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DIE TOTE STADT DEBUTTA ALLA SCALA

È andata in scena per la prima volta a Colonia e ad Amburgo nel 1920. Quasi cento anni dopo trova finalmente il suo debutto (o meglio, la sua consacrazione) nel Tempio: stiamo parlando dell’opera Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold, di cui abbiamo visto la recita del 3 giugno al Teatro alla Scala.

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SCAVI. FESTIVAL DELLE COLLINE, STAGIONE 2019, TEATRO

Passare attraverso una mostra di arte contemporanea. Scendere al piano di sotto, attraversare un corridoio e arrivare in un salone svuotato. Al centro tante sedie di legno che formano dei cerchi intersecati tra loro. Scegliere un posto, una prospettiva, ed iniziare ad ascoltare frammenti.

Ricordi degli attori (fittizi o reali?) amalgamati con aneddoti e battute del film ‘Il deserto rosso’ che creano una performance silenziosamente ritmica. Attraverso il dialogo e tra i tre attori, seduti o in piedi tra il pubblico, la pallina dell’attenzione rimbalza continuamente, facendo si che lo spettatore debba seguire con la testa e con il corpo i movimenti dei performer nello spazio. Il rapporto tra noi e loro diventa amichevole, gli sguardi sono intimi e diretti e spesso ci si avvicina ad un dialogo confidenziale.

Quando Giovanni Fusco compone per ‘Il deserto rosso’, cerca di rispecchiare ed al contempo prolungare nella musica la nevrosi di Giuliana. Anche nello spettacolo il disagio psichico, inteso come condizione esistenziale, è centrale, come lo è l’immaginazione.

Daria Deflorian inizia parlando della famosa battuta pronunciata da Monica Vitti nel film: <<Mi fanno male i capelli>>. Da questo momento si è trasportati in narrazioni e ricordi su questo tema. Gli attori ricostruiscono una possibilità dell’incontro tra Amalia Rosselli, poetessa a cui è attribuita la celebre frase, e Monica Vitti. Veniamo così catapultati a Roma, in quel pomeriggio in cui le due donne si sono incontrate, per volere di Antonioni, con lo scopo di parlare del personaggio Giuliana. Durante la performance è impossibile rimanere con la mente lucida e presente. Non la si può tenere ferma. Vaga, guidata dai tanti indizi di storie che si avvicinano ad essere leggende.

Si indaga tra gli appunti, nelle ipotesi. Si parla della possibilità di un altro finale che il regista ferrarese aveva pensato per il suo primo film a colori: immagini di paesaggi industriali completamente ricoperti di neve. La quiete dopo la tempesta.

Si narrano i litigi tra Antonioni e Vitti, della loro umanità e fragilità,della fine del loro rapporto proprio durante le riprese del film, tentando di penetrare una realtà inconoscibile perché non è la propria.

Viene rappresentata la vittoria del Leone d’Oro ‘per il film più sorprendente della mostra’ nel 1964.

I nessi logici con cui è scritto questo testo teatrale-performativo sono irrazionali, in parte libere associazioni. Una scoperta archeologica continua nella psicologia e nell’opera di Antonioni.

Pensare drammaturgicamente ad un film significa immergercisi dentro, esserne totalmente assorbiti. Ed è ciò che accade assistendo a questo spettacolo: un’ora di ipnosi prodotta dalle parole e dai racconti che plasmano immagini, che creano fantasie. Uno scavo nell’opera d’arte, ma anche nella profondità degli attori, che si conclude con la contemplazione. I tre performer infatti mettono fine allo spettacolo uscendo dalla sala, aprendo una porta verso il cortile esterno. Vengono inebriati dalla luce naturale e dall’aria impregnata di pioggia e noi spettatori li seguiamo, purtroppo solo con il pensiero, rimanendo nel silenzio e nella riflessione.

Lo spettacolo tramonta così, in modo inaspettato, con lo sguardo proiettato verso l’esterno.

E’ difficile esprimere i contenuti della performance, insieme di racconti, trame, ricordi. Una cosa è certa: può essere paragonata ad una forma drammaturgica di archeologia subacquea. Ritrovamenti di relitti antichi formati da appunti e riflessioni cinematografiche, parti di qualcosa di più grande. Perché se viene trovata una statua logorata dal mare e dal tempo, significa che c’è la possibilità che là sotto, nell’oscurità, ci sia stata un’intera città.

Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, insieme a Francesco Alberici, creano questo progetto autonomo nel 2018, scavando all’interno del film di Antonioni ‘Il deserto rosso’ e focalizzandosi su Monica Vitti e sul suo personaggio marginato ed alienato dagli altri e dalla società in cui vive. ‘Scavi’ è quindi la sovrastruttura del lavoro creativo totale, la punta dell’iceberg.

In contemporanea un altro processo strettamente intrinseco a ‘Scavi’ produce ‘Quasi niente’, creazione incentrata prevalentemente su Giuliana e sulla sua interprete, Monica Vitti.

