“Chi sono io?” È la domanda che tutti noi ci facciamo nel corso della nostra esistenza, ed è l’interrogativo al centro di questo spettacolo che con semplicità esplora le fasi di crescita dell’individuo, dalla nascita fino alla maturità. In linea con il tratto più sperimentale del Fringe Festival, la rappresentazione è caratterizzata da un aspetto improvvisativo, dettato dall’interazione continua tra i disegni di Stefano Matteo Porro e la musica dal vivo di Matteo Boglietti e Matteo Cicolin.
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“BUONA LA PRIMA” RUBRICA FRINGE FESTIVAL – UN’ORA DI NIENTE
UN’ORA!! SOLO IN UN’ORA! …Incredibile.
Niente da dire. E come si potrebbe dire qualcosa? Come si potrebbe dire tutto quell’universo di verità riassumendolo in queste poche e fugaci righe?! Eppure in una recensione, sarà pur questo che bisognerà fare.
Ora ci penso.
Raramente si vede qualcosa di simile. Uno spettacolo così non si può
Assurdamente sintetizzare, non si può incastonare in un riquadro, non lo si può svestire di quell’equilibrio aureo che ne è parte così essenziale.
“Buona La Prima” Rubrica fringe festival – Samya jusuf omar
Odore di oriente che ti prende alle spalle. Una figura bianca materna, carnale, ma al tempo stesso leggera, come una vaporosa nuvola, compare sulla scena. La dimensione aerea e quella terrena si fondono, la voce calda di Valentina Volpatto attraversa la scena che brilla ancora della polvere del deserto, e poco alla volta il corpo di Samya Josuf Omar.
Olimpiadi di Pechino 2008 – Sulla linea di partenza dei 200 metri tutte le atlete, con i loro abiti attillati e colorati fatti di materiali tecnici per meglio fendere l’aria durante la corsa, si preparano alla partenza. Samya è una di loro, ma contrariamente alle altre indossa un paio di fuseaux neri e una maglia di cotone bianca con su la scritta Somalia, sulla fronte una fascia di spugna della Nike che le aveva regalato il padre prima di essere ucciso. Durante quella gara farà il suo miglior tempo ma arriverà ultima. Nessuno poteva immaginare che una giovane donna somala, mentre il suo paese era martoriato e afflitto dalla guerra civile, potesse avere il coraggio di andare contro tutto e tutti presentandosi alle olimpiadi.

Lo spettacolo ha debuttato il 9 maggio al Museo Egizio, è la prima volta che Valentina Volpatto si cimenta in un monologo di cui è anche autrice. E’ grande l’emozione, Valentina accetta la sfida perché si innamora della storia di Samya, sente l’urgenza di raccontarla per non dimenticarla, perché diventi un simbolo di coraggio, e dopo aver visto lo spettacolo come biasimarla, è difficile non innamorarsi di Samya. Lo spettacolo è emozionante e commovente, sedie e drappi che compongono la scenografia risultano a tratti persino superflui, quando hai un personaggio e una storia così ricca come quella di Samya e un’attrice che sa, con la sua passione, connettersi e connetterci al cuore di questa giovane atleta.

Samya intraprende il “viaggio”che dalla Somalia la porterà in Libia attraverso stenti e sopprusi, per salpare su quei barconi che non trasportano più corpi ma sogni, l’unica cosa che sembra restare ancora vivo su quei visi emaciati, spettri di esseri umani. Samya vuole andare in Europa per cercare un allenatore che possa prepararla per le Olimpiadi del 2012 di Londra. Samya vuole meritarseli quegli applausi del pubblico non solo come incoraggiamento ma perché ha tagliato per prima il traguardo.
Samya corre veloce con i piedi ben piantati al terreno per meglio poter prendere la rincorsa per spiccare il suo volo. E vola in alto verso il cielo, lontana da quel mare e lontana da quella terra a cui quel barcone, il suo barcone non approderà mai. Vola in alto nel cielo Samya e scompare, diventa pulviscolo, odore d’oriente che ti prende alle spalle e ti rimane dentro.
Autore: Adattamento teatrale del romanzo “Non dirmi che hai paura” di Giuseppe Catozzella a cura di Valentina Volpatto.
Regia: Luca Busnengo
Interpreti: Valentina Volpatto.
