Tutti gli articoli di Martina Di Nolfo

Muttersprache Mameloschn – Lingua madre Mameloschn: alla ricerca della propria dimensione.

Non tutti siamo fatti per restare dove siamo nati: c’è chi, allora, parte e rispetta l’intenzione di non tornare più, chi parte ma torna indietro quasi subito, e chi, come Rahel, figlia di Clara e nipote di Lin – le tre protagonista di questa dramma- salpa alla volta di New York per iniziare un nuovo capitolo della propria vita, portandosi dietro un amuleto pesante di confusione storica, di ricordi e di fragilità.
Si sa, all’inizio è sempre allettante trasferirsi in un posto nuovo ma poi, piano piano, subentrano le difficoltà;  la vita, infatti, sa essere crudele e mette a durissima prova l’essere umano.

Rahel, inizialmente, gode della sua confusione a proposito delle vie senza nomi ma solo numerate; è felice di tornare a sentirsi nuovamente come una sorella minore- come scrive nelle lettere rivolte al fratello assente- e di non capire la lingua del posto: un’incomprensione linguistica che ricorda tanto Alexander Bruno, il protagonista di un libro di J. Lethem , che cerca a tutti i costi di andare in posti esotici in cui la lingua a lui sconosciuta lo lasci felicemente ISOLATO nell’incomunicabilità; ma se per questo protagonista il tutto si rivela come un dolce balsamo, per Rahel, invece, a lungo andare, diventa estenuante.
“Io non capisco i piccoli dettagli, le allusioni, non capisco nemmeno le barzellette, niente!” scriverà al fratello, in modo sempre più disperato. Le barzellette che strappavano risate dolci-amare, le barzellette simbolo di casa, simbolo di una lingua parlata da sempre con sua madre e sua nonna, una lingua madre appunto -un mameloschn– che ora ha perduto e non sa come ritrovare.

Sentirsi continuamente fuori posto, affermare la propria identità mediante la storia passata e ricercare una propria lingua madre in cui sentirsi a casa: sono questi i temi di un dialogo politico, religioso, familiare ed intimo che le straordinarie Elena Callegari, Francesca Cutolo e Maria Roveran portano in scena con tenerezza, passione e delicatezza.

È intorno al tema della partenza, però, che si snoda l’intero dramma. Il primo a essere andato via e a non aver fatto più ritorno è Davie, unica figura maschile dell’intero dramma che presenta la sua assenza unicamente con delle lettere spedite alla sorella Rahel, dalle quali si alzerà il coro delle voci della coscienza delle donne, con un sistema narrativo che ricorda il romanzo La grande sera di Pontiggia. Seguirà poi, la partenza della giovane ragazza, che segnerà un ennesimo colpo al cuore per una madre ormai “orfana” di due figli.
Partire, dunque, per cercare di risolvere le questioni in sospeso o addirittura lasciarle alle spalle, ma è davvero sempre possibile? Il poeta latino Orazio, in un famoso esametro, diceva che è il cielo a mutare per coloro che attraversano il mare, e non l’animo; lo stesso vale per gli affanni dell’anima dell’adolescente, che non riuscendo a superare il dolore causato dalla partenza definitiva dell’ amato fratello maggiore, prova a superarla attraverso una partenza in un nuovo Stato -che comunica allo spettatore attraverso un intimo monologo- ma nemmeno a lei è dato da sapere se riuscirà nel suo intento: quando il dolore c’è e non passa, te lo porti dietro ovunque, anche dall’altra parte del continente!