Daria Deflorian e Antonio Tagliarini collaborano dal 2008, dando vita a diversi progetti. Tra questi il Progetto Reality (premio Ubu 2012 a Deflorian come miglior attrice protagonista), Ce Ne Andiamo Per Non Dare Altre Preoccupazioni (premio Ubu 2014 come migliore novità italiana e Premio della critica 2016 come miglior spettacolo straniero in Quebec).

Macondo

Formiche operaie blu, rosse e verdi.

Perché il teatro? Qual è il suo scopo? E’ un anacronismo una stranezza oltre modo datata, che si regge come un vecchio monumento o che si ripete come un abitudine bislacca? Perché applaudiamo e a che cosa? Il palcoscenico ha un ruolo reale nella nostra vita? Che funzione può avere? A che cosa potrebbe rendersi utile? Che cosa potrebbe esplorare? Quali sono le sue qualità intrinseche?

Peter Brook

Le lecite domande che si pone uno dei padri del teatro di ricerca della seconda metà del novecento sono oltremodo appropriate quando, come lui, si tenta di trovare delle risposte attraverso la sperimentazione che porta alla scoperta o alla riscoperta di nuove o antiche prassi teatrali riviste con nuovi occhi.

Lo spettacolo Macondo ha qualcosa di antico nell’evocare i primordi di un teatro che affonda le sue radici nel mito. Carte di Archetipi vengono distribuite come premessa dello spettacolo, durante l’attesa fuori dallo spazio-scenico. Ma per attuarlo usa una prassi tecnologica contemporanea portando alle estreme conseguenze quello che Gadamer definisce come «l’immediatezza della comunanza di spettatore e attore […] immediatezza che è altrimenti ben di rado concessa alla nostra esperienza estremamente mediata». Nell’ immediatezza tra attore e spettatore di solito, per usare le parole di Annamaria Cascetta, «si rivelano possibilità potenziate di essere, che ci sovrastano e ci scuotono. E questo avviene in una situazione di interazione, di comunione in cui è richiesto un reciproco scoprirsi fino a suscitare il disagio di chi non fosse disposto al gioco».

Ma cosa accade quando l’attore viene completamente negato e lo spettatore perdendo completamente quello che è la sua caratteristica fondante diviene da “colui che guarda un’azione”  a “colui che compie un’azione” senza il quale il dramma/drama stesso non esisterebbe?

Chi non è disposto al gioco si sente a disagio, questo è un po’ la sensazione di quello che lo spettatore vive durante Macondo. Negli ultimi decenni del novecento sono stati molti gli spettacoli che hanno trovato soluzioni per coinvolgere lo spettatore in un ruolo attivo e cooperante senza il quale la rappresentazione non funzionerebbe.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di parlare dello spettacolo tornando alle domande poste da Brook nella citazione iniziale.

Perché applaudiamo e a che cosa serve?

Una volta ho letto da qualche parte che applaudiamo per tentare di trattenere, di afferrare, ciò che abbiamo appena visto, ma che è già sparito, quell’effimero che è lo stesso statuto ontologico di ogni spettacolo dal vivo. Ma nel caso di Macondo applaudiamo perché ce lo chiede una scritta che compare sullo schermo posto come parete di fondo della scena o perché ce lo dice una voce registrata che ci parla attraverso cuffie che vengono distribuite a tutti gli spettatori prima dell’ingresso in “teatro” che più che “luogo della visione” (theatron – per riprendere l’etimologia greca) in questo caso è il “luogo dell’ascolto”. Dove diventiamo più che altro pedine di uno schema prestabilito. Così in assenza degli attori, spettatori cuffia-comandati non interpretano ma ripetono azioni e parole imposte da un “volere supremo” invisibile e immaterico ma estremamente efficace perché ha il potere di guidare le nostre azioni incidendo sull’ambiente circostante, contro ogni nostra esplicita volontà (fermo restando il libero arbitrio di chi decide di non partecipare al gioco). Come le formiche blu, rosse o verdi che vediamo comparire di tanto in tanto sulle schermo in fondo alla scena cerchiamo di il compito che ci viene suggerito. Le cuffie hanno dei led che a seconda dei differenti ruolo a cui i vari  spettatori sono  chiamati  a rispondere  possono essere blu, rossi o verdi.

Che funzione può avere? A che cosa potrebbe rendersi utile?

Mi viene subito in mente il paragone con il potere persuasivo della pubblicità. Andrea Fontana nel suo libro “Storytelling di impresa” parla di “rete narrativa” da cui la nostra vita quotidiana sarebbe costantemente avvolta essa “filtra le nostre percezioni, stimola i nostri pensieri, evoca le nostre emozioni, eccita i nostri sensi, determinando risposte multisensoriali”. Come scrive Guariento riprendendo Fontana :

L’individuo fin dai primi anni di vita è homo narrans: egli crea descrizioni narrative per se stesso e per gli altri, o utilizza le narrazioni per prendere delle decisioni creando situazioni ‘come se’. Ma il periodo storico attuale è particolarmente caratterizzato da “assedio testuale”: la narrazione oggi è talmente pervasiva della vita che Fontana parla infine di “accerchiamento narrativo”. In questo accerchiamento, sono i mass-media a detenere una sempre maggiore egemonia: per essi, la narrazione sembra essere divenuto tema centrale.

