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Orlando, quelle primavere che cambiano la vita

Ancora una volta Silvia Battaglio ricopre un ruolo importante all’interno del panorama teatrale torinese: dopo lo spettacolo Ofelia andato in scena al Tangram Teatro, la ritroviamo al Teatro Gobetti all’interno della rassegna “Il Cielo su Torino” il 3 e 4 gennaio con Orlando. Le primavere. Di questo spettacolo cura la regia, le coreografie e la drammaturgia, oltre ovviamente a recitare insieme a Lorenzo Paladini. L’attore interpreta Orlando durante i suoi primi trent’anni, quando è un uomo e deve vivere come un uomo, anche se per sua stessa ammissione non sa bene come fare. Questo Orlando, il primo Orlando, non riesce infatti a trovare una sintesi tra quello che sente di essere veramente e quello che il mondo si aspetta che lui sia, in quanto uomo. Il primo Orlando è confuso, impulsivo, appassionato, si i01_orlando_ph-roberta-saviannnamora a prima vista della bella Sasha, quasi come un bambino viene attratto da un giocattolo nuovo. Gli si spezza il cuore quando lei non si presenterà al loro primo e unico appuntamento, così come quando la poesia che tenta di scrivere non verrà apprezzata, e deciderà allora di andare in guerra. Orlando innamorato, Orlando poeta, Orlando soldato: nessuno stato d’animo e nessun luogo riesce a fargli capire chi è sul serio, nessun vestito gli calza veramente bene. Fino a quando un giorno, improvvisamente, dopo i suoi primi trent’anni di vita, Orlando si risveglia donna. E il vestito che questa volta indossa le piace, la fa sentire finalmente a suo agio, le fa venire voglia di danzare. Come se questo cambiamento ancora non bastasse, Orlando non solo veste meravigliosamente i panni di una donna ma decide di unirsi a un gruppo di zingari, di imparare da loro quello che la vita fino a quel momento vissuta non ha saputo insegnarle. Libera da tutto ciò che l’aveva costretta prima a un’esistenza che non era realmente la sua, questo straordinario personaggio attraverserà, in un arco temporale di ben tre secoli, tutte le sue primavere, fino a quando ritornerà a casa sua consapevole della propria vera natura.

La parola che si potrebbe utilizzare per descrivere questo spettacolo è suggestione. Tutto sembra sospeso, tutto rimane in attesa che qualcosa di nuovo accada. Il pubblico resta immobile e trattiene il respiro mentre cerca di capire cosa si nasconde dietro a un buio debolmente illuminato da una luce soffusa o dietro a un silenzio improvviso, dietro a una danza che comincia e chissà dove porterà. Le luci appese a questi cavi che pendono dal soffitto sono meravigliose: conferiscono a tutto il palco un atmosfera quasi magica e rituale. Illuminano le figure in modo singolare e poetico, e dalla sala si ha la sensazione di guardare verso un cielo stellato. È quasi come se ci fosse un terzo personaggio in scena, e i due protagonisti interagiscono continuamente con lui rendendolo protagonista a sua volta.

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Quello che colpisce sempre degli spettacoli di Silvia Battaglio è la magia che quest’artista fa nascere sul palco giocando con la potenza espressiva che il corpo emana quando assume forme e sfumature diverse da ciò che siamo abituati a vedere. Nulla è quotidiano o didascalico. La sua figura slanciata, modellata da anni di danza, si impone sulla scena fin dal primo istante di apparizione, quando tutto il pubblico allunga il collo per riuscire a vederla: lei si trova al lato della scena rannicchiata per terra, immersa nel buio che ancora avvolge palco e sala, il profilo del corpo debolmente illuminato da una lampada appesa a un filo sopra di lei. L’aria intorno è immobile mentre comincia a respirare. Un respiro soltanto, un microscopico movimento, e tutti gli occhi sono incollati su di lei. Comincia la sua danza leggera che assomiglia a una specie di risveglio, lento rituale, fino a quando non si anima del tutto e comincia a giocare con la sua lampada, a danzare insieme a lei. E in quello spazio piccolo e marginale si focalizza tutta l’attenzione e si concentra tutta l’energia dell’artista. Con il suo corpo quasi spoglio, neutro, con la sola forza dei muscoli e la fluidità di morbidi movimenti, Silvia crea un mondo intorno a sé, mentre le immagini cominciano a venire fuori da questa sua danza che la accompagna sempre, in ogni momento dello spettacolo. Questa potenza, questa energia che caratterizza il suo lavoro le rende possibile servirsi di pochissimi elementi a loro volta molto potenti, sistemati all’interno di una scenografia assolutamente minimale. Stupisce quasi come non abbia bisogno praticamente di nulla per creare un intero spettacolo, per raccontare la sua storia. E la bravura dell’artista non sta solo nel non aver bisogno di molto per fare arte, ma anche nell’astuzia e nella fantasia che impiega per utilizzare questi pochi elementi presenti in scena. Così oggetti semplici e di uso comune vengono caricati di significati e prendono vita, diventano qualsiasi cosa possa essere utile alla narrazione. Delle lampadine diventano specchi, e poi ancora stelle del cielo, o compagni con cui parlare; un fazzoletto profumato diventa un dono per omaggiare la propria amata e poi una poesia; una collana di perle diventa il simbolo di un legame che rimane dentro a un mutamento.

Orlando. Le primavere

liberamente ispirato a Orlando di Virginia Woolf

regia, coreografie e drammaturgia Silvia Battaglio

con Silvia Battaglio e Lorenzo Paladini

suggestioni musicali Luc Ferrari, Paolo Angeli, Officine Schwartz

disegno luci Massimiliano Bressan

Eleonora Monticone

S.O.S. STORIA DI UN’ ODISSEA PSICOSOMATICA: raffigurazione di sette “Chakra”

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Lo scorso 6 gennaio la compagnia Makiro ha presentato in prima nazionale lo spettacolo S.O.S.  Storia di un’Odissea Psicosomatica, all’interno della terza edizione della rassegna “Il Cielo su Torino”. Lo spettacolo è interpretato dalla giovane artista francese Aurélia Dedieu, con la regia di Giuseppe Vetti. Il debutto del lavoro al Teatro Gobetti non poteva avvenire in un giorno migliore di quello dell’Epifania. S.O.S. Storia di un’Odissea Psicosomatica è un viaggio “allucinante” all’interno del corpo umano; viaggio che  viene compiuto dall’attrice con ironia, alla ricerca dei legami tra biologia ed emozioni,  del collegamento tra fisico e psiche.  Dopo aver accusato un forte mal di pancia, la protagonista si rivolge a un originale medico per una visita: la diagnosi è DISINTERESSE. Si tratterà per lei quindi di decidere se prendere la via della conoscenza o continuare a farsi “spacciare” medicine. Scelta la terapia del dottore e intrapreso il viaggio, tra gag, canzoni e pantomima, conosciamo  sette tra i suoi organi, sette piani di un ascensore che come dice  il medico una volta azionato non si può arrestare,  e che ricordano i sette Chakra principali nell’ induismo grazie anche alla scenografia: una grossa piramide in legno con un occhio in alto e una mezza luna in cima.

