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il Giardino dei Ciliegi secondo Malosti

Il giardino dei ciliegi è l’ultimo testo teatrale scritto da Anton Čechov tra il 1902 e il 1903. È composto di quattro atti, presenta un forte richiamo biografico e si può affermare che in questa opera compaia l’idea visionaria di una società ormai finita e completamente ribaltata, idea che poi avrà la sua conferma quindici anni dopo con la Rivoluzione d’Ottobre.

E’ la storia di una famiglia aristocratica russa che decide di tornare nella proprietà di campagna dove vi è un grande giardino di ciliegi. Il tutto inizia in una mattina di maggio: c’è un clima di grande attesa nella camera di bambini. Tutti stanno aspettando che la famiglia ritorni a casa dopo cinque anni di assenza. Sin da quando i protagonisti entrano in scena ci si accorge dell’aria spensierata che hanno tutti anche quando, poco dopo i saluti, il mercante Ermolaj (interpretato da Fausto Russo Alesi) comunica che la loro proprietà ad agosto sarà messa all’asta per far fronte ai debiti. Ermolaj propone di dividere il giardino in tanti lotti da poter affittare ai villeggianti in estate così da raggiungere la somma di denaro necessario in poco tempo. Ma ovviamente questa idea non viene presa minimamente in considerazione da Ljuba, la padrona di casa, che in quel giardino, dove ogni giorno poteva ammirare la bellezza dei suoi alberi di ciliegio, ha vissuto la sua vita e dove hanno vissuto tutti i suoi antenati. Infatti la sentiamo dire: “Dormivo in questa stanza, da qui guardavo il giardino, la felicità si risvegliava con me, ogni mattina, ogni mattina era come oggi, niente è mutato”. Entra uno studente universitario amico di suo figlio, morto cinque anni prima nel fiume del giardino. Il primo atto finisce con la confessione della figlia, Anja, a sua sorella adottiva, Varja, a proposito dei tanti debiti che ha la madre, che potrebbe risanare sposando un uomo ricco, per esempio il mercante, oppure cercando un prestito da una loro zia.

il giardino dei ciliegi

Nel secondo atto riusciamo a percepire la grande noncuranza della famiglia per la situazione economica molto critica. E’ come se ciascuno di loro fosse rinchiuso in un mondo fittizio di illusioni per scappare dai problemi scomodi e dalle sofferenze. L’unico che cerca di riportare i discorsi sui problemi economici è il mercante mentre Ljuba riesce solo a pensare a quell’uomo con cui ebbe una relazione a Parigi e che, approfittando della sua ricchezza, sperperò tutto il suo denaro per poi abbandonarla. Sempre più si capisce perché l’autore definisse questa opera una commedia (più precisamente una vaudeville) e non una tragedia come invece venne classificata sin dalla sua prima apparizione al Teatro d’Arte di Mosca sotto la direzione di Stanislavskij e di Dančenko, supervisionato dallo stesso Čechov. C’è infatti nel testo un grande contrasto tra momenti comici e momenti drammatici che distolgono l’attenzione dal problema principale e che creano nello spettatore una sorta di ambivalenza nel capire la direzione che vuole prendere quest’opera.

Nel terzo atto siamo all’interno di una festa che Ljuba ha organizzato nella speranza di avere buone notizie dall’asta in corso. In questo clima di allegria tutti festeggiano tranne Varja che rimprovera i partecipanti per il loro comportamento incosciente. A Ljuba arriva un telegramma da Parigi che la informa che il suo vecchio amore è malato e le chiede di scusarlo e di ritornare da lui. Lei ammette di non voler più avere nulla a che fare con Parigi e con quell’uomo spregevole ma che è forte la voglia di raggiungerlo anche se lo studente cerca di dissuaderla. Nella figura di questo giovane universitario si rispecchiano tutti gli ideali rivoluzionari di uguaglianza e libertà. All’improvviso entra Anja annunciando disperata che il giardino dei ciliegi è stato venduto e la madre incredula cerca delle spiegazioni da suo fratello Leonid (interpretato da Natalino Balasso), che però va diretto in camera sfinito dalla lunga giornata, e dal mercante Ermolaj che, pieno fin sopra ai capelli di alcool, cerca all’inizio di temporeggiare e poi ammette di aver comprato lui la proprietà. Il mercante con la sua azione comandata dalla rabbia, vuole vendicare tutti i suoi avi e restituire loro l’onore. Varja, la sua ipotetica promessa sposa, getta in terra le chiavi della villa ed esce infuriata. Alle fine del terzo atto vediamo Ljuba piangere mentre sua figlia Anja cerca di consolarla provando a farle immaginare un futuro nuovo e pieno di felicità. Scoppia qui un grande momento di disperazione della proprietaria che dà sfogo a tutto il suo immenso dolore e che rispetta a pieno le aspettative dello spettatore. Un momento di enfasi a mio parere necessario in questo punto del dramma. Sin dalla sua comparsa il personaggio di Ljuba viene interpretato da Elena Bucci con grande consapevolezza e sembrerebbe di immedesimazione totale, tanto da non percepire il minimo segnale di finzione nella sua recitazione. La Bucci interpreta il personaggio così come ci si aspetterebbe di vederlo. Penso più in generale che ci sia stato da parte di tutti gli attori della compagnia un grande studio sul proprio personaggio regalando così a ciascuno di essi un proprio spessore psicologico e un carattere ben definito. Una nota positiva va senz’altro attribuita al regista Valter Malosti per esser riuscito a incastrare i tempi delle diverse scene e a creare un ritmo magnetico in tutta la rappresentazione, caratteristica molto importante in questo dramma tanto che Mejerchol’d associava Il giardino dei ciliegi a una sinfonia di Čajkovskj. Dall’inizio la scenografia è quasi tetra, composta da pochi elementi ma essenziali. La musica, talvolta con suoni simili a dei boati, riesce ad avvolgere completamente gli spettatori .