Nina Margeri
“BUONA LA PRIMA” RUBRICA FRINGE FESTIVAL – THEO, STORIA DEL CANE CHE GUARDAVA LE STELLE
Sono tante le cose che si potrebbero raccontare del grande genio che fu Vincent Van Gogh, tanti i misteri che si potrebbero voler svelare e tante le fantasie che si potrebbe voler sognare pensando a questo affascinante artista. Eppure non sono queste le domande a cui la compagnia Anomalia Teatro ha deciso di rispondere, ma piuttosto: “Chi era l’ombra di questa enigmatica figura? Chi era la sua spalla? Chi tace dietro ai suoi schizzi di colore?” Perchè si sa, alle spalle di ogni colosso della Storia, si nasconde sempre qualcuno! Ed è esattamente questo di cui lo spettacolo “Theo – storia del cane che guardava le stelle” ci vuole narrare.
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“Sono fuori di me e sono in pena perché non mi vedo tornare” (Luigi Tenco)
Tre interpreti, sei personaggi, un tema: storie di ordinaria follia. Ha qualcosa di delicato e poetico, ironico e malinconico, lo spettacolo dei Nouvelle Plague. Storie vere tratte dal saggio di una sociologa napoletana: Stefania Ferraro, che vengono riscritte per la scena. Sulle note di violi e sinfonie classiche personaggi dai toni bianchi e neri disvelano un arcobaleno di emozioni. Nella scena che si presenta sin da subito scarna, sono i gesti precisi e puntuali, di corpi che hanno la qualità della danza, a disegnare nell’aria scenari immaginari e immaginati. Luoghi che i personaggi disegnano abitandoli. Un po’ quello che succede nella mente di un “semimbecille” che abita un mondo disegnato nell’aria che noi “imbecilli” non riusciamo a vedere.

Il disagio mentale, raccontato nello spettacolo, che sfocia in atti di violenza, causato quasi sempre dalla “mancanza” d’amore, di condivisione, dalla mancanza dell’altro, sottolinea come l’uscire fuori di sé sia la condizione necessaria all’atto d’amore. Ma questo uscir da sé se trova nell’altro un approdo sicuro e accogliente riesce a tornare in sè in una navigazione che da sé porta all’altro e viceversa e che ogni volta è uno scambio e un arricchimento che si chiama crescita. Se quindi nell’atto d’amore è auspicabile sapere e potere uscire da sé per emanciparsi da un egoismo apocalittico, in una condizione di assenza dell’altro, l’uscire da se non ha rotte tracciate e vagando alla cieca c’è il rischio di perdere per sempre la via del ritorno:
Sono fuori di me e sono in pena perché non mi vedo tornare

Con Cesare Lombroso a scrutare e indagare i volti degli spettatori che cominciano ad accomodarsi su sedie molto a ridosso della scena che essendo allo stesso livello degli attori accorcia di molto la distanza. Forse proprio in un tentativo inconscio di restituire se non proprio alle vite originarie almeno alle memorie di esse un altro in cui tornare in sé.
Autore: Giulia Bocciero, Stefania Ferraro.
Regia: Giulia Bocciero, Valentina Bosio, Davide Simonetti.
Interpreti: Giulia Bocciero, Valentina Bosio, Davide Simonetti.
Luci: Rosa Vinci.
Musiche: Vincenzo Bocciero, Ettore, Maggese.
Nina Margeri
Il torpore della marionetta- Torino Fringe Festival 2018
All’interno del Torino Fringe Festival 2018, il nuovo teatro Caffè Müller ha deciso di portare avanti il progetto Rassegnainsilenzio di Maura Sesia e ha selezionato tre spettacoli con forti contenuti che siano godibili in silenzio, senza l’uso della parola. Gli spettacoli sono: Sentieri in rosa della Compagnia Ciclope di Palermo (teatro di narrazione in lingua italiana dei segni L.I.S.), Talita Kum della Compagnia Riserva Canini di Firenze (teatro di figura) e Note sul silenzio della fondazione Cirko Vertigo che fra l’altro ha proprio sede al Caffè Müller.