Oltre alla figura pregnante della ragazza, protagoniste di questo dramma sono, poi, altre due donne, altre due generazioni che sono l’una l’antitesi dell’altra: una nonna e una figlia- a sua volta madre di Rahel- che ne hanno vissute tante insieme, dagli spettacoli di cabaret alle manifestazioni socialiste guidate dall’ormai anziana Lin e , tutt’ora, si ritrovano a (soprav)vivere con tutte le loro contraddizioni, in un vortice di amore e odio, in un appartamento berlinese, all’ombra della caduta del Muro.
Si amano, si uccidono con una mezza parola che è peggio di una freccia imbevuta nel veleno, come solo una madre sa lanciare…e ancora si amano e si disprezzano e più si amano e più si rinfacciano i dogmi di un ebraismo ormai diventato un peso per entrambe. Tentano, invano, di lasciarsi ma non riescono a stare l’una separata dall’altra, sono l’una l’ossigeno per l’altra; solo la morte sarà in grado di separarle, ma solo apparentemente poiché un filo rosso le terrà per sempre unite.

Sasha Marianna Salzmann è nata nel 1985 a Volgograd nell’Unione Sovietica, vive tra Berlino e Instanbul, è scrittrice e curatrice del teatro Maxim Gorki di Berlino, ed è l’autrice di questo dramma, la cui regia è stata curata da Paola Rota, attrice di cinema e teatro, nonché regista di spettacoli prodotti dal Teatro Stabile di Torino, della Biennale di Venezia e del Teatro dell’Elfo di Milano.

 

Martina Di Nolfo

 

di Sasha Marianna Salzmann
traduzione Alessandra Griffoni
con Elena Callegari, Francesca Cutolo, Maria Roveran
regia Paola Rota
costumi Ursula Patzak
luci Camilla Piccioni
Teatro Stabile di Genova
Festival delle Colline Torinesi
PAV nell’ambito di Fabulamundi .
Playwriting Europe – BEYOND BORDERS?
con il supporto del programma dell’unione Europea Creative Europe e del Goethe Institut

Re Lear: il trionfo del bene sul male, è utopia o realtà?

È un Re Lear decisamente più calcato e più “underground” rispetto all’opera originale del bardo, il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti, regista teatrale romano, interpretato da un eccezionale Ennio Fantastichini, fasciato da un completo in velluto rosso. Riscritto in chiave moderna senza azzardare troppo, ripulito da lirismi di marca secentesca sostituti da qualche battuta odierna, l’opera si fa piacevolmente seguire e trascina lo spettatore per l’intera durata dello spettacolo, nonostante la lunghezza – alla quale non siamo più abituati, vista la velocità eccessiva con cui tutto scorre nel nostro tempo- sia non poco impegnativa; merito anche di un cast numeroso e pulsante che conosce davvero il lavoro dell’ attore su stesso.

Re Lear è la storia di padri che fraintendono i figli, e di figli che tradiscono i padri; è una storia intrecciata di legami di sangue infangati da menzogne e sotterfugi per un unico grande desiderio: il potere, che prende forma in svariati modi: nella dominazione, nella supremazia, nel denaro e nella sessualità. Soprattutto, però, è la storia di “animali umani” che dimostrano di essere più istintivi e affamati degli animali stessi, che non uccidono per sussistenza ma per smania di possessione e per egoismo. Ecco infatti, che la storia si ripete: Re Lear non è solamente una tragedia teatrale, ma è un affresco della violenza che domina i nostri telegiornali e i social network, un dipinto del profitto sul più debole e il riflesso di un meccanismo sociale presente fin dagli albori, che premia cioè chi tace e punisce chi parla. L’intero Re Lear è quella sensazione di olio fritto che non si ha digerito, è la nausea di una sbornia triste dopo una felice festa di carnevale all’insegna di brindisi e balli ma che, ad ogni modo, lascia una piccola speranza alle generazioni future.

“A noi spetta gravarci del peso di questo triste tempo, dire quel che si prova, e non quel che si deve”, sono queste, infatti, le ultime parole affidate ad Edgar (un toccante Gabriele Portoghese), unico superstite della tragedia che rappresenta uno spiraglio di speranza e di miglioramento per le generazioni future.