Il quarto atto inizia nella camera dei bambini, come nel primo atto, ma con tutti i mobili coperti da teli bianchi e le valigie pronte. Il mercante prova ad offrire dello champagne per festeggiare ma il clima è tutt’altro che di festa. Dopo i saluti tra lui e lo studente dall’esterno si sentono dei colpi d’ascia e Anja chiede su ordine della madre di lasciare il giardino in vita fino alla loro partenza. La ragazza chiede notizie sulla salute di Firs, il fidato maggiordomo della famiglia che sentendosi male quella mattina, qualcuno ha portato in ospedale. La proprietaria entra con il fratello nella camera dei bambini per dare l’addio alla casa della loro infanzia. Lui annuncia di aver trovato un lavoro in banca e Ljuba rivela la sua ferma intenzione di tornare a Parigi dal suo vecchio amante. A Ermolaj chiede come ultimo favore di dichiararsi a Varja ma, una volta convinto, niente andrà a buon fine e si determina una situazione di profondo imbarazzo. Così il mercante scappa con una scusa banale lasciando la ragazza cadere in lacrime. Lentamente rientrano tutti in scena, pronti a partire e ognuno dà il proprio ultimo addio alla casa e al giardino dei ciliegi. Chi senza speranza, chi pronto a vivere una vita nuova, e chi, come i due fratelli, solo ora si rende conto di ciò che è successo. Questi ultimi rimangono soli nella stanza della loro infanzia piangendo, abbracciandosi e salutando per sempre il loro vecchio mondo. Quando escono, si ode il rumore della porta chiusa a chiave per l’ultima volta.

La scena ora è vuota. Pensiamo che sia tutto finito ma si sente il rumore di una porta che viene aperta. E’ Firs che entra tossendo e scopre di essere stato dimenticato nella vecchia villa. Subito si rende conto che come nacque e crebbe in quella casa, ben presto gli resterà anche da morire. Si sdraia su una poltrona e si abbandona al suo destino, mentre fuori scena si odono i primi colpi che abbatteranno per sempre il giardino dei ciliegi.

Alessandra Botta

Felicita è diventata adulta

“Signorina Felicita, è il tuo giorno!

A quest’ora che fai? Tosti il caffè?

E il buon aroma si diffonde intorno?

O cuci i lini e canti e pensi a me,

all’avvocato che non fa ritorno?

E l’avvocato è qui: che pensa a te.”

 

 

Guido Gozzano I colloqui

 

Lo spettacolo teatrale di Lorena Senestro ispirato a La signorina Felicita ovvero la Felicità opera del poeta Guido Gozzano è un’interessate rielaborazione della storia che conosciamo. Il protagonista della vicenda, il poeta-avvocato immerso nella vita cittadina e frenetica incontra Felicita, una donna semplice con occhi “di un azzurro stoviglia” e che proprio grazie a queste qualità autentiche pone le basi della sua strana e sottile seduzione che raggiunge il cuore del protagonista. L’infatuazione però durerà poco. L’avvocato sarà costretto a tornare in città abbandonando la ragazza e rendendosi conto di avere egli stesso recitato una parte pensando di migliorare la sua vita insieme a lei. Il personaggio di Felicita ci affascina e conquista Gozzano che si immedesima nella figura dell’avvocato e nell’ammirazione di questa ragazzina impaurita che diventa musa ispiratrice dell’autore “tu non fai versi, Tagli le camicie per tuo padre…”.