Lo spettacolo Talita Kum in particolare è molto interessante perché poetico e onirico, capace di trasportare in una dimensione surreale. Immaginato e scritto da Marco Ferro e Valeria Sacco, ha debuttato nel 2012 e ha avuto la fortuna di poter essere molto replicato e apprezzato soprattutto all’estero grazie al fatto che appartiene al genere del teatro di figura. Si esibisce da sola l’attrice Valeria Sacco, nel ruolo sia di marionettista che marionetta, e tiene in equilibrio un gioco di illusione dal vivo in cui la vita scorre alternata fra queste due figure.
Siamo in un luogo notturno ed interiore, una grotta desolata dove si sente il suono dell’aria che si infila tra le rocce e ci comunica una sensazione di freddo, suggerita anche dalla piacevole freschezza del Caffè Müller. Al centro della sala è posta una specie di tenda indiana, dietro alla quale si sviluppa un gioco di luci dando vita a ombre cinesi. Si può intravedere il profilo di una graziosa marionetta e dalla tenda viene fuori una creatura oscura dalle sembianze umane, che si muove scomposta come se funzionasse a zampilli vitali intermittenti. La creatura si sente sola, tira fuori da una valigia una radio da cui provengono suoni intermittenti e frammenti di programmi radio internazionali e infine delle corde, con cui si allontana rintanandosi nella tenda. Un gioco di ombre ci fa intravedere i suoi movimenti e la distinguiamo mentre lega la marionetta al suo corpo.
Fin da subito le due figure ci accompagnano in un sogno, in una dimensione che stimola il lato emotivo e che vive di regole proprie, in cui la ninfa vitale scorre fra la creatura oscura e la fragile marionetta di dimensioni umane. Ballano assieme sulle note del valzer sentimentale di Čajkovskij e nell’arco dello spettacolo la marionetta prende vita, impara dal suo marionettista a bere, mangiare e a ballare, finché non rimane lei l’unica in scena, assorbendo tutta l’essenza del marionettista, che si scopre essere infine lei, fin dall’inizio. Mette in piedi un gioco illusionistico un po’ particolare, dove la stessa marionetta non si sa se è consapevole di essere lei che manovra tutto oppure ne prende conoscenza solo alla fine.
Per tutto lo spettacolo riesce a farci dubitare che sia sola in scena e ci confonde fino alla fine, quando finalmente ci svela il segreto della sua esibizione smontando le parti del corpo della marionetta.
L’impianto scenografico è molto semplice, ci sono pochi oggetti e la suggestiva tenda è l’uso della luce è interessante più che altro per le ombre cinesi che si allontanano e avvicinano, confondendo lo spettatore su quello che sta avvenendo dietro, e per i rumori che creano una specie di colonna sonora. Ma forse l’aspetto più interessante dello spettacolo, oltre alla formidabile bravura di Valentina Sacco nell’animare una marionetta e usare anche il suo corpo in scena, è il titolo dello spettacolo; Talita Kum è un’espressione aramaica proveniente dal Vangelo che significa “Fanciulla, alzati”.
La marionetta si è effettivamente alzata e ha sbalordito il pubblico, in uno spettacolo che va rivisto una seconda volta per comprendere le dinamiche in scena.
Andreea Hutanu
Fotografie di Domenico Semeraro
TALITA KUM
Immaginato e creato da Marco Ferro e Valeria Sacco
Disegno luci Andrea Narese
Disegno del suono Stefano De Ponti
Musiche originali Luca Mauceri, Stefano De Ponti, Eleonora Pellegrini
Con Valeria Sacco
Regia Marco Ferro
Una Produzione Riserva Canini
IL SOGNO DI BOTTOM: La realtà di oggi letta con sguardo ingenuo e crudele ironia
In un mondo ormai dominato dalla televisione e dalla tecnologia, c’è ancora spazio per il teatro?
Questa è la domanda a cui lo spettacolo, messo in scena dalla fondazione TPE per la regia di Lia Tomatis, cerca di trovare una risposta.
La ricerca avviene attraverso le parole e i gesti di Rick Bottom e Peter Quince, due personaggi del Sogno di una notte di mezza estate, probabilmente la commedia più famosa di William Shakespeare.
La trama dell’opera costituisce il punto di partenza della rappresentazione; tuttavia, questa se ne discosta quasi subito per prendere una strada autonoma. Inoltre, non mancano le citazioni di altri testi del drammaturgo inglese, tra i quali Amleto, Macbeth, Riccardo III e La Tempesta.