La narrazione sembra essere necessaria anche nello spettacolo Macondo che sembra non avere il coraggio di prendersi fino in fondo la responsabilità di questa “sperimentazione” giustificando la mancanza di attori e tecnici come un problema di malfunzionamento delle porte che hanno lasciato la “crew” fuori dallo spazio-teatro, vittime anche loro, paradossalmente , dell’egemonia della narrazione . Così gli spettatori, inizialmente seduti in attesa che qualcosa accada, sono costretti a fare loro qualcosa per dare senso al loro trovarsi riuniti.

Da questo punto di vista lo spettacolo sembrerebbe voler essere metafora  di  una società di massa schiava di un subdolo ma crudele e imprescindibile sistema di controllo, in realtà rimane più vicino a quello che sembra suggerirci Debord in La società dello spettacolo quando afferma:

La società che riposa sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso.

Che cosa potrebbe esplorare? Quali sono le sue qualità intrinseche?

C’è un potenziale nello spettacolo che a mio avviso non viene esplorato fino in fondo. Fermo restando che quello a cui assistiamo non è una rappresentazione drammatica ma è più simile a una rappresentazione rituale in cui viene creata una comunità ad hoc che potremmo chiamare la “comunità degli uditori”. Eppure per quanto molto più simile al rito non entra nemmeno pienamente in merito delle sue funzioni. Infatti in una rappresentazione rituale la comunità decide volontariamente di evocare un altro da sè per il superamento di una crisi. In questo caso invece la “comunità degli uditori” non invoca o meglio non evoca nessuno, il controllo da parte dell’altro da è data come premessa dello spettacolo. Questo fa sì che non possa mai esserci in nessun momento il superamento della crisi. Del resto mi viene anche da chiedere di quale crisi si tratti. L’impossibilità del dramma? Il puro godimento autoerotico di uno spettatore che guarda se stesso? Il puro masochismo di un regista-demiurgo?

Di certo in questa nuova comunità possiamo intravedere quel collegamento voluto e cercato alla città di Macondo di Cent’anni di Solutudini che come nel testo di Garcia Marquez è «isolata dal resto del mondo e immersa in un’ eternità enigmatica dove le tradizioni ed i riti magici sembrano contare tanto quanto la realtà comune, quella vera». Se l’intento dello spettacolo è quello di emulare la Macondo letteraria dove non esistono personaggi, ma voli pindarici che prendono forma e si tramutano in carne per muoversi in una realtà che, però, non è loro congeniale, mi viene da chiedere quanto l’effetto sia davvero quello desiderato.

Nel tentativo di superare quell’ “anacronismo” quel “vecchio monumento” di cui parla Brook riferendosi al Teatro sono d’accordo con Debord che spesso  “lo sviluppo diventa tutto” e “il fine niente”.

Che cos’è allora il teatro? (la domanda delle domande)

La risposta questa volta va allo stesso Brook quando afferma:

La forma teatrale non esiste per permettere a un gruppo di persone di raccontare, di dire, non è una forma di comunicazione attraverso la quale una persona possa spiegare qualcosa a un’altra […] Credo che il teatro sia una possibilità data all’uomo di accrescere durante un certo tempo l’intensità delle sue percezioni. E’ tutto qui, ma è enorme.

Credo che l’intento dello spettacolo possa essere stato questo ma l’effetto, vittima del bisogno giustificativo di una narrazione e di immagini ridondantemente didascaliche, sia stato quello che alla fine potremmo riassumere in un: “oso ma non troppo”.

Nina Margeri

Scritto e diretto da: Silvia Mercuriali

colonna sonora: Tommaso Perego

video designer: Susanne Dietzs

supporto drammaturgico: Gemma Brockis

art work: Peter Arnold

disegno luci: Kristina Hjelm

sound engineer: Michele Panegrossi

tradotto da Marina Mercuriali

Quasi niente, Qohélet ironico di Deflorian/Pagliarini

Quasi niente, ultimo lavoro di Daria Deflorian e Antonio Pagliari, in scena alla ventiquattresima edizione del Festival delle colline è un ritratto autoironico e colto dell’uomo occidentale contemporaneo.

L’origine, l’idea generativa è Deserto Rosso di Antonioni, ma affiora poco nei discorsi degli attori, lo spettacolo infatti conserva una sua autonomia.

Immaginiamoci – noi contemporanei – come fossimo un quadro impressionista. Immaginiamo che un Renoir ci abbia detto di osservarci alla distanza di un braccio. Ebbene, con Quasi niente, Deflorian/Tagliarini disobbediscono: prendono uno specchio e ce lo mettono di fronte, ma non seguendo le prescrizioni del Pierre-Auguste. No, lo mettono vicino, mostrandoci la nostra inadeguatezza nei confronti della vita, la nostra scomodità nell’abitare il mondo e ci regalano la possibilità di ridere di noi stessi attraverso una delle armi più potenti dell’essere umano: l’autoironia. Lo fanno in uno spettacolo raffinato, pieno di riferimenti colti: dalla Munro a David Foster Wallace, passando per Mark Fisher e Han Kang.