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Il sipario si apre mostrando una Felicita sola insieme al fantasma del padre che le racconta le favole e canta con lei. Rinchiusa in una casa in cui gli oggetti diventano giganteschi, forse allusione a quel mondo “alto” di feste e cerimonie che tanto ha desiderato, ma mai ottenuto riservandosi la parte di mera osservatrice. In mezzo a questi oggetti si muove come una moderna Alice nel paese delle meraviglie cercando di trovare un senso a tali simboli che caratterizzano così tanto il suo passato. Sedie altissime e sottili che alludono forse anche alle forme allucinate di Dalì accentuando il contrasto tra robustezza e fragilità che è poi il binomio presente nell’animo di questa donna forte e ambiziosa ma non abbastanza coraggiosa da prendere in mano la sua vita.

Felicita non è più la ragazza ingenua e debole che ci saremmo aspettati in una versione più tradizionale e vicina al punto di vista di Gozzano, ma nella versione della Senestro una donna moderna che ha capito di essere stata intrappolata in un mondo che non le appartiene. Come se il messaggio stesso del testo di Gozzano, si ribellasse a quello dell’autore dicendo: ecco qui la donna moderna, consapevole e indipendente.

La recitazione di Lorena Senestro alterna momenti di follia a momenti di lucidità dove l’essenza vera del personaggio si manifesta per esempio quando vediamo la donna arrampicarsi su una gigantesca sedia e perdersi nel ricordo del primo e unico bacio dato di nascosto al suo Guido. Momento che mi ha emozionato molto nella descrizione così puntuale delle sensazioni spirituali e fisiche che si provano a baciare qualcuno.

Nel complesso uno spettacolo ben recitato dall’ attrice protagonista, affiancata in alcuni brani da Andrea Gattico che offre allo spettacolo un interessante scambio di suggestioni musicali, canore e teatrali. La presenza quasi solitaria della Senestro inizialmente mi ha fatto pensare che potesse risultare ripetitivo per il pubblico. Ma la Senestro supera la prova mostrandoci i frutti del lavoro attoriale di un’interprete che ha studiato da auto-didatta e che dunque merita lode nel risultare più vera di alcune attrici che possiamo vedere a teatro, uscite dalle migliori scuole ma che poi risultano fredde in scena.

Man mano che lo spettacolo entra nel suo culmine lo spettatore viene ipnotizzato dall’inafferrabilità di questo personaggio seppur di animo così semplice.

Quella che ci viene rappresentata è la triste storia di una donna che ha perso le sue ambizioni e si sente chiusa in un mondo preconcetto dove ogni cosa è un rituale da ripetersi e ci affascina perchè dopotutto ci riguarda da vicino, nella nostra corsa contro il tempo a cercare una risposta che forse non arriverà, sempre in bilico per citare le parole dette dalla Senestro: “Tra la morte e la felicità!”.

 

Linda Borello

 

 

La signorina Felicita ovvero la Felicità

18-30 ottobre 2016

uno spettacolo di Lorena Senestro

con Lorena Senestro e Andrea Gattico (pianoforte)

progetto scenografico Massimo Betti Merlin, Francesco dell’Elba

luci Francesco dell’Elba

regia Massimo Betti Merlin

Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale

Teatro della Caduta

 

 

 

 

 

 

 

La signorina Felicita ovvero la Felicità

Nel cartellone del Teatro Stabile di Torino troviamo collocato dal 18 fino al 30 ottobre, sul palco del Teatro Gobetti, lo spettacolo La signorina Felicita ovvero la Felicità dedicato al centenario della morte di Guido Gozzano.

L’attrice dello spettacolo è Lorena Senestro, fondatrice assieme a Massimo Betti Merlin del Teatro della Caduta, che ha messo in scena un monologo in cui lei ci restituisce la propria lettura e interpretazione del personaggio di Felicita, accompagnata da Andrea Gattico al pianoforte.

Gozzano, come è noto, è un poeta italiano associato alla corrente del crepuscolarismo, caratterizzata da compianto e perenne insoddisfazione. In un primo momento egli si forma emulando D’Annunzio e studiando Carducci, in seguito con la scoperta di Pascoli si avvicina alla poetica delle “buone cose di pessimo gusto” che lo porteranno a uno stile personale malinconico e dedito alla ricerca di felicità nelle cose semplici e antiche. Gozzano era caratterizzato da una grande ironia e rappresenta una nuova sensibilità novecentesca.

Lorena Senestro ha condotto uno studio approfondito su Gozzano ed è giunta alla conclusione che la sintesi più completa del suo stile è contenuto nel poemetto La signorina Felicita ovvero la Felicità. La vicenda narra il ricordo di una giovane fanciulla di campagna di cui Gozzano rimase affascinato per la semplicità con cui conduceva la sua vita. Immersa in un arredo antico, lei che ha fatto la seconda classe e non medita di filosofia, ci viene presentata bruttina ma amabile. Con ironia Gozzano ce la presenta come una donna capace, forse, di fargli dimenticare la vita da intellettuale e finalmente avvicinarlo alla vita vera, alla moneta e al bisogno. Pare certo che lo farebbe più felice di qualsiasi donna da rivista. Però poi Guido parte per le Indie e non fa più ritorno dalla sua signorina. Il personaggio è realmente esistito e Gozzano l’ha romanzato.