Sono rimasto piacevolmente colpito dall’originalità con cui il testo di Shakespeare è stato riletto in scena. In una scenografia essenziale (costituita da un semplice sgabello di legno), tutto è affidato alla parola e al suo potere evocativo. Sono i personaggi a trasportarci man mano in ambienti ed epoche diverse, grazie alle loro azioni. Un ritorno alle origini del teatro, che oggi viene percepito come novità.
Questo spettacolo conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanto i testi di William Shakespeare siano straordinariamente attuali. Per quanto si possa scavare al loro interno, non si finirà mai di scoprirne nuovi aspetti e chiavi di lettura.
Sono testi attuali perché lo sono i personaggi che li popolano. Uomini e donne tormentati dagli stessi problemi e dubbi che affliggono gli spettatori, in epoca elisabettiana come in quella contemporanea.
Vorrei spendere due parole sugli attori, Gianluca Guastella (Rick Bottom) e Riccardo de Leo (Peter Quince). Essi, infatti, hanno tratteggiato due personaggi totalmente opposti tra loro, ma proprio per questo complementari l’uno all’altro, come le due metà di una sola persona.
Bottom è la metà istintiva, irrazionale, ingenua. E’ un personaggio a tratti infantile, costantemente perso nel suo mondo immaginario. Proprio per questo motivo appare come un estraneo nella nostra società.
Quando si addormenta e si ritrova in epoca contemporanea, gli sembra di vivere un incubo da cui non riesce più a svegliarsi. Il suo sguardo diventa anche il nostro, una specie di lente attraverso cui osserviamo il mondo di oggi. Una visione priva di filtri, probabilmente ancora più spietata perché sincera nell’evidenziare tutti i difetti della nostra società. Quince, invece, è la metà razionale. E’ la perfetta rappresentazione dell’uomo contemporaneo, sempre di fretta perché impegnato e costantemente attaccato al suo smartphone.
Personalmente, trovo che Guastella sia stato più efficace, rispetto a de Leo, nel restituire il proprio personaggio sul palco. Al di là della tecnica (eccellente), è riuscito ad esprimere con forza il carattere sognante e ingenuo di Bottom.
De Leo, invece, pur possedendo una buonissima base tecnica, ha fatto apparire Quince solo a tratti, il suo personaggio era “opaco”, non sempre è stato efficace nel dargli maggiore forza espressiva.
La rappresentazione si basa sullo schema del “teatro nel teatro”. A mio parere, era necessario per raggiungere lo scopo prefissato. Lo spettacolo non poteva fare altro che reggersi su questi meccanismi. Esistono molti modi per criticare il teatro, ma credo che quello più efficace sia svelarne gli ingranaggi interni, in modo da poter vedere meglio il danno e ripararlo.
La domanda sul senso del “fare teatro” oggi sembra apparentemente lasciata in sospeso al termine dello spettacolo.
In realtà la risposta viene data, ma non esplicitamente. Per capirla, è necessario prestare molta attenzione a ciò che non viene detto ma solo lasciato intendere tra le righe.
Sì, ha senso fare teatro oggi. Non solo ha senso, ma è necessario. Viviamo in un’epoca dominata dall’apparenza e dalla superficialità. Noi uomini siamo ossessionati dall’idea di dover emergere a ogni costo e con ogni mezzo, per questo andiamo di fretta e vogliamo tutto subito. All’interno di questo contesto sociale, il teatro è uno dei pochi strumenti ancora in grado di farci fermare e riflettere, producendo esattamente l’effetto opposto a quello della televisione o della tecnologia che ormai ci hanno invasi.
Con questo non intendo certo dire che il teatro sia la cura di tutti i mali. Anzi, nella maggior parte delle produzioni odierne <<c’è del marcio>> (e Il sogno di Bottom non manca certo di sottolinearlo).
La rappresentazione messa in scena dalla Tomatis non ci dice come dovrebbe essere il teatro oggi, perché preferisce mostrarcelo. La risposta è dunque implicita nella messa in scena stessa della rappresentazione. Un teatro semplice, non spettacolarizzato e con scenografie ridotte all’essenziale. Un teatro in cui gli attori possano ritrovare la loro antica e genuina capacità di evocare immagini attraverso parole e gesti, in modo da stimolare la fantasia dello spettatore e fargli aprire la mente. Un teatro che sappia anche prendere (e prendersi) in giro, ma senza mai scadere nella critica sterile e fine a sé stessa, perché in fondo il teatro è un sogno che, per un breve periodo, può farci dimenticare la realtà.