Deflorian segue con grande efficacia la lezione di Peter Brook: la scenografia è essenziale – pochi mobili, tra cui una poltrona, collocati ai margini della scena – saranno poi gli attori a portarli più al centro, nel momento in cui li menzionano –  alcuni inizialmente ribaltati.

 Lo spettacolo è in mano agli attori, davvero notevoli, che attraverso gesti e tempi comici perfetti creano il mondo scenico. Teatro nella sua accezione più pura.

I cinque attori interpretano cinque manifestazioni diverse dell’uomo contemporaneo: Monica Piseddu è una quarantenne depressa, Daria Deflorian una sessantenne ipocondriaca e ansiosa, Francesca Cuttica, una trentenne che si sente buona a nulla, Bruno Steinegger e Antonio Pagliarini, rispettivamente, un quarantenne e un sessantenne, l’uno oppresso dal lavoro, l’altro omosessuale in solitudine.

Quasi niente mostra tante manifestazioni della sofferenza, denunciando, senza reticenze e senza smancerie, che stare al mondo è difficile, che la vita è storta e che vani sono i nostri tentativi di raddrizzarla. Inadeguate si rivelano le strutture con cui cerchiamo di dare un senso, un ordine nostro vivere. L’unica arma è l’autoironia, nell’attesa di un nuovo dolore.

Quasi niente è lavoro di grande umanità, come tale molto coraggioso, perché denunciando, con pungente ironia, il non senso, l’impossibilità della cura definitiva, questo Qohélet teatrale dà i necessari anticorpi per resistere alla società del Think positive! che ci pretende sempre performanti e ci illude di poter cancellare totalmente la sofferenza. Ribadendo con grande intelligenza che i momenti più vitali sono proprio quelli dei piccoli grandi tormenti. Non rimane che amarsi e ridere insieme: Quasi niente, ma non è poco!

Giuseppe Rabita

STRANGE TALES

Il mondo multimediale di Violet Louise

All that we see or seem is but a dream within a dream

Un sogno delirante, nella musicalità intrinseca delle parole taglienti di Edgar Allan Poe, quello in cui ci si inabissa con lo spettacolo Strange Tales.
Prodotto dal Festival di Atene e Epidauro 2018, dove ha riscosso grande successo, la performance multimediale è diretta e interpretata dalla greca Violet Louise, anche traduttrice, autrice della musica e della drammaturgia visiva e sonora, affiancata nel ruolo di protagonista da Aglaia Pappas.

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il regno profondo. perché sei qui?

La ventiquattresima edizione del Festival delle Colline Torinesi si è aperta domenica 2 giugno 2019 alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Ad inaugurarla una delle compagnie della sezione “grandi ritorni”, la Socìetas, che, solcando la storia del teatro italiano fin dall’anno della sua fondazione nel 1981, ha anche segnato quella del Festival, contribuendo, come scrive Sergio Ariotti, «in modo determinante a definirne l’immagine in Italia e in Europa». Un grande omaggio ed un grande onore dunque avere sulla scena Chiara Guidi e Claudia Castellucci a stendere il tappeto rosso a quest’edizione, il cui tema dominante è “Fluctus. Declinazioni del viaggio”.  E proprio di un viaggio tratta lo spettacolo Il regno profondo. Perché sei qui?. Non di un viaggio nel senso letterale del termine, concreto, ma di un viaggio paralizzato, immobile, che paradossalmente attraversa in maniera trasversale la storia dell’intera umanità e la storia di ogni singolo individuo, posto davanti ad un primo, semplice interrogativo “perché sei qui?” e all’impossibilità di darvi una risposta.

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La Gioia sincera di Delbono cui non ho partecipato

Nella sezione Grandi ritorni del Festival delle colline, La Gioia di Pippo Delbono, un viaggio dalla depressione alla gioia s’intreccia al memorie della compagnia, che in questo viaggio sembra specchiarsi.

Piuttosto difficile, per un neofita come me,  scrivere di un viaggio cui non ho saputo partecipare. Lo scrivo con grande dispiacere, scegliendo le parole con cura, perché l’invito di Pippo Delbono e della sua compagnia era autentico e sincero.

Andiamo con ordine.

La Gioia nasce nel 2018: Bobò era il fulcro dello spettacolo.

Chi era Bobò?

Il suo nome era Vincenzo Cannavacciuolo, detto Bobò. Nato sordomuto e microcefalo, metà della sua vita l’aveva passata in manicomio, ad Anversa. Nel ’95 Pippo Delbono, da sempre vicino a un teatro sociale, – il suo lavoro fa parte di quella linea di teatro sperimentale, fiorita in Italia durante gli anni ’80 (penso al Teatro della Valdoca o Dario Manfredini), che sintetizza le pratiche del Living Theatre con poetica di Eugenio Barba – lo incontra e lo porta con sé. Da allora, Bobò è stato il protagonista di tutti i suoi spettacoli.