“Sto meglio anche perché sono innamorato! Di una donna che non esiste, naturalmente! La signorina Domestica. Una deliziosa creatura provinciale, senza cipria e senza busto, con un volto quadro e le mandibole maschie, con un nasetto camuso sparso di efelidi leggere, due occhi chiari senza sopracciglia, come nei quadri fiamminghi; non ridete, amica! (…) È strano ch’io mi sia così cerebralmente invaghito di costei, mentre ho ancora nella retina la vostra moderna figura di raffinata. Forse è una reazione, una benefica reazione…”
(Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, Lettere d’amore)

07_foto-prove-la-signorina-felicita_ph-andrea-macchia_6972Partendo da questo spunto, Lorena Senestro ha raccontato durante un’intervista di essersi immedesimata nella signorina decidendo di infrangere il cliché di campagnola ingenua e rappresentando una donna affine al poeta, assai romantica, che vuole piacere ed è convinta dei sentimenti di Gozzano. Ha portato in scena una Felicita oramai anziana, in attesa perenne del ritorno dell’avvocato poeta, che ripercorre i ricordi come in una specie di sogno, ancora bloccata dalle promesse e alternando momenti di leggerezza ad una grande sofferenza. Distaccandosi dalla realtà riesce a rimanere sempre la signorina vivace che ci ha presentato Gozzano ma a questa vivacità si alternano momenti di lucidità in cui la protagonista realizza di essere sola e di aver perso il padre, Maddalena e il suo avvocato. Il monologo ripercorre tutto il poemetto, citando fedelmente le rime del poeta.

Il tutto si ambienta nel “salottino in disuso”, reso scenograficamente da cornici che rimandano alla rimembranza, “le piccole cose” come un tavolo ed una sedia di dimensioni gigantesche, una grande cornice che contiene il ritratto della Marchesa e il piano suonato costantemente da Andrea Gattico.
Lo spettacolo è contraddistinto da un connubio estetizzante di immagine e suono. L’andamento musicale è connesso al dialogo ed è stato composto durante le prove, inoltre l’uso delle luci è di fondamentale importanza e dà il senso di un tempo scandito. Le luci partecipano anche a proiettare ombre su tre teli posti sui lati e sul fondo della scena, rendendo il tutto più dinamico e facendoci intendere che retrostante allo spazio del salotto c’è anche la presenza del giardino di Villa Amarena. A ciò si unisce un arricchimento del testo con l’uso di espressioni dialettali piemontesi, lingua antica cara all’attrice e ricollegabile all’uso di costruzioni sintattiche piemontesi in Gozzano.

La compagnia del Teatro della Caduta è riuscita a consegnarci un adattamento che ci immerge in un’atmosfera onirica, facendo arrivare agli spettatori emozioni che hanno la capacità di commuovere.

Andreea Hutanu

La signorina Felicita ovvero la Felicità
Uno spettacolo di Lorena Senestro
Con Lorena Senestro e Andrea Gattico (pianoforte)
Progetto scenografico Massimo Betti Merlin, Francesco dell’Elba
Luci Francesco dell’Elba
Regia di Massimo Betti Merlin
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale Teatro della Caduta

UN FIORE PER OFELIA – MALDIPALCO

Per la rassegna teatrale MaldiPalco2016, venerdì 21 ottobre il Tangram Teatro Torino ha ospitato SILVIA BATTAGLIO con Ofelia, spettacolo che ritorna in scena dopo dieci anni dalla nascita.

L’attrice e autrice racconta infatti di come quasi per caso, conversando con Madga Siti una volta terminata la Scuola di Specializzazione Superiore del Teatro Fisico presso l’ERT di Modena, comincia a pensare e a ideare quello che diventerà poi uno spettacolo che debutterà nel 2006 al Teatro Gobetti.

Conclusa la stagione del Teatro Stabile di Torino, il lavoro rimane fermo per molti anni. Durante questo tempo Silvia Battaglio cresce come persona e come artista, dedicandosi a tanti altri progetti, ed è restia quando Tangram Teatro le propone di riprendere la sua Ofelia. Ma dopo aver rivisto e rielaborato lo spettacolo, si scopre invece contenta di ritrovare un personaggio che credeva non appartenerle più, e il risultato finale che ci è stato proposto venerdì sera lo dimostra.

In scena troviamo una sedia, un cavo che pende dal soffitto, una teca trasparente con dentro acqua e petali rossi, e sparsi per tutto il resto del palco altri petali bianchi. Pochi secondi dopo il buio iniziale si sente una voce: è Amleto, che dedica semplici parole d’amore alla sua amata Ofelia. Ed è Silvia che recita queste parole, ma fuori dal palco, a lato della sala, poche persone del pubblico presente girano la testa e la notano. Comincia così, in un modo discreto, quasi in punta di piedi, la storia di Ofelia, giovane donna innamorata che crede ciecamente alle parole del suo amato, senza mai dubitare della loro autenticità, e si abbandona a lui senza esitazioni come solo un cuore puro e ingenuo saprebbe fare.