L’infantilità di Rick Bottom, che emerge a tratti e stride con l’apparente “serietà” del nostro mondo, è secondo me la chiave di lettura di tutta la rappresentazione. E’ come se il personaggio ci suggerisse di provare ogni tanto a tornare bambini, cioè di perdere tempo a guardare anche le cose più insignificanti con curiosità e andare oltre le apparenze.
In fondo, come dice Bottom stesso nello spettacolo, citando Macbeth: <<La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e si pavoneggia per un’ora sulla scena e poi non si presenta più>>, quindi non va presa troppo sul serio.
Shakespeare lo aveva capito, ma noi lo abbiamo dimenticato.
Sirio Alessio Giuliani
Oh Borso – Ragazza seria conoscerebbe uomo solo max 70enne – Fringe
All’interno del Torino Fringe Festival, che è iniziato l’11 maggio e terminerà il 21, ho visto un divertente spettacolo su un mondo all’apparenza desueto, ma che si rivelerà, invece, decisamente vivace: quello degli annunci matrimoniali.
Ragazza seria conoscerebbe uomo solo max 70enne racconta la storia di Rosi, donna in cerca dell’amore. Lo spettacolo si apre con l’arrivo della protagonista che prepara e sistema il luogo per il suo appuntamento con Raimondo : “35enne, romantico che guarda dentro le persone, aspetta di finire tra le braccia di una donna capace di sorprenderlo. Desidero un futuro insieme. Astenersi rumene e perditempo.”
Dopo un quarto d’ora, Rosi (Carla Carucci) è ancora sola, e tra una gag e l’altra ha allestito in maniera molto sofisticata la tavola. Rosi però non demorde e confida che il suo Raimondo si farà vivo, anche dopo la lunghissima attesa, fino a quando infine capisce…. che non si presenterà nessuno. Presa da un’irrefrenabile rabbia inizia a leggere la sua raccolta annunci che porta sempre con sé in borsetta. Uno ad uno, gli autori degli annunci prendono vita, e la nostra Rosi si vendica facendoli soffrire per averle sempre dato buca: il primo allergico ai fiori lo rinchiude nel boccale con tanto di fiori centrotavola; il secondo lo tagliuzza con le posate; il terzo amante, quello delle passeggiate in montagna, è buttato giù dalla sedia. E così in un crescendo, finché non li fa saltare in aria tutti quanti. Rosi è libera! In quel momento, l’unico compagno di vita, quello che le è sempre stato al fianco, ha il coraggio di dichiararsi: il Borso, sì la sua amata borsetta che ha sempre contenuto i suoi annunci è innamorato di lei. Le fa vedere come sia possibile e roseo il futuro insieme, e Rosi, di fronte a tanta dedizione, non può che accettare. Si sposano in scena, con il pubblico complice. Ma in realtà il Borso è malvagio, c’è lui all’origine di tutti gli insuccessi sentimentali di Rosi, e a nulla sono valsi i tentativi di Telefono, Saliera e di altri per metterla in guardia. Capita la malvagità del Borso, Rosi alla fine ha la meglio su di lui, e a concludere il tutto con un lieto fine arriva proprio il ritardatario Raimondo: lo spettatore più carino della sala, pescato ogni sera dal pubblico e disponibile a giocare. E così Rosi ha trovato, forse, il suo vero amore.
Un divertentissimo one woman show, in cui Carla Carucci anima tutti gli elementi della scena: dai bigliettini che diventano gli spasimanti, al mitico e cattivo Borso. Uno spettacolo efficace e ben costruito, che attinge per i suoi segni espressivi anche dalla tradizione del teatro ragazzi e della clownerie.
Di e con: Carla Carucci,
regia: Ian Algie e Carla Carucci,
luci: Luca Carbone
costumi: Carla Carucci.