La suddivisione dello spettacolo ricorda molto la Commedia dantesca, concepita però a ritroso. Lo spettacolo si apre nel salone del palazzo del Re, con un modernissimo party colorato con tante luci e tanto spumante, con un sottofondo di musiche composte e eseguite dal vivo da Luca Nostro; un Eden contemporaneo insomma, dove spiccano abiti eleganti e colorati che caratterizzano anche i vari personaggi, e il loro stato d’animo: Lear è caratterizzato dal rosso, la figlia Cordelia ( una delicata Alice Giroldini) dal nero, le spietate sorelle di quest’ultima e i loro mariti (Mariano Pirello e Pierluigi Corallo) , rispettivamente Goneril (un’ irruenta Francesca Ciocchetti) dal blu e Regan (una sensuale Sara Putignano) dal verde. In questa prima parte si svolge il dramma delle due famiglie.

Il primo dramma riguarda Re Lear appunto, un re rinascimentale e barbaro che fa della parola il metro di giudizio dell’amore. Egli ha, infatti, deciso di abdicare e di spartire i territori del suo regno in proporzione all’amore che ogni figlia, con le sue parole, saprà dimostrare al padre. Cordelia sarà l’unica fra le tre figlie, però, che si rifiuterà di adulare il padre in questo modo, poiché fermamente convinta che l’amore puro si dimostri con i fatti e non con parole condite di reverenza; ma d’altronde questo è il dramma in cui è la parola a rivelare l’azione e non viceversa, dunque a venir punita sarà la sincerità, tanto che Cordelia verrà rinnegata come figlia dal padre; sarà, invece, la parola che non sentiamo ma che conviene dire ad avere la meglio.
Sempre in questa prima parte assistiamo a un altro dramma che si sovrappone e si intreccia alla vicenda dei Lear, e cioè quella della famiglia Gloucester composta dal Conte in questione- interpretato da un incisivo Michele Di Mauro che sfodera una straordinaria capacità di far prendere a cuore allo spettatore quella tenerezza e quell’ ingenuità tipica di un padre innamorato dei propri figli, come lo è Gloucester- e dai suoi figli Edgar e Edmund. Quest’ultimo interpretato dall’atletico Francesco Villano che ci regala tutto se stesso, in particolare durante i monologhi che sembrano essere cuciti su di lui, stregando il pubblico con l’ ambiguità feroce e distruttiva del suo personaggio.

Nella seconda parte, che si può paragonare ad un Purgatorio, si svolge la tempesta che imperversa nella brughiera, il simbolo della follia che Lear farnetica. È proprio qui che l’incubo inizia a farsi avanti, confondendosi con la realtà: ecco che gli abiti perdono la vivacità dei colori che avevano in precedenza e la musica si fa più cupa.
Ed è sempre in questa parte che prende vita un altro tema, quello della strategia che si manifesta nell’ amore opportunista delle sorelle che tradiscono prima il padre e poi i loro mariti, e nel linguaggio colmo di falsità e invidia di Edmund, un Caino invidioso del fratello, che stufo di esser il figlio “bastardo” di Gloucester è disposto a tutto, persino a denunciare il padre come spia e a farlo accecare, pur di raggiungere una posizione elevata e di riscattare la bassa stima del proprio sé .

     

Infine la terza e ultima parte: il girone infernale ovvero la guerra, che porta con sé la dissoluzione finale della stirpe di Lear e della sua famiglia, sotto una scarica di musica rock che rivela i complotti e i tradimenti. Un girone infernale dove però la morte non guarda in faccia nessuno, punendo sia innocenti sia peccatori, ed è proprio a conclusione di questa tragedia che la domanda sorge spontanea: è possibile ancora credere nel trionfo del bene sul male o è solo un’utopia? E ancora, è possibile credere nella giustizia, visto che a pagare sono quasi sempre i puri d’animo?