Silvia è sola, ma fa vivere sul palco mille personaggi. Porta avanti il suo racconto danzando sempre, anche quando è seduta sulla sedia in fondo alla scena, mentre Ofelia e Polonio discutono sulla falsità delle parole d’amore del Principe di Danimarca. Anche quando è immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, il cappotto nero infilato solo per un braccio e un fiore nell’altra mano, mentre Amleto spezza il cuore alla sua amata. Danza appesa al gancio che pende dal soffitto, in quel cappotto nero che la protegge, forse dagli altri, forse da se stessa. Danza nella sua follia.

Ed è attraverso le parole dello stesso Amleto, e poi di suo padre Polonio, del fratello Laerte, della regina Gertrude, attraverso i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro azioni che Ofelia si racconta. Racconta di quando si ritrova faccia a faccia con la dura verità, e scopre che Amleto l’ha ingannata per poi andarsene e lasciarla sola. Racconta della perdita di un padre, di un fratello che torna per vendicarlo. Racconta del dolore immenso che nasce dall’abbandono dell’amore stesso, e di come questo porti alla follia. Follia, culmine di un percorso che non ha scelto di intraprendere, e che le offre forse una via di fuga, una scappatoia che diventa tragedia quando, nella scena finale, Ofelia si sfila la veste bianca e la lascia scivolare dolcemente, quasi come un rito, nelle acque dove troverà la pace.

Ofelia

liberamente ispirato a Amleto di William Shakespeare; frammenti letterari di Pier Paolo Pasolini, Mariangela Gualtieri, Albert Camus

di e con Silvia Battaglio

scene e disegno luci Lucio Diana

suggestioni musicali Quintirigo, Opus Avantra, Peter Gabriel

produzione Tangram Teatro Torino

 

Eleonora Monticone

Finta felicità, per la signorina Felicita

Ha debuttato martedì 18 ottobre, e sarà in scena fino al 30 ottobre,  il primo spettacolo della stagione del Teatro Gobetti: LA SIGNORINA FELICITA OVVERO LA FELICITA’ . Uno spettacolo di  e con Lorena Senestro, che vede la collaborazione tra il Teatro Stabile di Torino e il Teatro della Caduta.

A cent’anni dalla morte dell’autore, Guido Gozzano, Loredana senestro porta in scena una versione molto personale della breve e malinconica biografia dello scrittore piemontese. Tutto in una rappresentazione dall’ambienatazione onirica e che richiama il mondo delle meraviglie di Alice. Un tavolo sproporzionato sotto cui Felicita ci passa come fanno i bambini, un pianoforte, cornici sospese, un01_foto-prove-la-signorina-felicita_ph-andrea-macchiaa sedia alta giusta per arrivare al tavolo, tazzine e tazze in frammenti. Tutto sinonimo di un’esistenza passata nell’illusione di una promessa di vita, al fianco di un Guido malato, che non potrà mantenere le sue promesse. Una signorina che invecchia, pur mantenendo l’innocenza e la felicità di una bambina. Vediamo i problemi, gli intrighi amorosi, il rapporto col padre di Felicita che crescono ma rimangono sempre con un qualcosa di infantile, sottolineato dalla scenografia.

Ad accompaganre tutto lo spettacolo sono le musiche suonate in scena al pianoforte da Andrea Gattico,pianista da tabarin torinese, che incarna il Padre di Felicita, ma più con la voce che con il corpo.
I tre lunghi teli riescono a trasportarci in quel mondo “…un po’ ammuffito di una vecchia casa di 100 anni…”.
La Senestro è molto convincente nella sua interpretazione, più nei momenti di sconforto e di semi-pazzia che nei momenti di pura realtà. Appare molto felice nei momenti di discussione tra Felicita e il Padre. Unica pecca, che fa calare a tratti l’attenzione di chi assiste, sono le poche variazioni di voce che a tratti caratterizzano i monologhi per la monotonalità.
Molto intenso è il finale, che crea una sorta di girotondo mai destinato a finire, e piuttosto a ripetere il continuo scorrere del tempo bloccato nei ricordi. Un’attesa della stessa Felicita che non si rassegna al passare del tempo e alla sua solitudine.

Massimo Betti Merlin e Lorena Senestro sono gli animatori di una delle più interessanti esperienze off nazionali, il Caffè della Caduta, un piccolo spazio teatrale dove pubblico e artisti si incontrano prima e dopo gli spettacoli, condividendo informalmente lo spirito del teatro.