Elisa Mina
Dust e In Verdis al TOFringe
“Il grande male del mondo è il Disagio, che abolisce la Bellezza e abolisce la bellezza della Diversità.” Così ha dichiarato Barbara Altissimo della compagnia LiberamenteUnico, durante il dibattito alla fine dell’evento speciale ospitato nella quinta edizione del Torino Fringe Festival. È però solo una delle tante stimolanti riflessioni che hanno concluso la serata di martedì 16 maggio alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, serata dedicata alla proiezione di due opere video. L’obiettivo era quello di mostrare al pubblico gli “invisibili”, le persone che la società emargina facendole scomparire agli occhi, di mettere in luce quelli che normalmente passano inosservati. Ma farlo senza cedere alla retorica.
Il primo dei due video, il documentario Dust – The wanted life di Gabriele Falsetta, ha mostrato come la città di Torino si sia dimenticata per anni di bambini che, rinchiusi tra le mura dell’ospedale Cottolengo per essere stati colpiti in tenera età da qualche disturbo mentale, hanno avuto l’unico desiderio di poterne uscire, un giorno. Con questa speranza, di anni ne sono passati fin troppi, tanti da far appassire quei sorrisi gioiosi e infantili. Nessun principe azzurro è arrivato a salvarli come nelle fiabe, ma qualche anno fa si sono ritrovati a far parte di questo documentario grazie a delle volontarie molto determinate che videro in questo progetto una vera “battaglia per la dignità”. Il documentario, tratto dal progetto teatrale POLVERE e prodotto da Kess Film e Frömell Films Production, ha ottenuto segnalazioni e riconoscimenti.
Il secondo video, Uno studio per In Verdis, produzione di LiberamenteUnico e ideazione di Azul, ha come sottotitolo Appunti di viaggi, nella speranza che il prossimo anno il progetto iniziato possa avere un seguito. Il percorso iniziato quest’anno ha compreso non solo ragazzi disabili, ma racconti di adolescenti e non, ognuno con una propria lotta da combattere, cercando di mettere a nudo le proprie fragilità. Attraverso il teatro e il corpo i ragazzi hanno avuto modo di mettersi in rapporto con realtà diverse dalla loro e imparare dall’esperienza dei loro compagni. Un ottimo lavoro di condivisione e di rispetto verso l’altro. È un progetto di Formatico, in collaborazione con la Cooperativa Valdocco e a cura di Barbara Altissimo e Ivana Messina, ovvero le conduttrici di entrambi i percorsi che hanno anche partecipato al dibattito alla fine delle proiezioni insieme a Rita Fabbris dell’Università degli Studi di Torino, a Beppe Quaglia della Cooperativa Valdocco e ad alcuni giovani protagonisti del progetto In Verdis.
Spero si presenterà l’occasione di vedere in scena uno spettacolo realizzato da coloro che ne hanno fatto parte, per avere davanti agli occhi, in tutta la loro concreta presenza, quei volti, quei corpi e quei vissuti. L’intensità durante la discussione finale e l’emozione di tutti erano palpabili. Forse per chi, come me, non conosceva i protagonisti, sarebbe stato di impatto ancora maggiore poter conoscere più a fondo ciò che il video ha mostrato per accenni. L’idea che il diverso sia un problema da gestire e da guidare dall’esterno, ha provocato la falsa necessità di dover essere necessariamente tutti uguali, tutti “normali”. Queste testimonianze video, a parer mio soprattutto Dust, hanno voluto inquadrare il mondo che conosciamo da un’altra prospettiva: come se quello che, nella realtà di tutti i giorni, viene percepito come “sbagliato”, come un “errore”, avesse potuto finalmente mostrare il proprio, speciale, valore.
Alessandra Botta
ANNA CAPPELLI: CENA DI MOSTRI A LUME DI CANDELA
Uno degli ultimi spettacoli del Torino Fringe Festival 2017 è stato Anna Cappelli (ultimo testo di Annibale Ruccello) presso il Garage Vian di via Castelnuovo, luogo intimo e “underground”, capace di ospitare spettacoli che non richiedano una grande scenografia o un grande numero di attori, come ad esempio il monologo al quale io e altri spettatori abbiamo assistito sorseggiando un buon bicchiere di vino.