Siamo invasi oggi da un interessamento su alcuni temi- come quello di farsi o meno giustizia in modo autonomo- da parte degli organi politici, che è solo apparente e che poi, col passare del tempo dimostra falle, trascuratezza e poca serietà; questo è pericoloso e non è da sottovalutare, perché comporta un trionfo di ignoranza- nel vero senso della parola, cioè di non conoscenza- che sfocia in atti ingiustificabili, violenti, fascisti e razzisti (e non solo verso stranieri), che rischia di finire in un’autogestione confusa e pregna di fraintendimenti, dove distinguere poi tra carnefice e vittima diventa difficile se non impossibile. È su questi problemi, quindi, che succedono oggi come succedevano anche ai tempi del drammaturgo inglese, che dovremmo riflettere.
Scritta quattro secoli fa, tra il 1605 e il 1606, Re Lear è, purtroppo e per fortuna, come tutte le opere di Shakespeare, estremamente attuale: quanti dissidi familiari sorgono a causa di eredità? Quante morti innocenti per la spartizione di territori- penso per esempio agli israeliani e ai palestinesi – ci sono state? Quante gare si facevano nel medioevo sulla torre più alta che al giorno d’oggi mi ricorda tanto una gara a chi possiede l’arma da guerra più tossica o devastante? Riflettiamoci, e cerchiamo di affermare un po’ di giustizia nel nostro piccolo mondo: è questo il messaggio di quest’opera. Come dice Edmund nell’ultimo atto, la ruota gira e gira per tutti, e anche se le strade asfaltate che tutti intraprendono sembrano essere le più facili da percorre, non è detto che siano le più convenienti; a volte, inoltrarsi nel sottobosco può essere la strada più giusta e perché no più vantaggiosa.
C’è ancora tanto bisogno delle opere di Shakespeare in questo mondo per le generazioni presenti e per quelle future!

Martina Di Nolfo

 

Re Lear

di William Shakespeare
traduzione Cesare Garboli
con Ennio Fantastichini
e con Michele Di Mauro, Roberto Rustioni, Francesco Villano, Francesca Ciocchetti, Sara Putignano, Alice Giroldini, Mariano Pirrello, Pierluigi Corallo,
Gabriele Portoghese, Andrea Di Casa, Antonio Bannò, Zoe Zolferino
regia e adattamento Giorgio Barberio Corsetti
scene e costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
musiche composte e eseguite dal vivo Luca Nostro
ideazione e realizzazione video Igor Renzetti e Lorenzo Bruno
Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Teatro Biondo – Stabile di Palermo

 

QUESTI FANTASMI! Guardare ma non vedere, o vedere ma fingere di non vedere?

 

“Pasquà ma dove hai preso tutti ‘sti soldi? E‘sto diamante?” chiede, in preda alla rabbia e al nervosismo, Maria (Carolina Rosi) a suo marito Pasquale Lojacono (Gianfelice Imparato).

Così si apre il terzo e ultimo atto di Questi Fantasmi, commedia scritta da Eduardo De Filippo nel 1945, che ben si presta però anche ai giorni nostri.

Quanti di noi, almeno una volta nella vita, non hanno non pensato al fatto che, seppur il denaro non fosse tutto, qualche spicciolo in più non avrebbe guastato per essere felici? Questo, il protagonista- interpretato da un composto Gianfelice Imparato-  lo sa bene: egli, difatti, rinunciando ai suoi valori di uomo e ai suoi doveri coniugali,  e accogliendo con estrema passività le vicende della vita, si dimostra un uomo debole, ma soprattutto, un inetto disposto a tutto pur di possedere del denaro. È un personaggio per cui è impossibile non provare un po’ di tenerezza; un uomo apparentemente normale, che anzitutto pensa a se stesso e che non intende rinunciare ai piccoli piaceri della vita: un pollo caldo e del buon cibo; le sigarette e il caffè che si prepara in assoluta autonomia, dal momento che la moglie -essendo, a detta sua, di un’altra generazione- non è in grado di prepararlo come si deve. Pur di non abbandonare tutto questo, Lojacono, spogliatosi oramai di qualsiasi “virtus” in senso lato, accetta qualsiasi cosa: cosa sono, infatti, un tradimento e la perdita dell’onore in confronto alla perdita dell’agiatezza economica? Per Lojacono sicuramente alcunché di tollerabile: tant’è vero che, alla domanda che gli rivolge la moglie, quest’ultimo non è in grado di rispondere, né è interessato a farlo: entrambi, infatti, sanno che tutto il denaro e i gioielli ricevuti in dono, sono una gentile “offerta” da parte di Alfredo Marigliano, amante della moglie, che ripaga Lojacono per l’accordo che, tacitamente tra i due, è venuto a stabilirsi.