Elisa Mina

LA SIGNORINA FELICTA OVVERO LA FELICITA’
regia
Massimo Betti Merlin
spettacolo di Lorena Senestro
con Lorena Senestro e Andrea Gattico(Pianoforte)
scenografia Massimo Betti Merlin, Francesco dell’Elba
luci Francesco dell’Elba

Un walkman come diario – MaldiPalco

Siamo ancora all’interno della rassegna teatrale MaldiPalco se parliamo dello spettacolo di Ksnenija Martìnovic : DIARIO DI UNA CASALINGA SERBA , andata in scena domenica 16 ottobre presso il Tangram Teatro La Martinovic è la seconda artista selezionata all’interno delle giovani proposte del panorama italiano.

Una ragazza,

Udine, 15/11/2015 - Teatro San Giorgio - Diario di una casalinga serba - Progetto StartART - testo liberamente tratto dal romanzo Diario di una casalinga serba di Mirjana Bobic Mojsilovic - regia Fiona Sansone - interpreti Ksenija Martinovic - musiche Idoli - produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG per startART - si ringrazia Centrale Preneste Teatro/Ruotalibera Teatro - Foto Luca A. d'Agostino/Phocus Agency © 2015

Andjelka, ripercorre la sua breve vita vissuta fino a quel giorno, breve ma estremamente piena. Da bambina vissuta nella  Yugoslavia di Tito, una bambina felice del suo paese col fazzoletto rosso legato al collo come una scout, che ripete al suo walkman chi ama: prima di tutti Tito, poi la sua famiglia.
Gli anni passano e lei è una ragazzina ormai nella bellezza del benessere economico: Trieste, la pizza, i vestiti belli, il primo amore. Non c’è piu Tito e nemmeno la Yugoslavia. Ora al suo walkman dice che c’è un altro amore, un altro ideale da seguire. Andjelka ha voglia di scoprire,  si chiede il perchè di tante cose, ma sia la sua famiglia che l’uomo che ama hanno osato picchiarla. Lei cambia, si chiude in se stessa e nelle scatole che dominano il palco, non indossa più le scarpe col tacco. Non si fa più domande, ora è lei a dover rispondere, ma la sua voce trema e non sa bene che cosa sccadrà a lei e alla sua amata terra.
La bambina inizialmente felice, che si presenta e che usa la scatola per nascondersi e giocare con la propria voce, ora è diventata una donna che non sa cosa aspettarsi dal paese che tanto ama. Lei è ancora serba, lo ripete chiaro al suo walkman, scatola di tutti i segreti, delle gioie e delle tristezze e dei punti focali della sua vita, una scatola di cui ha bisogno e che vuole riscoltare.

Un vero viaggio nel tempo grazie ad Andjelka, che ci parla nella sua lingua e nella nostra, che ci racconta con parole semplici e in poco più di mezz’ora la sua storia, la storia di molte ragazze vissute nella Serbia degli anni Sessanta-Novanta.
Uno spettacolo brillante, coinvolgente, emozionante.

Nata a Belgrado nel 1989 ma italiana per formazione teatrale,  diplomata presso la Civica Accademia D’arte Drammatica Nico Pepe, Ksenija Martinovic ha chiuso, domenica 16 ottobre alle 18.15, il primo fine settimana di Maldipalco: bilingue dalla nascita, la Martinovic ha presentato sul palco di 644_8593_iconavia don Orione Diario di una casalinga serba, lo spettacolo prodotto dal CSS Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con cui nel 2014 ha vinto la sezione monologhi del Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro. Ha partecipato a In scena! Italian Theatre Festival a New York.

Elisa Mina

Diario di una casalinga serba
Liberamente tratto dal romanzo di Mirjana Bobic Mojsilovic
regia Fiorana Sansone
Musiche Idoli
con Ksenija Martìnovic

Vie di vita – MaldiPalco

Il Tangram Teatro Torino sta ospitando dal 14 al 23 ottobre una rassegna teatrale dal titolo MaldiPalco2016 che coinvolge attori di fama nazionale, riconosciuti e premiati dalla critica, e giovanissimi professionisti al fine di creare un confronto stimolante e proficuo fra generazioni diverse. Quest’anno il Tangram Teatro ha deciso di  dedicare ampio spazio a una selezione di giovani attori da tutta italia under32 , con quattro appuntamenti

Siciliano di Messina, classe 1983, diplomato alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Angelo Campolo è il primo dei selezionati per l’edizione 2016 di Maldipalco: a lui, domenica 16 ottobre alle 17 il angelo-campolocompito di inaugurare con 
I bambini della notte
il ciclo di performance riservate ai quattro giovani interpreti. Non di rado impegnato nella tripla veste di autore, regista ed attore dei suoi testi, Angelo Campolo vanta già un ricco curriculum di interpretazioni teatrali, cinematografiche e televisive, costante impegno cui, da tredici anni, affianca quello di direttore artistico della compagnia Daf per la quale ha realizzato numerosi allestimenti.