A Febbraio, a 82 anni, Bobò muore. È questa assenza forte, presente, a dare nuovo senso e nuova forma allo spettacolo. È lo stesso Delbono, a dire all’inizio:

“Dopo Bobò rinasce lo spettacolo che è come prima e che è tutto diverso.”

Si comincia. Un clown giardiniere innaffia dei fiori finti che sono sempre di più. Il linguaggio dunque è quello dei clown, circense, l’atmosfera è onirica e come nei sogni è sconnessa: a contrappuntarla è lo stesso Delbono, ora in scena, ora dalla platea, leggendo. Un ulteriore contrappunto è dato dal fatto che, oltre ai pezzi dal vivo alcuni di Delbono pezzi sono registrati. A far andare avanti lo spettacolo sono i ricordi.

La prima storia è quella di Nelson, il barbone che innaffia i fiori. Quando l’ho conosciuto, Nelson, dice Delbono, prendeva un sacco di medicine e io non ne prendevo nessuna, ora Nelson è guarito e io prendo un sacco di medicine.

Sembra questa la chiave di lettura dello spettacolo: l’assenza di Bobò, coincide con la perdita della felicità e, pare d’intuire, anche creativa.

I binari in cui si muove questa infelicità e pazzia sono molteplici: si avverte la presenza di La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, poi le citazioni esplicite: Pirandello, Shakespeare Beckett, Totò ed Erri de Luca.

Lo spettacolo va avanti per flash: momenti narrativi intervallati a momenti onirici e deliranti di grande impatto scenico: una donna si toglie delle rose dal petto e li lancia, il tutto in un’atmosfera disco, con luce stroboscopica e musica classica. Un ragazzo disabile canta in playback Maledetta Primavera vestito da donna; un boscaiolo folle in cura dallo sciamano che diventa sciamano; un momento in cui si evocano i morti in mare, con una scena che omaggia la Venere degli stracci.

In tutto lo spettacolo si avverte la forte presenza di Bobò: prima attraverso la rievocazione di Pippo Delbono che ne rifà i gesti, poi attraverso la sua stessa voce registrata.

Il finale, di grande impatto visivo, con la scena piena di fiori, a cura del fiorista normanno Thierry Boutemy. I performer circensi, che hanno costellato lo spettacolo, girano in circolo, in un finale che sembra guardare a Fellini.

Si tratta di un lavoro sincero, che parte da un dolore autentico, che però arriva a una gioia soltanto detta e non sperimentata.

Nonostante il vuoto la tristezza sia autentica, non ne sono stato toccato non sono rimasto coinvolto e non sono riuscito a superare il cinismo che contraddistingue la nostra epoca. Credo che lo spettacolo non sia supportato da una drammaturgia sufficientemente adeguata a permettere al dolore e alla depressione di risuonare. Mi viene in mente un vecchio romanzo di Tobias Wolff, in cui, a un certo punto, Robert Frost parla dell’importanza della forma, facendo riferimento al dolore di Achille per la morte di Patroclo: il lamento di Achille attraversa i secoli e mantiene la sua intensità perché è espresso in esametri dattilici. Senza la forma sarebbe stato un, pur sincero, grido mozzo. Penso sia questo uno dei limiti di La gioia.

C’è un’altra ragione che ha ostacolato la mia calorosa partecipazione. Lo spettacolo era una festa commemorativa pensata per chi segue e ama la compagnia da tempo:  per esempio, non sono riuscito ad apprezzare i suoni della voce di Bobò, non avendo avuto la fortuna di conoscerlo.

Dunque pur nei suoi limiti, mi sento di consigliarne la visione a chi ha amato Bobò e vuole partecipare a questa festa in suo onore. Ricordiamo: lo spettacolo andrà in scena al Piccolo Teatro di Milano, dal 4 al 9 Giugno.

Giuseppe Rabita

D.A.K.I.N.I.

L’im-possibilità di un’isola

“Divenuto totalmente dipendente, conosco il tremito dell’essere, l’esitazione a sparire.”

(Michel Houellebecq)

“Vita mia, vita mia, mia antichissima vita,

mio primo voto mal richiuso,

mio primo amore infirmato,

sei dovuta ritornare.

Chi sono queste creature misteriose e imperturbabili che da una distanza di millenni contemplano la sparizione dell’antica umanità, il suicidio collettivo che ha spalancato all’uomo le porte dell’immortalità? Le gioie dell’essere umano restano loro inconoscibili, i suoi dolori e desideri quasi impercettibili, le loro notti non vibrano più di terrore né di estasi…

Il suo ultimo clone (nel nostro caso cyborg ndr) riscoprirà il fascino della sofferenza e della libertà, e il gusto della ribellione … In fondo all’abisso del nichilismo verrà così rivelata l’ultima verità e speranza: …

 … in cui tutto è facile,

in cui tutto è dato nell’attimo;

esiste in mezzo al tempo

la possibilità di un’isola.”

Queste parole che potrebbero in maniera incredibilmente appropriate riferirsi allo spettacolo D.A.K.I.N.I. in realtà si riferiscono a un romanzo di Michel Houellebecq: “La possibilità di un’isola”.

