto lo siamo noi qui sotto. Sono vere perché veri sono i loro bisogni e perché li fanno sentire, non si limitano a lasciarsi guardare da lontano.
“Evadono” dal palco e arrivano in platea, si fanno un giretto tra il pubblico. Ci guardano impudenti, ci parlano, rubano un portafoglio e leggono i documenti della persona a cui appartiene, gli scontrini dei posti dove è andata a mangiare. Trovano 70 euro e sembrano soddisfatte. Chiedono se qualcun’altro ha voglia di dare loro qualcosa, soldi ma non solo. Noi ridiamo a questa richiesta ma ci sgridano, perché è una cosa seria, serissima. A una spettatrice chiedono il suo bel maglione bianco, perché in cella fa freddo.
E non c’è poi tanto da stupirsi perché, in fondo, chi può dire cosa sia reale e cosa no? C’è più vita e verità lì su quel palco, tra le dita e i capelli di quelle sei attrici in questa piovosa sera di aprile, che in tante altre situazioni della nostra quotidianità. Lì sopra c’è un’onestà e un coraggio che nella vita “vera” la maggior parte delle volte ci possiamo solo sognare. Forse è proprio qui che si trova la forza vitale che fa del teatro quell’attimo irripetibile e irrinunciabile di cui i manuali e i saggi accademici parlano.
Perciò, un solo consiglio, di cuore. Siateci.

Eleonora Monticone

Città Inferno
liberamente ispirato a “Nella città l’inferno” di Renato Castellani
con Melania Genna, Carolina Leporatti, Demi Licata, Elisabetta Mazzullo, Stefania Medri, Daniela Vitale
e con Maurizio Lombardi nel ruolo delle suore (voce off)
regia e partiture fisiche Elena Gigliotti
scene Carlo De Marino
costumi Carlo De Marino, Giovanna Stinga
luci Giovanna Bellini
editing audio Claudio Corona Belgrave
progetto video Daniele Salaris
strutture ferrose Anelo 97
AriaTeatro Compagnia Teatrale
No (Dance first . Think later)