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 La prima tappa è l’ intestino, rosso e in fiamme, poi l’ utero, campo dove la vita si riproduce se le “condizioni atmosferiche” lo permettono, lo  stomaco, rilettura dei rapporti di forza nel mondo del lavoroil sistema ormonale, ghiandole che condizionano il funzionamento dell’ organismo, il fegato, simbolo del coraggio, della rabbia  incondizionata e della necessità di “distrarsi” in un contesto bellico continuo, rappresentato  con un  crescendo sorprendente di gag e canzoni anni Sessanta che fanno  riferimento al movimento hippy. Il “piano” più “emotional” è il sesto: Il cuore. Deve fare tutto lui, e la protagonista ce lo dice sulle note della famosa e triste Ne me quitte pas. L’ultimo organo è il cervello: in stile mission impossible  bisogna prepararsi ad affrontarlo per raggiungere finalmente la torre di controllo, l’ “illuminazione”.

Alessandra Pisconti

 

scritto da Aurelia Dedieu e Giuseppe Vetti

Con Aurélia Dedieu Regia di Giuseppe Vetti

Musiche: Elia Pellegrino – Giuseppe Vetti

Grafiche: Housedada

Scenografia: Jacopo Valsania

Tecnica: Luca Carbone

Costumi: Federica Chiappero

Foto-video: Davide Carrari

Produzione Compagnia Makiro in collaborazione con Teatro B. Brecht di Formia, Sala Fenix di Barcellona, Teatro C’Art di Castelfiorentino, CuboTeatro di Torino e Teatro della Caduta di Torino

L’incomunicabilità in scena – Santa Cultura in Vincoli

Piccole cose è uno spettacolo realizzato dalla compagnia Viartisti e messo in scena il 15 dicembre 2016  nella stagione teatrale  Santa Cultura in Vincoli 2016/2017.

img_1248-fAll’interno di una scena quasi spoglia, viene raccontata la storia di una coppia infelice e in procinto di divorziare, usando frammenti dei racconti Gazebo e Piccole cose dello scrittore Raymond Carver. In uno spazio astratto in cui sono collocati pochi oggetti capaci di rimandare all’America descritta da Carver – una bottiglia di whisky, un aeroplano giocattolo, delle giacche di pelle, occhiali da sole e dei fogli sparsi – viene messa in scena la relazione logora di Holly e Duane, una moglie sofferente e un marito che cerca di affrontare le conseguenze del suo tradimento con la cameriera Juanita.

Renato Cravero e Raffaella Tomellini raccontano questa crisi coniugale quasi come se ce la leggessero e al contempo interpretano i due personaggi. Sul palco i due attori si muovono, dialogano e stanno fisicamente uno accanto all’altro riuscendo perfettamente a trasmettere l’incomunicabilità della coppia, la mancanza di contatto e di calore tra i due.  Holly e Duane vivono sulla scena e si mostrano per come sono fatti realmente, scoprono al pubblico i loro pensieri e le loro contraddizioni.

img_1263bDuane incassa i pugni della moglie, accetta ogni colpo perché sa di meritarselo. Se ne meriterebbe altri mille ancora. Averla tradita è stato un errore, ma un errore che probabilmente rifarebbe ancora se ne avesse l’opportunità.
Lui si scatena al ritmo di una musica tecno, ricorrente in alcuni passaggi dello spettacolo, e poco dopo deve tenere testa alle minacce di suicidio della moglie.
La moglie è una donna disillusa, ha solo trent’anni e sognava di invecchiare accanto al marito come quelle coppie anziane
che sembrano ancora innamorate. Lei ha ricevuto una grande delusione e non riesce a superarla, preferisce il divorzio e va incontro anche alla separazione dal figlio che le viene strappato letteralmente dalle mani.

Piccole cose è uno spettacolo che mette in scena la complessità delle relazioni, sempre in equilibrio precario e che possono sfaldarsi al minimo errore. Ci viene raccontata la difficoltà che c’è nella comunicazione tra due persone che passano la vita assieme ma non si conoscono realmente e non vogliono accettare le parti peggiori l’uno dell’altro.

Le parole si mescolano con musiche suggestive, come Fjögur píanó dei Sigur Rós o tracce tecno, offrendo uno spettacolo emotivo e specchio della società e dei rapporti moderni in un luogo particolare come l’ex cimitero di San Pietro in Vincoli.

Andreea Hutanu
Foto realizzate da Martino

PICCOLE COSE
Frammenti dall’opera di Raymond Carver
A cura di Raffaella Tomellini, Renato Cravero, Eleonora Diana
Con Raffaella Tomellini, Renato Cravero
Ispirati dalle fotografie di Diane Arbus
Con la musica di Blur, Christian Fennesz, FKA Twigs, Jon Hassel, Nine Inch Nails, Alva Noto, Radiohead, Sigur Ros, Ruiki Sakamoto
Scene e luci di Eleonora Diana
COMPAGNIA VIARTISTI / TECNOLOGIA FILOSOFICA_MORENICA CANTIERE CANAVESANO

 

 

I ragazzi della Commedia

I RAGAZZI DELLA COMMEDIA

 

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Buio, silenzio, un sipario che si apre, un personaggio che fa il suo ingresso da una quinta e si sistema al centro della scena: un inizio classico, che il pubblico si aspetta di vedere. Quello che non ci si aspetta è l’incredibile naturalezza con cui si verrà letteralmente catapultati all’interno di uno spettacolo scatenato, incalzante, che fin dalle primissime battute ci trascina dentro a una storia fatta di intrecci e lazzi esilaranti che non lasciano un momento di respiro. Si ride cosi tanto da non riuscire a prendere fiato, e ci si lascia andare non a uno, ma ben a due applausi a scena aperta. E’ un sabato sera da ridere a crepapelle quello che ci hanno regalato i giovani attori diplomati del corso accademico 2013-15 della scuola di teatro Sergio Tofano, che sotto la guida esperta del maestro Mauro Piombo mettono in scena La Figlia Contesa: un’ora e dieci di spettacolo ricco di trovate originali ma che mantengono tutti i canoni tipici di questo genere così unico e inconfondibile che è la Commedia dell’Arte.

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I personaggi che prendono vita nel canovaccio sono sei: le due giovani sorelle Euforbia e Consolida, figlie del dottore Graziano Catapunzia, il giovane innamorato Lelio, figlio del commerciante Pantalone, e la Tessitrice, figura originale e duttile. Spetterà a lei il compito di aprire lo spettacolo, e lo farà presentando se stessa come colei che tesse le trame e le storie, che tira le fila del racconto intervenendo nelle vicende dei personaggi, ingarbugliando e intrecciando le loro vite a suo gusto e piacimento per far sì che gli avvenimenti accadano. Fa poi la sua comparsa in scena l’eccentrica famiglia Catapunzia, composta da tre elementi in conflitto tra di loro. Euforbia è una giovane vivace che vuole conoscere il mondo, ma non può perché suo padre il dottor Graziano Catapunzia costringe lei e sua sorella a una vita di prigionia nella casa paterna. Consolida, molto diversa dall’inquieta e disobbediente sorella, è una ragazza tutta casa e chiesa, devota e sottomessa alla volontà del padre che la adora, ma intraprende in segreto una corrispondenza con il bel Lelio, di cui è perdutamente innamorata. Anche Lelio ricambia la bella Consolida, ma è tenuto sotto controllo dal padre Pantalone che sta a capo dell’azienda di famiglia, la “Navigation Corporation and Co.” (“coglion!”, come verrà chiamato il povero Lelio per tutta la commedia), preoccupato di insegnare il mestiere al figlio per poi lasciargli il comando dell’attività. Quando a casa Catapunzia arriva la notizia che Euforbia sarà mandata in convento e Consolida sarà data in sposa al principe della Kamchatka, per soddisfare gli interessi economici dell’avido dottore, si scatena un putiferio: le due sorelle escogitano un piano per sfuggire al loro destino, mentre Lelio viene a conoscenza della sorte di Consolida, poiché il dottor Catapunzia commissiona alla Navigation Corporation and Co. la costruzione della nave che porterà la giovane sposa e il suo principe nella Kamchatka, e anche lui decide di fare qualcosa. È qui che la Tessitrice suggerisce ai giovani che nessuno ha mai visto in faccia questo fantomatico principe, e così Euforbia da una parte (con un marcato accento francese) e Lelio dall’altra (con un altrettanto marcato accento spagnolo) decidono di vestire i panni del nobile e di chiedere la mano di Consolida, e ingannare in questo modo i loro padri. In casa Catapunzia fanno così il loro ingresso ben due principi. Chi di loro sarà quello vero? Tra combattimenti, scontri e pianti, la Tessitrice deciderà di intervenire ancora ma per risolvere la situazione, e a questo punto entra in scena il vero principe della Kamchatka (questa volta sfoggiando un’elegantissima parlata russa). Un lieto fine farà poi calare il sipario sulla scena.