Mi sono chiesta cosa esattamente mi avesse colpito di D.A.K.I.N.I. tanto da rievocare nella mia memoria le parole esatte di un romanzo che avevo letto oltre 10 anni prima e la risposta è proprio: la memoria, o meglio l’importanza che si dà alla memoria. Infatti, in entrambi i casi vengono descritti scenari apocalittici di un futuro lontano e fanta-scientifico nei quali l’unica cosa che può ancora renderci umani è la sopravvivenza di una memoria personale e collettiva non solo per la costruzione di un’identità ma per la sopravvivenza stessa dell’identità. La sopravvivenza di una memoria ancora prima che di un corpo, indica la necessità di un’umanità data da una coscienza ancora prima che da una genetica. Può una coscienza “re-(e)sistere” a prescindere da un corpo? In apparenza, lo spettacolo portando alle estreme conseguenze l’alienazione dal corpo, sembrerebbe rispondere di sì.

Questo dualismo soggetto-oggetto vede contrapposti i due aspetti di coscienza e corpo come entità separate a cui il pensiero filosofico spesso si vede costretto ad affermare il primato dell’uno sull’altro. Più spesso, come in questo caso, il primato della coscienza sul corpo.

Lo spettacolo D.A.K.I.N.I. racconta di una società ormai esclusivamente maschile che ha sostituito le donne con cyborg, Intelligenze Artificiali, a cui periodicamente viene cancellata la memoria per evitare che possa insorgere in loro, attraverso la rimembranza delle esperienze, la coscienza di un’identità.

Per raccontare il primato della coscienza sul corpo si fa ricorso alla danza, linguaggio che ha come statuto ontologico stesso il corpo dichiarando sin dall’inizio il desiderio di partire dal corpo per arrivare alla sua “smaterializzazione”. È nella qualità dei corpi che si manifesta il linguaggio della danza. Così un corpo per terra trascinato via come fosse un involucro vuoto, una bambola di lattice, ci introduce subito, proprio per quell’incredibile qualità che manifesta, nella dimensione della danza a prescindere dalla componente musicale o ritmica. Anche nell’immobilità le caratteristiche di quei corpi, attraverso per esempio la tensione dei muscoli che definiscono un fisico asciutto e scolpito, raccontano la permanenza della danza impressa nella carne.

La musica in questo spettacolo è spesso sostituita da suoni ed elementi che evocano scenari cibernetici, o da voci alterate, dal timbro grave, ricavato come conseguenza di un lavoro sul corpo più che da modificatori sintetici come ci aspetteremo in un contesto del genere. La musica viene spesso utilizzata per rievocare un passato che non sembra esistere più ma che, con la riacquisizione della memoria, riemerge per definire atmosfere e stati d’animo.

Lo spazio è completamente vuoto, un grande schermo bianco riempie tutta la parete di fondo, anche questo metafora di una memoria vuota sul quale sarà necessario far scorrere i filmati del passato per ricostruire la coscienza di cui abbiamo parlato. Solo in proscenio in prossimità degli spettatori vediamo un isolotto tecnologico delimitato da led all’interno del quale due figure androgine, attraverso l’utilizzo di computer, mixer, videoproiettori e microfoni, orchestrano l’intero spettacolo. Luogo della regia di questa umanità maschile, posto sotto gli occhi degli spettatori, che dirige simulacri con fattezze femminili per e a suo piacimento. Eppure il vero luogo dove accadono le cose è e rimane per tutto lo spettacolo il corpo. Il corpo che frapponendosi tra i proiettore e il telo bianco del fondo, diventa schermo su cui proiettare le immagini, su cui innestare luci e parti cibernetiche, il corpo che privato di una sua coscienza diventa oggetto per riacquisire con la memoria, attraverso un percorso di coraggio e ribellione, la propria soggettività.

In questo senso e con questo senso danzatrici donne danzano e narrano i soprusi di un maschile che incombe come ombra minacciosa e silenziosa, presente solo nelle cicatrici che lascia sui corpi, deturpati e annienti, involucri apparentemente vuoti privati della propria identità/memoria. Il nome D.A.I.K.I.N.I. è fortemente e volutamente evocativo. Dakini sono nella tradizione indiana figure femminili, ancelle di Kali, che si nutrono di carne umana, spiriti matrigni carnefici dei propri figli e dei propri uomini. Ma sono anche secondo la traduzione buddista tibetana “le Danzatrici del Cielo” traducendo in maniera più poetica la parola “khandro“, che letteralmente significa “colei che va in cielo”, o “colei che si muove nel cielo”. Colei che danza nel cielo, quindi, che è libera, libera grazie all’aver superato gli ostacoli e i limiti della mente comune. La parola Dakini che nello spettacolo si riferisce a un cyborg specifico in realtà è plurale, una pluralità di Dee, una pluralità di forme della Dakini che sono diverse fra loro come possono esserlo le singole fiamme dell’unico fuoco.