Il suo spettacolo si apre con una scenografia minimale ma molto incisiva che ci fa già intuire che si parlerà di cose lontane ma che in realtà sono molto più vicine di quanto ci sembri.
L’unico oggetto di scena è un cartello direzionale che indica le VITE. Esatto, non le “vie” di una città ma la strada di quelle vite che “Francesco” ci racconta.
Partendo da un colloquio a cui nemmeno lui sa ben rispondere con certezza,  capisce che deve andare a lavorare in quell’ospedale di cui gli hanno tanto parlato : Sant Mary Hospital, in Uganda. Li capisce veramente che significato ha la vita anche per i bambini, quella distesa di bambini che vogliono fuggire dalla guerra e si riparano nel cortile di un ospedale. E’ un luogo tanto speciale, dove anche quei bambini possono sognare.  Successivamnte, ci racconta la storia di come quell’ospedale sia stata la vita della coppia che lo ha costruito: lei canadese, lui italiano. Hanno due bambine, la seconda soffre la mancanza dei genitori che dedicano tutta la loro vita a quel’ospedale e a curare i bambini di altri. Attraverso la voce della figlia capiamo che avrebbe voluto una dimostrazione d’affetto diversa e più vera, ma sua madre e suo padre sapevano occuparsi solo di salvare vite di bambini scampati dalla guerra.

Francesco ci racconta di problemi che ci sembrano così lontani. Lui stesso alla fine ci chiede perchè e dice che ci sono anche i problemi qui e bisognerebbe parare di quelli e che ci sembrano molto più importanti. Ma la verità è che in questo mondo globalizzato dove tutti sano tutto di tutti, dove nessuno si conosce davvero: i problemi sono di tutti e ci dobbiamo preoccupare veramente delle cose che ci sembrano lontane perchè potresti ritrovarti a parlare dei tuoi stupidi problemi con un “bambino della notte”. I problemi non sono lontani, sono qui, quelli veri, vivi sul palco e ci stanno chiedendo perchè non ci muoviamo

Tutte queste immagini, queste vite di vie, sono costruite e ben chiare grazie a un magistrale utilizzo del corpo e della costruangelo-campolo-in-i-bambini-della-nottezione di immagini belle e vive. Immagini che ci trasportano su una gip che sussulta e scansa i colpi del fucile, immagini come quella di un pavimento costellato da piccole stelle che chiedono solo di sognare, facendo attenzione a non calpestare i loro magri corpicini.

I BAMBINI DELLA NOTTE
di e con Angelo Campolo
dal’omonimo libro di Mariapia Bonata e Francesco Bevilacqua
scene e costumi Giulia Drogo

 

Rita Maria Fabris racconta Altissima povertà

Venerdì 14 ottobre è la giornata che conclude l’intensa settimana di incontri, conferenze, workshop e laboratori di In Atelier. Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”. Rita Maria Fabris testimonia il ritorno al corpo nell’esperienza di Virgilio Sieni e della sua creazione Altissima Povertà per la città di Torino, in un racconto mitologico di nascita, passione e resurrezione attraverso cui una dimensione macrostorica si incarna nel tempo. Continua la lettura di Rita Maria Fabris racconta Altissima povertà

Chiara Guidi, LA-VOCE-CHE-NON-C’E’. Performance conferenza nello spazio del”tra”

Per il seminario In Atelier, Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”, la sala piccola della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino ospita la performance che corona la lectio mattutina Tra voce e infanzia tenuta da Chiara Guidi presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale. Il contesto raccolto e intimo Continua la lettura di Chiara Guidi, LA-VOCE-CHE-NON-C’E’. Performance conferenza nello spazio del”tra”

Gli Omini

E’ martedì 10 ottobre, sono le 9.50 del mattino e in aula 7 a Palazzo Nuovo siamo in tanti.  Aspettiamo gli Omini: questo il nome della compagnia teatrale, nata in Toscana nel 2006.
Francesco, Luca, Francesca e Giulia sono invece i nomi dei suoi componenti, di cui oggi qui a Torino sono presenti in tre. Sono giovani, persone intelligenti e di una straordinaria sensibilità, capaci di catturare, fin da subito, tutta la nostra attenzione, raccontandoci con sincerità e simpatia -durante il corso della mattinata- la loro storia, i loro progetti, il loro lavoro.

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Raccolgono “materiale umano”-ci dicono-, poi, lo rielaborano e lo portano in scena: questo è, in estrema sintesi, quello che fanno.  L’umanità, nella sua forma più diretta e travolgente è ciò che costituisce la linfa vitale dei loro spettacoli, l’elemento verso cui indirizzano tutte le loro energie. Un’umanità che riconoscono nella gente trovata per strada, nei bar, nei piccoli paesi, nelle bocciofile, in stazione, etc.
Il nome della compagnia non è quindi casuale. L’omino è, in dialetto toscano, un uomo qualsiasi, l’altra persona, noi stessi. Gli omini sono loro, ma siamo anche noi e gli altri. Quello che realizzano è, lo ricordiamo ancora una volta, un lavoro di indagine e di ricerca dell’umano, che si trova ovunque, anche laddove mai avremmo pensato ad un primo sguardo.