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Tante sono le situazioni tipiche della Commedia, come l’impedimento dei due giovani innamorati che non possono stare insieme, o l’esilarante scena dell’incontro-scontro tra i due vecchi, quante le innovazioni e le trovate originali degli attori, come il padre che dà della vegana alla figlia ribelle mentre lei grida il suo motto “sex, drugs and rock and roll!”.  

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Le meravigliose maschere prendono vita quasi per magia sotto i volti e i corpi degli attori che le portano con sorprendente bravura e destrezza, se si pensa alla loro giovane età. Tutto lo spettacolo è un vortice di battute, lazzi e scontri che non si ferma mai, girando a un ritmo sorprendente che tiene gli occhi e le orecchie del pubblico incollate sul palco dalla prima all’ultima scena. Non manca poi un omaggio al maestro, che siede in sala, da parte degli allievi, così come vuole la tradizione: quando il dottor Catapunzia, per far rinvenire il povero Pantalone svenuto tra le braccia di Lelio, tira fuori una fiaschetta che contiene un grappino proveniente dalla riserva speciale di Mauro Piombo, il teatro viene giù dalle risate.

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La Figlia Contesa

spettacolo maturato nel corso di un seminario intensivo sulla Commedia dell’Arte tenuto dal maestro Mauro Piombo

interpreti:

Matteo Astengo – Lelio

Gaia Baudino Bessone – Consolida

Lucia Ferrero – Euforbia

Matteo Macchia – Pantalone

Riccardo Nazzaroli – dottor Graziano Catapunzia

Marta Ziolla – Tessitrice

direzione artistica Mauro Piombo

lo spettacolo si è svolto sabato 18 dicembre 2016 all’associazione culturale Circolo Bloom, Torino

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Conversando con i sei attori de La Figlia Contesa

Qual è il punto di partenza per costruire uno spettacolo di Commedia dell’Arte; come si inizia a lavorare a un progetto di questo tipo?

LUCIA: avere fantasia!

RICCARDO: si parte da un lavoro puramente didattico. Bisogna prima apprendere la tecnica che sta alla base delle varie maschere, mettersi in gioco con tanta improvvisazione per poi fare un lavoro di limatura.

LUCIA: ogni maschera ha le proprie caratteristiche, e seguendo quelle caratteristiche si crea una storia in cui le varie maschere si incontrano.

GAIA: abbiamo pensato a grandi linee a una storia, a un contenuto, e da lì ci siamo mossi con improvvisazioni che mano a mano sono andate a formare le singole scene.

RICCARDO: o anche da cose che non c’entravano niente, fatte prima di avere questo piccolo canovaccio, che però funzionavano, erano divertenti, e quindi abbiamo cercato di inserirle.

MATTEO M: per prima cosa abbiamo scritto un canovaccio a tavolino e ci siamo accorti che era un errore. Scrivendo prima, le cose non funzionavano, invece la scena ti dava quei giochi che a tavolino non riuscivi a trovare. Non si può partire da un testo, è limitante.

MATTEO A: i canovacci classici infatti consistevano in una storia a grandi linee.

LUCIA: il canovaccio originale dà delle dritte, delle indicazioni di cose che devono succedere, però quelle cose bisogna lavorarle sulle scena.

RICCARDO: è l’azione che muove, non il testo.

MATTEO A: anche perché la linea del canovaccio è molto semplice, quindi se ci si dovesse basare solo su quella che è la trama classica ci sarebbe ben poco da rappresentare.

Quanta libertà si può prendere l’attore quando lavora sulla maschera prima e quando lavora sulle varie scene di interazione dei personaggi dopo? Quanto un attore puo intervenire con la propria personalità sulla maschera e sulle scene e quanto invece deve attenersi a quelli che sono i canoni e le regole che rendono la Commedia dell’Arte quel modo caratteristico e inconfondibile di fare teatro.

GAIA: la personalità dell’attore fa tanto. E’ vero che bisogna stare dentro certi schemi precisi, però poi il gioco viene fuori anche dalle caratteristiche dell’attore stesso. 

LUCIA: già l’abbinamento maschera-attore corrisponde alle caratteristiche che quella maschera avrà.

RICCARDO: inizialmente durante il lavoro didattico c’è meno libertà, perché bisogna lavorare attenendosi a determinati movimenti e linguaggi. Ma una volta che questi movimenti vengono metabolizzati, si apre un’infinita di lazzi! Puoi farci quello che vuoi, aggiungendoci poi anche dei modernismi, che non fanno parte della Commedia dell’Arte classica. Per esempio nel nostro spettacolo ce ne sono alcuni.

MATTEO A: la maschera nel complesso dei movimento, della postura, dell’atteggiamento nei confronti degli altri personaggi e dei contrasti, è sempre quella. I due vecchi andranno sempre in contrasto, i due giovani avranno sempre degli impedimenti, il giovane sarà in conflitto col vecchio e così via. All’interno di questi canoni ben precisi l’attore si può esprimere con un lazzo particolare, con una battuta detta in un modo particolare, con un modernismo particolare. La maschera è l’elemento che modifichi di meno, perché dando a una maschera una connotazione moderna è molto più facile uscire dal canone della maschera vera e propria. C’è libertà, ma deve viaggiare su binari ben precisi.

Quindi siete riusciti a inserire lazzi con riferimenti moderni?

RICCARDO: certo, in questo spettacolo Pantalone è a capo di un’azienda di navi, per esempio, e il suo nome è ditta Navigation Corporation and Co. Rimane quindi il Pantalone mercante, il Pantalone che ha le mani nei soldi, però con una connotazione che nel Cinquecento ovviamente non esisteva.

MATTEO A: o ci sono citazioni, per esempio quando la figlia e il dottore si insultano e lui le dà della vegana.

GAIA: sono elementi piccoli ma utili, perché vengono percepiti dal pubblico di adesso.

C’è un qualcosa che caratterizza questo spettacolo da un qualsiasi altro spettacolo di Commedia dell’Arte? Una firma?