Siamo negli anni Sessanta, in pieno boom economico. Anna è una giovane donna che lavora come impiegata in una piccola città lontana da casa, condividendo l’appartamento con una vecchia signora che ha dei gatti maleodoranti e la brutta abitudine di non farsi gli affari suoi. La vita grigia e semplice di Anna scorre monotona, non riesce a legare con le colleghe in ufficio che le paiono troppo pettegole, la sua vita è fatta di cene solitarie e domeniche al cinema, fino a che un giorno non farà l’incontro della sua vita: il ragioniere Tonino Scarpa, uomo facoltoso e proprietario di una villa con dodici stanze, si interesserà a lei e la inviterà a cena. Ma dopo diversi mesi di incontri, Anna capisce che Tonino ha una visione diversa della vita rispetto alla sua: non vuole sposarsi, non vuole avere figli. E pensare che l’unica cosa che Anna aveva sempre voluto era una famiglia e dei possedimenti da considerare suoi legalmente. Ma Anna è apparentemente una creatura molto docile, quasi insignificante, sembra non riuscire a imporre i suoi valori sopra quelli del compagno e alla fine accetta di andare a vivere con lui. Con questo atto sfida i pregiudizi della sua padrona di casa, degli amici, dei colleghi, e soprattutto dei genitori, ma non le interessa perché il suo amato Tonino le ha promesso che sarebbero stati come sposati, che sarebbe diventata la padrona di casa.
E’ dopo il trasferimento che Anna sfodera la sua furia e il suo forte carattere, al limite dello sdoppiamento di personalità: rivendicando il suo potere sulla casa e tutto quello che contiene, compreso Tonino, costringe il compagno a disfarsi della vecchia domestica che era diventata per lei un intralcio, una rivale da battere per sottolineare di essere lei sola la padrona.
Anna è però divorata dall’egoismo, dalla gelosia, dal desiderio morboso di possesso e il voler difendere a tutti i costi il suo nuovo status la sta distruggendo, la sta trasformando in un mostro che altro non è che frutto della follia generata dalla normalità borghese. Anna è figlia di una trasformazione culturale che non si è ancora arrestata ed è per questo che la sua storia è attuale e ascoltandola parlare ci schieriamo tutti dalla sua parte. I suoi mostri, i suoi fantasmi e le sue paure, sono in realtà anche i nostri, e in un mondo dove i rapporti sono sempre più incerti, Anna reagisce nel modo che le sembra più giusto: si impossessa fino in fondo dell’unica cosa che ha sempre voluto, Tonino. Questi, spaventato dalla tenacia della compagna, decide di nascosto di fare richiesta per un lavoro lontano da casa e la informa solo ad una settimana dalla partenza. Anna non ha altra scelta, deve fare qualcosa: la loro relazione era iniziata con una cena, e con una cena finirà.
“Mi dispiace … Mi dispiace proprio Tonino … Mi dispiace veramente … Credimi … Ma secondo te avevo forse qualche altra scelta? […] Sai Tonino, tu non mi abbandonerai mai più … Ma veramente … Mai più!…E sai perché … Perché io adesso … Ti mangio … Sì, ti mangio … Ti mangio tutto!”
La scenografia è minimale: telo nero come sfondo, appendiabiti a vista e una tavola apparecchiata con una sedia e alcune candele che vengono accese nell’ultima scena. I colori dominanti sono il bianco, il nero e il rosso. Le musiche, che scandiscono i cambi temporali e tematici del monologo, appartengono al tempo di ambientazione della storia. Son funzionali a sottolineare i sentimenti di Anna, e si interrompono in seguito a un suo gesto o a un suo movimento.
Valentina Tullio ha interpretato il testo con aderenza, rendendo con notevole efficacia il drammatico mondo interiore del personaggio, attraverso tic e cambi repentini di voce. Interessante l’idea di sistemare a vista un appendiabiti dal quale l’attrice stacca l’abito che le serve, indossandolo in scena: anche tramite il costume possiamo vedere il cambiamento interiore di Anna. Da ingenua impiegata, si trasforma in una seduttrice con i capelli sciolti e una provocante sottoveste, convinta di avere tutto il potere nelle sue mani, fino a raggiungere, alla fine, il massimo dell’emancipazione indossando un completo maschile bianco.
di Alice Del Mutolo
di Annibale Ruccello
regia di Pierpaolo Congiu
con Valentina Tullio
luci Emanuele Vallinotti
organizzazione Simona Operto