Ma come si svolge effettivamente il loro lavoro? Qual è il percorso che si nasconde dietro agli spettacoli che portano in scena?
A volte si parte da un canovaccio, da uno scheletro-guida -racconta Francesca-. Altre, lo si elabora strada facendo. Tre di loro si recano in un paese, o in un luogo specifico. Qui iniziano a guardarsi attorno, ad osservare. A questo punto si avvicinano, per una chiacchierata informale, agli individui che -ai loro occhi- sembra abbiano qualcosa di interessante, non tanto da raccontare, quanto piuttosto da comunicare. Poi li ascoltano, con semplicità. Muniti di telecamere, registratori, carta e penna, ne raccolgono i gesti e le parole.
“C’è un sacco di gente in giro che ha tantissima voglia di parlare, e che ha bisogno di essere ascoltata. Così, quando arriviamo noi, badabam, c’è chi ci vomita addosso una vita intera”-dice Francesco-.
Tutto questo si ripete per giorni, a volte addirittura settimane o mesi, alla fine dei quali si torna “a casa”. La prima fase, che viene definita “di indagine”, è conclusa. Il materiale raccolto viene consegnato a Giulia, la quale, all’interno della compagnia, ha il ruolo di dramaturg: scrive per la scena, pensando alla scena.
Tutti insieme s’impegnano infine in un difficile lavoro di interpretazione ed elevazione del materiale raccolto, sbobinato e riorganizzato. Così la realtà delle conversazioni e dei momenti vissuti viene trasformata in arte, in teatro. Passaggio necessario. Perché non sempre una conversazione è buona di per sé. Sta a loro, attraverso il teatro, cercare di trasmettere la spinta che hanno presentito dietro a quelle parole, il “non-detto”. La vivezza, per loro, qui è fondamentale. Il teatro dev’essere vivo e riuscire a toccare fin nella pancia lo spettatore seduto in poltrona, esattamente come hanno fatto con loro le persone incontrate per strada.
Per cui, nonostante questa apparente distinzione di ruoli, è facile capire come si tratti in realtà di un collettivo. Tra di loro c’è uno scambio e un confronto continuo di idee, di pensieri, di osservazioni: una fortissima passione per l’essere umano li lega in maniera profonda, portandoli a condividere quasi la totalità del loro tempo.

Quindi sul palcoscenico che cosa succede?
Gli Omini non lavorano per farci la morale, il loro teatro non vuole insegnare niente a nessuno. Loro, in maniera molto umile, cercano di rappresentare quello che hanno sentito, visto, vissuto. In realtà, il loro principale obiettivo- ci rivela Francesco- è quello di far scaturire la risata. “Perché la risata è vita ed è subito una risposta a quello che facciamo; al nostro lavoro.” -dice-. Una risata, tuttavia, insolita: sincera, ma allo stesso tempo mescolata ad una tristezza e ad un mal di stomaco infinito, con il quale lo spettatore si alza alla fine dei loro spettacoli.  Che forse non sono altro che la rappresentazione del dualismo  intrinseco all’esistenza: da un lato dolorosa ,contraddittoria, dall’altro meravigliosa. Così maledettamente e straordinariamente tragicomica.
Si potrebbe quindi parlare di una sorta di teatro terapeutico dalla direzione biunivoca. Se da un lato si ha, sul fronte degli attori, una sensibilizzazione all’ascolto in continua crescita, che diventa vero e proprio atteggiamento di vita; dall’altro abbiamo la “redenzione” di tutti quegli omini incontrati, il cui spirito viaggia ora più
leggero e meno appesantito, grazie ad una semplice chiacchierata.

Abbiamo passato insieme a loro due giorni intensi, durante i quali abbiamo avuto la possibilità di toccare con mano tutto ciò. Siamo stati mandati in strada -a gruppi di 5 persone- ad osservare, ascoltare, assorbire, lasciarci stupire, interpretare.
Abbiamo raccolto “materiale umano”; poi lo abbiamo messi in scena.  Ne siamo usciti un pochino più ricchi, un pochino più umili e un pochino più umani.
Sono stati soltanto due giorni, è vero, ma sono bastati a farci crescere.
E per questo li ringraziamo di cuore.

Loro sono gli Omini.
Vengono dalla Toscana.
E sono delle belle persone.
Verranno a trovarci il 10 Novembre al Cubo Teatro, con “Ci scusiamo per il disagio”(h21, via Pallavicino 35).
E in questa occasione non possono che farci del bene, altro bene. Perché in fondo, come dicono loro: “Siamo tutti soli, siamo tutti diversi, siamo tutti Omini”.
Siateci.

Beatrice Decaroli