MATTEO A: la figura della Tessitrice e la mancanza degli Zanni.

RICCARDO: la non presenza degli Zanni è una cosa un po’ anomala, perché di solito gli Zanni sono onnipresenti in ogni canovaccio.

LUCIA: la Tessitrice fa da raccordo tra le scene e da introduzione: è un po’ il filo conduttore di tutta la vicenda.

MATTEO A: lo Zanni nella Commedia è proprio per eccellenza il “deus ex machina”, è il personaggio che crea scompiglio ed è lo stesso che, spesso involontariamente, riesce a tirare le fila della situazione. Siamo riusciti a trovare un escamotage, non avendo lo Zanni: usare la Tessitrice, che è esterna alla vicenda, può entrare all’interno della storia come e quando vuole, e si rapporta direttamente con il pubblico.

GAIA: lei lo dichiara anche all’inizio: si presenta come un personaggio che ha la capacità di entrare nella storia e di uscirne a piacimento, tramutandosi in un qualsiasi cosa possa essere utile alla vicenda. Questo non fa parte della Commedia dell’Arte classica.

Perché studiare Commedia dell’Arte? Quanto può essere utile per un attore che intraprende un percorso di studi professionale?

MATTEO A: perché è una palestra di teatro che prepara in una maniera eccellente, secondo me. Non so se questo genere più di altri, ma sicuramente questo genere in modo particolare.

MATTEO M: la sua importanza sta anche nel modo di lavorare. Rispetto ad altre tipologie di lavoro teatrale che possono essere molto più psicologice, qui tutto si basa sulla scena, sul movimento, sull’azione, sul corpo e sulla sua dinamica. E’ il movimento che porta alla parola, ed è il movimento che porta la parola.

MATTEO A: ti permette di lavorare sull’incisività della battuta, perché è il corpo che fa cambiare l’attenzione dello spettatore da un personaggio all’altro.

GAIA: ti rendi conto di come un certo tipo di movimento ti porta a un certo tipo di battuta. Una postura diversa ti porta a un diverso modo di impostazione e di intonazione.

MATTEO A: è molto interessante il superamento della fase iniziale di puro lavoro tecnico per arrivare a una spontaneità dell’attore, sia nei movimenti che nelle battute.

RICCARDO: ti permette anche di lavorare sul rapporto col pubblico, perché si ha spesso la possibilità di dire una battuta rivolgendosi direttamente a esso, guardandolo dritto negli occhi. Bisogna puntare il naso della maschera verso il pubblico e cercare di accalappiarlo. A differenza di altre impostazioni teatrali, che sia prosa o altro, dove la presenza della famosa quarta parete è molto forte e il pubblico sostanzialmente non esiste per chi si trova sulla scena, nella Commedia è esattamente il contrario: è quasi come se il pubblico facesse lo spettacolo, e quando si recita si parte dal esso, dalle sue reazioni, dal suo coinvolgimento. Tutto quello che si fa è per ed è in relazione al pubblico. La Commedia dell’Arte si basa su questo.

Il pubblico del Cinquecento era abituato a esibizioni di questo genere e ne riconosceva ogni aspetto e ogni dettaglio. Al contrario, il pubblico di oggi è molto ignorante verso la Commedia, e spesso si trova disarmato di fronte a certe caratteristiche e attitudini che vengono presentati in scena. Ci sono personaggi o storie che devono essere rappresentate con maggiore chiarezza perché alcuni riferimenti che un tempo erano comuni e conosciuti da tutti oggi sono più distanti e non vengono percepiti, o non avete sentito questa esigenza?

MATTEO M: il pubblico segue, anche grazie forse a quel rapporto diretto di cui parlavamo prima. Il pubblico sente molto lo spettacolo, e sente quando le cose funzionano.

LUCIA: e quando le cose funzionano, arriva il momento di far ingranare lo spettacolo ancora di più. Una volta che lo spettacolo ingrana il ritmo giusto, l’attore avverte proprio una specie di botta e risposta tra la scena e il pubblico. Poi magari la gente non è più abituata a questo tipo di spettacolo e quindi all’inizio può rimanere sorpresa, deve ambientarsi e abituarsi ai ritmi, al linguaggio e soprattutto al contatto diretto con l’attore che recita guardandola negli occhi, ma una volta che entra nel gioco, nell’immaginario, il pubblico si diverte tantissimo.

RICCARDO: tutto sta appunto nell’entrare dentro il gioco teatrale. Noi ovviamente abbiamo curato molto il testo, ma quello che è veramente importante sono i lazzi, le situazioni. Ci sono grandi compagnie di Commedia dell’Arte che vanno in Francia o in Giappone e il pubblico muore dal ridere. Ovviamente non si recita in francese o in giapponese, ma si coinvolge il pubblico con i giochi della scena, che sono chiarissimi. Credo che questa sia la vera magia della Commedia dell’Arte.

MATTEO A: forse ora è addirittura nata un’esigenza da parte del pubblico di rivivere almeno in parte quella partecipazione di cui parlavamo prima, che ora non esiste quasi più. Qui a Torino abbiamo visto come il pubblico si sia quasi stupito di quanto si stesse divertendo e soprattutto di quanto venisse preso in considerazione.

MATTEO M: tutto è dichiaratamente falso, ma questo non impedisce al pubblico di percepirlo come assolutamente vero, ovviamente nel momento in cui le cose sono fatte bene. C’è tanta responsabilità da parte dell’attore.

LUCIA: forse questa è la vera risposta alla domanda di prima, perché studiare Commedia: per ritrovare quella comunicazione col pubblico che il teatro ufficiale ha dimenticato o tende a dimenticare. E’ la volontà di comunicare che ci ha spinti a confrontarci con questo genere piuttosto che con altri.

MATTEO M: in realtà la Commedia dell’Arte può essere anche solo un pretesto per ritrovare questo modo di lavorare, che poi può essere riportato in molti altri generi teatrali con la stessa efficacia. La Commedia dell’Arte è una scuola d’attore, una scuola di recitazione.

recensione e intervista a cura di Eleonora Monticone

fotografie di Andreea Hutanu

L’ipocrisia cattura anche l’anima più nobile? Misura per misura

Misura per misura è un testo che William Shakespeare scrive nel 1603, ambientato in una Vienna totalmente immaginata dall’autore ma mai realmente visitata. In questa fredda città si svolge una storia che parla di giustizia, di perdono, della deriva malsana a cui conduce il potere se si piega nella direzione sbagliata,  ma ci mostra anche una vena inaspettatamente comica che il regista e attore Juri Ferrini  riesce a esprimere. La scena si apre su un fondale spoglio e pieno di scritte, dove alcuni ragazzi chiacchierano vestiti in modo moderno e un po’ kitsch. “Un omaggio a San Salvario” come dice il regista, quartiere di Torino variopinto e popolato dalle più diverse nazionalità ma allo stesso tempo luogo di problemi sociali e degrado. Le musiche sono pop come i colori degli abiti che contrastano con lo scuro fondale. Quasi subito viene rivelato l’origine dell’intreccio. Claudio, capo di questa banda di ragazzi di strada viene arrestato per aver messo incinta Giulietta e corre a contattare l’amico Lucio perché possa aiutarlo. Questa volta  non potrà fare conto sull’indulgenza del vecchio duca Vincenzo, che si allontana da Vienna per negoziare in Polonia e mette al suo posto Angelo. Quest’ultimo accusa  Claudio del misfatto commesso e per questo lo  condanna a morte.