D.A.K.I.N.I. è dunque metafora posta ad indicare tutte le donne o se vogliamo il femminile in generale. Questo però è uno spettacolo di genere che vuole andare oltre il genere dimostrando come labili siano oggi i confini delle categorie che siamo abituati a conoscere. Il cyborg infatti è una creatura che vive in un mondo post-genere in cui natura e cultura sono rimodellate, le distinzioni tra naturale e artificiale, corpo e mente, maschile e femminile, autosviluppo e creazione e altre ancora che permettevano di distinguere gli organismi dalle macchine, sono divenute molto vaghe.

Secondo la studiosa statunitense Donna Haraway, capo-scuola della Teoria cyborg come branca del pensiero femminista che studia il rapporto tra scienza e identità di genere, la cultura occidentale è sempre stata caratterizzata da una struttura binaria che non è simmetrica, ma che è basata sul predominio di un elemento sull’altro. Come già anticipato in precedenza parlando della dualità tra soggetto-oggetto, nella tradizione occidentale sono esistiti persistenti dualismi che, come sostiene Haraway:

sono stati tutti funzionali alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, sulla gente di colore, sulla natura, sui lavoratori, sugli animali: dal dominio cioè di chiunque fosse costruito come altro col compito di rispecchiare il sé.

Haraway introduce quindi la figura del cyborg, che da invenzione fantascientifica diventa anche questa metafora della condizione umana. Di fronte a questa nuova realtà utopica, che potrà essere resa possibile dai crescenti progressi della tecnologia informatica, i concetti tradizionali di classe, razza, sesso, genere, corpo, identità, sono destinati a sparire.

Eppure già nel 1942 lo stesso Merleau-Ponty intravedeva una tesi anti-dualistica, cominciando a proporre il superamento dei dualismi almeno nella relazione soggetto-oggetto, individuando il corpo umano come luogo della relazione unitaria tra corpo e mente. Aprirsi al mondo partendo da un corpo significa guardarlo da una prospettiva situata in uno spazio e in un tempo.

Ma nello spettacolo che elimina la prospettiva spazio-temporale probabilmente l’unica via possibile che rimaneva al corpo era proprio quella del cyborg, corpo su cui sono stati impiantiti elementi artificiali che ne hanno potenziato il funzionamento facendolo diventare un super-corpo al quale non rimane che ricondurre un super-io, che secondo la teoria psicoanalitica rappresenta il censore che giudica gli atti e i desideri di ogni essere umano.

Il super-io, come è noto, porta alla frantumazione dell’Io ed alla sua successiva modificazione, in quanto vengono da esso assimilati modelli derivanti da imposizioni altrui. Il cyborg/donna/super-corpo dal super-io viene di fatto costruita a posta per ricevere imposizioni dall’unico embrione di umanità rimasta quella maschile. Inoltre la danza, e più in generale lo spettacolo dal vivo, sono stati oggetto di una retorica dell’effimero portata a formulare un’ontologia dell’impermanenza e della sparizione che è come vedremo il punto di arrivo dello stesso spettacolo.

D.A.K.I.N.I. e le sue sodali creano un nuovo modo di muoversi e interconnettersi con il Tutto, la smaterializzazione dei corpi, un movimento di particelle libero nello spazio e nel tempo.

Così si conclude la nota allo spettacolo che viene distribuita prima dell’ingresso in sala.

Rifacendosi nuovamente al significato della parola dakini intesa come il nome delle divinità buddiste tibetane, in termini più generali dakini viene indicato quale principio femminile come sottile flusso di energia che attraversa tutto il mondo fenomenico e quindi in primo luogo la natura. Ecco la smaterializzazione dei corpi per interconnettersi al Tutto.

Questa solidarietà tra cyborg/donne risvegliate da una coscienza ritrovata che decidono di rinunciare ai loro corpi, sembra richiamare nuovamente Haraway quando dichiara che chiamarsi femminista e voler affermare il proprio femminismo è divenuto difficile, perché nominarsi significa anche escludere e le identità sembrano essere contraddittorie e parziali. Di fronte alla crisi dell’identità politica della sinistra e del movimento femminista, un passo in avanti può essere costituito dalla rinuncia a ricercare una unione basata sull’identità in favore di una coalizione basata sull’affinità.

Questa affinità, sun pathos, di cui parla Haraway vede la sua realizzazione nella smaterializzazione di quel corpo che avevamo riabilitato, attraverso il superamento dualistico soggetto-oggetto, a rappresentare l’identità a favore di un interconnessione con il Tutto.

Proprio perché è stato il mio primo spettacolo di danza contemporanea di cui vado a restituire un’orma come testimone di tale esperienza, la mia concentrazione massima è stata rivolta proprio allo statuto ontologico di ogni discorso sulla danza: il corpo. Così l’idea che questo spettacolo si concludesse con un anti-danza smaterializzando il corpo mi intrigava.

Durante tutto lo spettacolo ho aspettato quella “smaterializzazione dei corpi” e mi sono chiesta curiosa come intendessero rappresentarla.