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Lucio per poter scarcerare l’amico chiede aiuto alla sorella di Claudio, Isabella, la quale è in convento come novizia.. La ragazza accetta di testimoniare in favore del fratello e inscena una sorta di processo contro Angelo dove i due mettono sul banco le loro carte.  Da una parte abbiamo la giustizia rappresentata da Angelo che “punisce solo ciò che vede”, ma che non guarda in faccia  nessuno. Per questo motivo  Claudio non è la vittima ma il capro espiatorio,  e la sua accusa diventa  un esempio per quelli che verranno dopo di lui. Dall’altra parte vi è invece il perdono impersonato da Isabella, la constatazione che “il potere è soggetto ad errori”, e  che il concetto di perdono può essere più forte della pura razionalità.  Angelo, l’avvocato,   sedotto dalla virtù e dalla spiritualità di Isabella, subisce il crollo delle sue certezze,  i suoi sforzi, la sua carriera, gli sembrano ormai lontani ed esplodono in lui le contraddizioni più nascoste e animalesche. Infatti chiederà alla donna di avere un rapporto sessuale con lui in cambio della scarcerazione di Claudio. La ragazza  non accetta e Angelo la minaccia dicendo che nessuno ascolterà lei al suo confronto “Il mio falso pesa più del tuo vero”. A questo punto sorge una domanda: “L’ipocrisia cattura anche l’anima più nobile?”.

Probabilmente si, dopo tutto Angelo prima di incontrare Isabella non faceva altro che seguire la legge scrupolosamente, quindi non si può nemmeno dire che sia un personaggio cattivo. Piuttosto ridicolo, se lo vediamo al giorno d’oggi, ipotesi che sembra trasmetterci anche il regista. Probabilmente Angelo oggigiorno non sarebbe l’illustre avvocato immaginato da Shakespeare a suo tempo, ma piuttosto un impiegato meticoloso, relegato ai margini proprio perchè ligio al dovere. L’attualità che i testi di Shakespeare continuano ad avere dopo secoli viene affrontata bene in scena da Ferrini che infatti mescola il testo originale con elementi comici e battute che ci toccano da vicino.06_foto-misura-per-misura_ph-bepi-caroli_dsc_4258

Ovviamente la piece è anche una commedia, come abbiamo detto e di risate se ne fanno molte. Imperdibile il dialogo tra il Gomito e Mastro Schiuma, molto riuscito ed autoironico anche Angelo Tronca che porta in scena una sua personale e divertentissima versione del personaggio di Lucio. Juri Ferrini invece è il duca Vincenzo che si traveste da frate, “un frate in missione speciale”, per scoprire sotto questo aspetto mascherato il peccato realizzato da Angelo in sua assenza. Lo spettacolo riesce bene, seppur forse troppo lungo, poiché si poteva evitare qualche allungamento dovuto alla trama che il regista ha voluto mantenere nella versione integrale. Per questo motivo il pubblico rischia a volte di perdere l’attenzione e il pathos provocato dalle vicende. Ho apprezzato molto invece la semplicità della scena che non nascondendo le capacità dell’attore, obbliga il pubblico ad essere attento e apprezzare ogni movimento dell’interprete e il modo in cui riempie lo spazio.

Linda Borello

di  William Shakespeare
con Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Gennaro Di Colandrea, Sara Drago, Francesco Gargiulo, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca
regia Jurij Ferrini
scene Carlo De Marino
costumi Alessio Rosati
luci Lamberto Pirrone
suono Gianandrea Francescutti
regista Assistente Marco Lorenzi
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

 

 

 

 

L’uomo dal fiore in bocca

«Quando uno vive, vive e non si vede. Orbene fate che si veda, nell’atto di vivere, in preda alle sue passioni, ponendogli uno specchio davanti» (…) «e se piangeva, non può più piangere, e se rideva non può più ridere… Questo guaio è il mio teatro».

Questo è il teatro di Pirandello: è mostrare l’atto di vivere, addentrarsi nei labirinti delle contraddizioni umane, dare forma a quella realtà altra, nascosta, che gli espressionisti avevano cominciato ad individuare e ad esprimere attraverso la deformazione dei corpi, una prospettiva distorta, l’esasperazione dei colori e un linguaggio radicale, a volte eccessivo. Non a caso, Bonn – importantissimo centro culturale del tempo, e fulcro dell’espressionismo tedesco, appunto – è la città in cui Pirandello conclude i propri studi e in cui matura, molto probabilmente, parte della propria ispirazione. Qui, lo scrittore-drammaturgo interiorizza questa nuova modalità di interpretazione della realtà, e, una volta tornato in Sicilia, ha la folgorazione. Inizia a scrivere di personaggi sghembi, contorti, distorti, vedendo deformazione e contraddizione- temi tipici di quell’arte germanica- nella realtà che lo circonda e che da sempre lo aveva circondato; ad Agrigento. Ne nasce -restando circoscritti ad un discorso teatrale- un teatro rivoluzionario, attraverso il quale Pirandello distrugge dall’interno le fondamenta del dramma borghese naturalistico (dominante sulla scena all’inizio del Novecento), ossia la verosimiglianza, la logica consequenzialità degli eventi e la tendenza a proporre personaggi dalla psicologia unitaria e coerente. Tragico e comico si mescolano, dando vita alla poetica del grottesco, variante teatrale del concetto di umorismo teorizzata nel saggio L’umorismo del 1908. Due tratti, quello rivoluzionario e quello grottesco, che ci fanno risuonare nella mente un altro attore, il più importante attore italiano dell’Ottocento, Gustavo Modena, seppure i due abbiano poi -come è giusto che sia- reso personali e fatto uso in modo diverso di queste cifre stilistiche. Un fatto che ci conferma ulteriormente la sua grande intelligenza e forza espressiva e la grandezza della sua persona, oggi indiscussa, al contrario di allora, quando, quanto detto veniva condiviso da pochi (ricordiamo fra gli altri l’interesse per la scrittura pirandelliana di Antonio Gramsci).

E’ su questo grandissimo autore, i cui tratti fondamentali- seppur ripercorsi sommariamente- non potevano esser tralasciati, che Gabriele Lavia decide di lavorare, ancora una volta. Dopo aver portato in scena Sei personaggi in cerca d’autore (gennaio 2016), in questa occasione, opta per un lavoro più complesso, un lavoro di mappatura, di intertestualità che gli permetta di dare forma ad una riflessione organica sul tema della morte, attraverso l’analisi e la concatenazione di diverse opere di Pirandello. Fulcro dello spettacolo è l’atto unico intitolato “L’uomo dal fiore in bocca”, al quale si intrecciano poi gli altri lavori. Da qui il sottotitolo “E non solo..”. Un lavoro pensato, non dettato soltanto dalla brevità che quest’opera, lasciata sola, avrebbe riservato. “L’uomo dal fiore in bocca” era stato appunto commissionato a Pirandello dall’attore Ruggero Ruggeri , il quale aveva bisogno di un qualcosa di breve, di circa un quarto d’ora, da poter recitare dopo lo spettacolo, come era d’uso una volta. Così il drammaturgo aveva dato vita al suo dramma, inizialmente una novella intitolata Caffè notturno (sottotitolo: la morte addosso).

Ma veniamo alla forma che Lavia sceglie di dare a questo capolavoro. Si spengono le luci in platea. Ad un silenzio segue un qualcosa di molto singolare singolare. Un suono forte, quasi disturbante, piuttosto prolungato: è il suono di un treno che passa. Una scenografia imponente: una stazione ferroviaria del Sud-Italia, come tradisce il lieve accento siciliano degli attori -perfettamente studiato, sia chiaro- che rompe, rende popolare e sporca la dizione. Una stazione che si rivelerà presto essere una sala d’attesa, la sala d’attesa della morte. Poi una lunga panca. Ad un estremo, un uomo accucciato. Ed infine un orologio senza lancette, una delicata citazione al cinema di Ingmar Bergman che introduce l’idea, molto cara al surrealismo, di un tempo liquido e malleabile. Un inizio cinematografico, come conferma anche il regista durante l’intervista di Retroscena al teatro Gobetti. Sensazione che restituisce forse l’atmosfera noir, gotica che pervade lo spettacolo, insieme alla silhouette sfocata di una donna che passa dietro al vetro, e il cui passo lento è accompagnato da una musica dolce e malinconica. Poi d’improvviso un uomo, piuttosto buffo, impicciato da pacchetti e pacchettini tutti colorati. Ne sorregge venti, due per ogni dito.. mica uno scherzo! Per quest’ultima ragione, benché apparentemente banale, così come per altre (tra cui il rumore incessante della pioggia, o la complessità di restituire uno spettacolo organico partendo da una concatenazione di diverse opere di uno stesso autore), Gabriele Lavia definisce “L’uomo dal fiore in bocca. E non solo..” lo spettacolo più complicato e difficile che abbia mai realizzato.

Infine il contenuto. Di che cosa parla questo spettacolo?
Un uomo malato di tumore(nello spettacolo Gabriele Lavia), che sa di dover morire a breve, dialoga con un uomo pacifico (Michele Demaria), un uomo come tanti, che vive un’esistenza convenzionale senza porsi il problema della morte. Quest’ultimo, dopo aver perso il treno, si accosta disperato all’altro e, seduto all’estremo opposto della stessa panchina, incomincia a dare sfogo alle sue più svariate frustrazioni. L’altro ascolta con massima attenzione. Da un lato quindi l’uomo immerso nella vita, che si esaurisce a causa degli sciocchi impicci quotidiani che questa gli riserva, dall’altro un uomo che sta per morire, un uomo che, dopo tanto riflettere, capisce che uno dei suoi bisogni più grandi è quello di attaccarsi agli altri con l’immaginazione. Con tale forza, si attacca quindi alla vita di un uomo pacifico, ascoltandolo, e condividendo insieme a lui la sua saggia porzione di consapevolezza.

«Attaccarmi così – dico con l’immaginazione – alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata.

Pausa

Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…»

Una voce come da narratore onnisciente, di chi vede dall’alto, di chi, grazie alla sua condizione di uomo “fuori dal cerchio”, riesce a vedere ciò che chi è coinvolto non riesce a cogliere. E per questo risulta talvolta incomprensibile, talvolta assurdo. Ne nasce un’immagine dal tono a tratti farsesco, a tratti commovente. Il contrasto tra i due personaggi, il cui valore risiede proprio nella loro diversità, si fa capace di rendere assolutamente strutturata e coerente la riflessione alla quale vuole arrivare Pirandello, mai noiosa, mai accademica, mai fine a se stessa. Una riflessione appassionata sull’uomo in relazione a ciò che lo circonda, agli altri, alla sua vita, a se stesso. Un uomo talvolta arrabbiato con il tempo che scappa e fugge come il Bianconiglio, talvolta sereno e calmo, pervaso da quell’equilibrio che solo alla fine di un percorso si riesce a conquistare, perché, come disse Terzani:

«Una strada c’è nella vita, e la cosa buffa è che te ne accorgi solo quando è finita. Ti volti indietro e dici “Oh. ma guarda, c’è un filo. Quando lo vivi non lo vedi, eppure c’è. »

ilsettimosigillo3E poi ancora la relazione che ha l’uomo con la morte, parte integrante della vita e incomprensibile all’uomo, e che -colta la sottile citazione- non può che far venire almeno un pensiero tutto da dedicare al Settimo sigillo.

A questo serve quindi il contrappunto dell’uomo pacifico, ad alleggerire, ad organizzare. Un attore che si fa pertanto, non più semplice personaggio, ma co-protagonista.

Sono temi complicati quelli affrontati da Pirandello, il quale porta, non a caso, a fianco dell’etichetta di scrittore attore e drammaturgo anche quella di filosofo. Una complessità non tanto intrinseca agli argomenti trattati, quanto tutta propria del saper organizzare ed esprimere con semplicità e chiarezza tali garbugli. Ma ancora più complicato, forse, è doverli poi anche mettere in scena, mantenendo la materia viva del testo. Eppure Gabriele Lavia sembra tenere testa. Ci riesce, e il suo teatro appare efficace. Le anime degli spettatori -lo si vede sentendo il clima che c’è in platea- mescolano alla risata uno sguardo attento, riflessivo. Forse perché a Lavia preme, più di ogni altra cosa, essere chiaro; motivo per cui molto spesso dice ai suoi attori, così come diceva Marx, “saliamo al concreto”: il dovere di un regista è di farsi capire. E Gabriele Lavia si fa capire. Fin troppo bene. Così, nelle vesti di tanti piccoli uomini pacifici, anche noi restiamo, a luci accese, un po’ frastornati, scombussolati, un po’ più consapevoli. Consapevoli di quanto sia importante essere attaccati alla vita, spogli da tutto ciò che a questo sta sopra, spogli da tutto lo strato di superficie che ci portiamo addosso, e dovunque sia il puntino sul disegno del percorso del nostro breve passaggio sulla terra.

L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello
adattamento Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Michele Demaria, Barbara Alesse
regia Gabriele Lavia
Scene Alessandro Camera
Costumi Elena Bianchini
Musiche Giordano Corapi
Luci Michelangelo Vitullo
Regista Assistente Simone Faloppa

 

 

Ivanov: la crisi dell’uomo moderno

Il 6 dicembre ha debuttato al Carignano Ivanov con la regia e l’interpretazione di Filippo Dini, spettacolo già insignito del Premio le Maschere del Teatro 2016.

Primo dramma cechoviano, Ivanov tratta in quattro atti di un uomo di mezza età assediato da un forte mal di vivere, una forma di depressione che lo porta a lamentarsi costantemente; un uomo divenuto sterile dal punto di vista sentimentale e segnato dall’incapacità di rapportarsi con i personaggi che lo circondano.

La rappresentazione inizia già nel momento in cui lo spettatore fa ingresso in sala; infatti in scena, quasi in un fermo immagine, è già presente un Dini assolto nella lettura.
Nikolaj Alekseevič Ivanov viene successivamente sorpreso alle spalle dal lontano parente e amministratore delle sue terre Mihail Borki, il quale gli punta una pistola alle spalle nell’intento di farlo trasalire. La pistola sarà l’emblema e il simbolo di questo dramma, presente sin dall’inizio come monito e avverso presagio, tornerà poi anche alla fine segnando una perfetta chiusura ad anello.
Un dramma che non poteva che chiudersi con la sconfitta del suo eroe, il quale, fin da subito, appare segnato dall’impossibilità di salvezza.
Il finale profondamente drammatico viene reso con grande forza espressiva dalla regia di Dini, grazie alla capacità di coinvolgere gli spettatori su più livelli percettivi e sensoriali.
Il gesto estremo del suicido di Nikolaj Alekseevič, tanto cruento quanto elaborato, viene preceduto da un rumore assordante e viene seguito da una scena al rallenti, unico momento di stasi in tutta l’opera, che si chiude mentre l’odore della polvere da sparo si diffonde nella sala.