Arrivati alla conclusione un drappo rosso come fosse un’amaca viene calato dall’alto fino a toccare terra e riempie da parte a parte lo schermo bianco della parete di fondo. Le due donne cyborg e le due figure androgine della regia si spogliano completamente e si sdraiano tutte e quattro dentro quel drappo rosso, si spengono le luci dei riflettori poi quelle dei led dell’isola della regia, le intelligenze artificiali tacciono, i suoni metallici e digitali scompaiono…Buio. Fine.

Mi sono chiesta: la scelta della nudità come “smaterializzazione dei corpi” (???!!!???)

Si riaccendono le luci, il pubblico applaude e applaude e applaude, qualcuno urla “brave” poi voci sommesse, applausi sempre più forti e voci tra il pubblico che si fanno sempre più nitide: “ma non escono?” “non vengono a prendere gli applausi?” E capisco… la scena vuota, il pubblico che invoca le danzatrici, l’applauso che scema, il pubblico che si alza, esce, lo spazio si svuota, rimangono i mixer, luci a led spente, drappi abbandonati, teli vuoti, faretti inermi, computer con schermi neri in standby. Mentre esco mi volto ancora una volta a guardare la sala che adesso è completamente vuota e capisco… ora è finito: “la smaterializzazione dei corpi.”

Esiste in mezzo al tempo la possibilità di un’isola? Per D.A.K.I.N.I. e le sue sodali probabilmente no ma per noi spettatori si nell’eterotopia, per citare Foucault, dell’esperienza dello spettacolo dal vivo.

Performer: Federica Guarragi – Isadora Pei – Teresa Ruggeri – Camilla Soave

Regia + Visual Art: Isadora Pei

Drammaturgia: Emanuele Policante

Musica originale: Carlo Valsesia

Organizzazione: Selene D’Agostino – Sara Giorla

Nina Margeri

HARLEKING / BROTHER – FESTIVAL INTERPLAY

Immaginate la potenza di una creazione capace di influenzare le rappresentazioni a distanza di cinque secoli. La commedia dell’arte riesce in questa impresa sconfinando nel mondo della danza con Harlekingdel duo italo-tedesco Gineva Enrico.
Ad aprire la stagione del festivalInterplaysono due giovani artisti che portano in scena un contemporaneo passo a due.La frivolezza della più celebre maschera della commedia dell’improvviso segue un canovaccio che prima lascia spazio all’improvvisazione per diventare sempre più vincolante. I riflettori si scaldano sui movimenti spontanei causati dalle contrazioni muscolari dovute al riso. Il mescolarsi del sogghigno con spasmi dovuti a conati non permette allo spettatore di rallegrarsi, e ricorda la fame senza freni della maschera originale. La forte gestualità passa attraverso la valorizzazione del corpo e delle pose attribuite all’Arlecchino del passato, in questo caso senza maschera, ma facilmente riconoscibile. La partitura diventa sempre più serrata fino ad entrare in un loop magnetico. La staticità delle gambe si contrappone al continuo moto delle braccia trasformate in arti meccanici e costrette ad eseguire una sequenza infinita sempre simile ma mai identica. Sorprende come il movimento dei due performer, nonostante si faccia minuto fino a ridursi al moto delle sole falangi, riesca ad ipnotizzare il pubblico.

“Brother” è una panoramica sul mondo del movimento. Marco Da Silva Ferreira, coreografo portoghese nominato Aerowaves Twenty18, utilizza i corpi dei sette performer come malleabile argilla prima della cottura. Presentando uno ad uno ogni danzatore, l’autore dona a ciascuno un momento solistico atto a mostrare le doti personali. Il movimento viscerale che caratterizza ognuno si distingue da quello degli altri compagni di scena per intensità, stile e utilizzo del corpo, dando così allo spettatore una varietà visiva fuori dal comune. Questa diversificazione la troviamo anche durante i momenti di insieme che, pur avendo una partitura ben  definita, lasciano la possibilità ad ogni interprete di dare un’impronta  personale  al gesto. Ritroviamo sul palco movimenti che percorrono la storia della danza fino ai tempi più recenti, nobilitando linguaggi come il voguing che difficilmente vengono illuminati dai riflettori di un palcoscenico di questo genere. Il sapiente utilizzo della musica dilata oltre al visivo la creazione di Marco Da Silva Ferreira creando echi dei versi primordiali prodotti dai ballerini durante lo sforzo fisico.

di Davide Peretti

INTERPLAY 2019
Associazione Culturale Mosaico Danza

HARLEKING
di e con Ginevra Panzetti, Enrico Ticconi
sound design Demetrio Castellucci
light design Annegret Schalke
costumi Ginevra Panzetti, Enrico Ticconi
illustrazioni e grafica Ginevra Panzetti
diffusione Marco Villari

BROTHER
direzione artistica e coreografia Marco Da Silva Ferreira
performers (fase creativa) Anaísa Lopes, Cristina Planas Leitão, Duarte Valadares, Filipe Caldeira, Marco da Silva Ferreira, Max Makowski, Vitor Fontes
assistente direzione artistica Mara Andrade
direzione tecnica e design luci Wilma Moutinho
musiche dal vivo Rui Lima and Sérgio Martins