Filippo Dini porta in scena un personaggio nevrotico, a tratti spietato, a tratti comico. Un personaggio in grado di trascinare coloro che lo circondano nella sua follia, nella sua miseria, in grado di portare tutti sull’orlo della nevrosi. Eppure Ivanov non compie mai il male in modo volontario, consapevole sì, ma volontario mai.
E se è vero che le sue azioni sono mosse da una logica profondamente complessa e contorta, in grado di sfuggire pure a Ivanov stesso, Dini riesce a dare corpo a un personaggio fortemente contraddittorio, sempre in bilico tra lo scoppio d’ira e la volontà di reprimere tale sentimento.
In breve, un personaggio estremamente moderno, estremamente umano, in grado, anche dopo più di un secolo, di parlare ancora direttamente al pubblico.

La regia di Filippo Dini assume un andamento concitato e dinamico, in un susseguirsi di scontri frontali tra Ivanov e gli altri personaggi nel tentativo utopico e costante di trovare un punto di incontro. Un sogno questo però destinato ad infrangersi, come quelli delle due donne colte dall’amore per il protagonista: Anna, che per sposarlo ha abbandonato la sua famiglia e la religione ebraica, ammalandosi di tubercolosi; e Saša, giovane fanciulla che spera di poter guarire Ivanov dai suoi mali.

Un “Ivanov” dunque indubbiamente innovativo, che si allontana profondamente dal tipico andamento malinconico e statico dei tradizionali allestimenti cechoviani in favore di un ritmo frenetico, di una continua tensione emotiva che non lascia tregua allo spettatore.

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Ivanov di Anton Čechov
traduzione Danilo Macrì
con Filippo Dini, Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Antonio Zavatteri, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe
regia Filippo Dini
scene e costumi Laura Benzi
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino

AmletOne! : una fiammata

La prima stagione del teatro Marcidofilm è stata inaugurata lo scorso anno, in onore dei trent’anni della compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. La scelta del primo lavoro è ricaduta sul AmletOne! Dopo il successo della scorsa stagione, lo spettacolo è stato riproposto anche nel calendario di quest’anno, dal 9 al 13 novembre.

Come l’apertura del nuovo teatro, anche l’inizio dello spettacolo è stato prorompente. Il telo che a prima vista poteva parere semplicemente un eccentrico sipario viene trapassato all’improvviso da dei lunghi tubi. Le voci corali, inconfondibile caratteristica della compagnia, rompono il silenzio attraverso i loro strani megafoni trattando subito uno degli argomenti simbolo dell’Amleto di Shakespeare, una meditazione sull’essere. Da dietro la tela ci viene narrato una specie di prologo e una considerazione sull’opera. Compaiono quindi delle ombre in movimento ed è così che vedremo per la prima volta i personaggi. Poi i buchi che sono stati fatti sulla tela rimangono vuoti e ciò che segue sarà un intero minuto di totale buio accompagnato da forti rumori. L’effetto che si crea nel buio improvviso, utilizzato poi anche in una successiva scena, è davvero efficace e viene distrutto e fortificato da ciò che ci troviamo davanti alla riaccensione delle luci: una vera e propria fiammata.

Ora il palco è visibile, la scenografia è composta da strutture regolari e da scale, ma ciò che non ci si aspetta sono i colori. Dominante è il giallo fosforescente e lo stridente contrasto con il rosso, il nero e il bianco. I colori sono presenti tutti assieme su ogni struttura e sopratutto, in forme diverse, su ogni tuta e sui volti dei personaggi che attendono fermi guardando il pubblico. Ci viene presentata subito la corte e i vari personaggi circondano i due troni centrali su cui sono seduti Gertrude e Claudio, interpretati da Maria Luisa Abate e Marco Isidori, anche autore e regista di questa personalissima versione dell’Amleto.

Ogni personaggio è caratterizzato in maniera differente. Gertrude e Claudio hanno il viso tirato con dello scotch rosso cosicché le loro espressioni ci paiano quasi falsate e il loro ghigno evidenziato. Ofelia, simbolo dell’amore nell’opera, ha un cuore bianco bordato di rosso sull’intero volto giallo e la sua femminilità è rafforzata da un costume rigonfio che le evidenzia i fianchi. Polonio è invece un uomo stabile e sembra un consigliere retto e giusto, i decori del suo costume sono infatti simmetrici e sulla fronte presenta un cerchio rosso mentre il volto è interamente bianco. Laerte ha disegnata sul volto una figura spigolosa a scale che forse vuole simboleggiare il cambiamento che durante l’opera ha nei confronti dello stesso Amleto.

Scelta molto particolare è invece il teschio raffigurato in testa a Orazio. Esso può simboleggiare sia il rapporto che il personaggio ha con gli spettri e quindi con la morte o essere semplicemente un divertente escamotage per rendere in scena l’ormai simbolica immagine di Amleto pensieroso con in mano il teschio.

Il protagonista è la figura che ha maggior risalto e a differenza degli altri personaggi non presenta alcun tono sgargiante, è l’unico che veste interamente di nero con linee a saetta argentate. Paolo Oricco, che ne dà una forte interpretazione, ha il volto interamente bianco con gli occhi cerchiati di nero e i capelli sottilissimi e molto chiari seguono i movimenti dati dalla sua pazzia. In tal modo viene anche evidenziata una certa fragilità del personaggio, oltre all’ovvio dualismo, grazie al gioco di bianco e nero.

La simmetria presente nelle scenografie e negli spostamenti degli attori accentua la totale sregolatezza che mano a mano si impossessa in primo luogo di Amleto, poi di Ofelia e per come si atteggiano in scena anche degli altri protagonisti.

Come al solito le scenografie di Daniela del Cin si trasformano presto anche in macchine teatrali, cosicché nei cambi di scena a vista, realizzati dagli stessi personaggi, gli attori possano fare ampio uso delle variazioni d’ambiente che si creano. In questo modo le varie figure divengono un tutt’uno con il palco e le situazioni ci sembrano, nonostante le esagerazioni o modifiche dei Marcido Marcidorjs, perfettamente legate alla scena. Avremo quindi Amleto e Ofelia che dialogano in bilico su una sbarra portata sul proscenio e lo squilibrio di entrambi si accentuerà, ed é in questo momento che viene appena citato il monologo dell'<essere o non essere>.

Un altro gioco divertente è stato fatto grazie alla scena del teatro nel teatro presente anche nell’opera originale. In questo modo le varie voci dei personaggi ed il monologo di Amleto elogiano la stessa “finzione amica” e rendono lo spettacolo a corte un discorso meta-teatrale.

“Lo spettacolo” spiega Maria Luisa Abate in un’intervista “parte come una specie di ingranaggio e poi monta. Più gli oggetti vengono sparpagliati, più si allontanano dal centro della scena e più l’azione si fa forte!” . È infatti questo che vediamo: uno smontarsi e rimontarsi della scena che è perfettamente in linea con la storia e con l’evoluzione dei personaggi.

“Fino ad arrivare all’assoluto niente, a tutto nero” e vediamo quindi svolgersi lo scontro finale con poca luce e senza più evidenza dei colori sgargianti. Amleto e Laerte saranno sospesi con dei cavi e sorretti dagli altri attori, mentre il resto della scenografia sarà quasi scomparsa.

Marco Isidori ha preso il testo e ha fatto in modo di renderlo suo e adatto ai nostri giorni, e come ha detto la stessa Abate ha tentato di “riportare quello che ci può ancora interessare di queste parole, di questa tradizione, nella modernità”

“Una fiammata” lo descrive Paolo Oricco, poiché ai nostri giorni non vi é motivo di presentare al pubblico l’Amleto originale. I tempi e i temi devono quindi seguire e soddisfare il pubblico, il quale deve comprendere e sentirsi vicino a ciò che viene rappresentato. Vengono per questo citati Trappola per Topi di Agatha Christie e sentiamo nel finale una canzone di Sergio Endrigo. Veniamo trasportati ai giorni nostri insieme a questo Amletone molto scherzoso.

“Abbiamo voluto che questo Amleto fosse un Amleto-Marcido, che fosse quindi esagerato, potente ma che allo stesso tempo il pubblico riconoscesse l’Amleto che si aspetta”

Confessioni di chi? – MAL DI PALCO

Michele di Mauro ha portato in scena CONFESSIONE il 16 ottobre a conclusione della giornata del Festival MaldiPalco, presso il Tangramm teatro, che ha visto prima di lui, due giovani attori emergenti della scena italiana con : I BAMBINI DELLA NOTTE  e DIARIO DI UNA CASALINGA SERBA.

Le “confessioni di un ex presidente che ha portato il suo paese sull’orlo di una crisi”, oltre a essere il sottotitolo dell’opera, è un indizio che viene dato anche allo spettatore sulla persona che avremo davanti.
Un comizio politico? Una rappresentazione televisiva? Un’intervista alla radio?  No, nulla di ciò. Il Presidente, si presenta a noi come uomo che vuole spiegarci il suo animo, dandoci le sue ridicole ragioni per ciò che ha fatto col suo paese.
Ci racconta le sue debolezze, i suoi desideri, tutto ciò che non avevamo mai sentito. Ma ci racconta anche dei fatti che abbiamo vissuto, ma dal suo punto di vista.
Però non dimentichiamo la sua indole: lui è un politico. Inevitabile è che si lasci trasportare dal modo propagandistico di presentare se stesso alternato da grandi e grossi falsi sorrisi tipici della campagna elettorale delle sue confessioni.

Chi è questo presidente? Berlusconi? Renzi? Continua la lettura di Confessioni di chi? – MAL DI PALCO

La follia di Ofelia – MaldiPalco

Il 21 ottobre Silvia Battaglio ha portato sul palco del Tangram Teatro Ofelia, uno spettacolo della rassegna MaldiPalco.
L’attrice si è misurata nuovamente con la sua prima creazione, parte di una serie di rappresentazioni che indagano dentro la letteratura e i personaggi femminili. Silvia si è legata a Ofelia quasi per caso durante gli anni di formazione accademica teatrale e si è portata dietro il personaggio shakespeariano fino al 2005, quando ha finalmente deciso di rappresentare la sua Ofelia in scena. Lo spettacolo ha debuttato nel 2006 nel cartellone del Teatro Stabile di Torino, per poi esser messo in scena con frequenza minore.

ofeliaSilvia Battaglio ci introduce all’interno del palco usando le parole d’amore di Amleto, parole tenere che sembrano dimostrare la veridicità dei suoi sentimenti nei confronti di Ofelia. A seguire l’attrice interpreta un dialogo tra Ofelia e Polonio, che consiglia alla figlia di stare attenta e di non fidarsi delle parole che sono capaci di ingannare. Anche Laerte la mette in guardia ma Ofelia è innamorata e non può fare a meno di lasciarsi trasportare dall’amore, fino a quando Amleto non le spezza il cuore e l’accusa di essere spregevole come tutte le donne, come lo è anche sua madre che ha sposato lo zio dopo la morte del padre. L’attrice riesce sul palco a impersonificare con grande bravura sia Ofelia che Amleto, usando metà del corpo per rappresentare una e metà per l’altro. Amleto con addosso un cappotto ha una voce sicura ed è deciso ad allontana la fanciulla, mentre Ofelia tiene un fiore in mano, trema e anche la sua voce è vibrante durante il dialogo.
Il rifiuto provoca in Ofelia sconforto e con l’assassinio del padre Polonio da parte di Amleto la giovane si abbandona alla follia più totale. Silvia Battaglio si concentra particolarmente nella resa di questa scena, usando un gancio posto nel mezzo del palco che le permette di muoversi ma al contempo la tiene bloccata sul posto. Ofelia si materializza in una danza sofferta e piano piano si lascia scivolare nella follia. Si convince di meritare il rifiuto e la perdita del padre e cade in una nevrosi ossessiva in cui ripete dialoghi tra sé, desiderosa di essere salvata e amata da Amleto. Ma nessuno corre in suo aiuto e lei si lascia annegare nel fiume. L’attrice per rappresentare la morte di Ofelia si sveste e consegna in una bacinella piena di petali rossi le vesti della giovane innamorata e folle.

“C’è un salice che cresce di traverso a un ruscello e specchia le sue foglie nella vitrea corrente; qui ella venne, il capo adorno di strane ghirlande di ranuncoli, ortiche, margherite e di quei lunghi fiori color porpora che i licenziosi poeti bucolici designano con più corrivo nome ma che le nostre ritrose fanciulle chiaman “dita di morto”; ella lassù, mentre si arrampicava per appendere l’erboree sue ghirlande ai rami penduli, un ramo, invidioso, s’è spezzato e gli erbosi trofei ed ella stessa sono caduti nel piangente fiume. Le sue vesti, gonfiandosi sull’acqua, l’han sostenuta per un poco a galla,nnel mentre ch’ella, come una sirena, cantava spunti d’antiche canzoni, come incosciente della sua sciagura o come una creatura d’altro regno e familiare con quell’elemento. Ma non per molto, perché le sue vesti appesantite dall’acqua assorbita, trascinaron la misera dal letto del suo canto a una fangosa morte.”
(Gertrude, Amleto)

Tutto lo spettacolo si svolge su un fondale nero e la scenografia, semplice ma d’effetto, è composta solo da una sedia posta al fondo del palco, la teca d’acqua con i petali rossi, il gancio e dei petali bianchi sparsi su tutta la scena. La musica e i suoni sono in stretto rapporto con la voce e i sospiri dell’attrice. Dopo dieci anni dalla creazione, Silvia Battaglio ci ha presentato un’Ofelia rinata, più affine all’attrice grazie al testo che ha attraversato qualche modifica dal 2006 ad oggi.

Andreea Hutanu

Di e con Silvia Battaglio
Liberamente tratto da Amleto di William Shakespeare
Suggestioni letterarie di Pier Paolo Pasolini, Mariangela Gualtieri, Albert Camus
Suggestioni musicali di Quintorigo, Opus Avantra, Peter Gabriel
Disegno luci e scene Lucio Diana
Produzione Tangram Teatro Torino
Con il sostegno di Regione Piemonte, Sistema Teatro Torino, Città di Torino