È questo il vero dramma: entrambi sanno di sapere eppure fingono di non vedere, un po’ per vergogna di loro stessi, un po’ per comodità; ecco perché, fino alla fine della commedia, indosseranno, senza mai togliere, la loro maschera, qui rappresentata da uno dei temi più cari al pubblico napoletano, quello del “munaciello”, ossia del fantasma. In una società dove è più importante l’apparenza rispetto alla sostanza, dove è meglio sembrare anziché essere; dove è necessario possedere per sopravvivere, anche al prezzo di svendere la propria identità, indossare un velo bianco da fantasma sembra quasi inevitabile. Lojacono stesso arriverà ad affermare che “I fantasmi non esistono… li creiamo noi, siamo noi i fantasmi!”.

 

Lo spettacolo si apre nell’ingresso di una casa che- come leggenda vuole-  sarebbe infestata da diversi e stravaganti fantasmi, e per questo sino a ora disabitata. Nonostante ciò, e al corrente di tale fatto, accompagnato dallo sgrammaticato portiere, interpretato da un esilarante Nicola Di Pinto, Lojacono decide di trasferirsi nell’abitazione- a titolo gratuito- insieme alla moglie, ignara del fatto. Non è, però, il solo ad aver mentito, o meglio, ad avere omesso dettagli apparentemente insignificanti ma che in realtà racchiudono il succo della vicenda: Maria, infatti tradisce il marito con Alfredo Marigliano (Massimo De Matteo).

Lojacono non paga alcunché di affitto, deve però, rispettare alcuni “rituali” stabiliti, in precedenza, con i vecchi proprietari: sbattere un tappetto sui sessantotto balconi della casa, cantare e apparire sempre felice e spensierato per sfatare la leggenda agli occhi dei vicini. Ecco che anche qui, ci imbattiamo nuovamente, nel tema della maschera, tanto caro alle opere pirandelliane, e cardine di tutto lo spettacolo.

Egli poi, vorrebbe affittare le restanti stanze della casa e adibirle a pensione. Purtroppo però, i piani non vanno come aveva sperato: nessuno si presenta per l’affitto; inoltre, Lojacono non gode nemmeno più dei benefici economici del “fantasma buono”, il quale ha smesso, di punto in bianco, di far trovare danari nella tasca della giacca appesa all’appendiabito nell’ingresso. A Pasquale non resta che sperare in un suo ritorno e per farlo, tenderà una trappola al fantasma, al fine di poterlo sorprendere e chiedergli quanto ha bisogno. Fingerà quindi, di partire, ma invece si nasconderà sul balcone.

Finalmente sorprenderà Alfredo, il fantasma venuto per fuggire con la sua amante, il quale commosso dalla disperazione di Pasquale, decide di concedergli un ultimo aiuto economico, a patto che quest’ultimo acconsenta alla sua fuga con Maria; gli lascerà sul tavolo un ultimo fascio di banconote, prima di scomparire per sempre.

Nel frattempo la donna- interpretata da una fredda e decisa Carolina Rosi-  stufa del comportamento vile del marito, sceglierà la libertà, slegandosi da ogni tipo di dovere coniugale: ma non per fuggire con il suo amante, bensì per “fuggire” con se stessa, dimostrando di avere molto più carattere del marito Pasquale.

In questa regia, affidata a Marco Tullio Giordana, -vincitore di quattro David di Donatello, e due Nastri d’oro per I cento passi e La meglio gioventù– che ormai da tempo affianca la regia cinematografica a quella teatrale, il personaggio di Maria diventa padrone del proprio destino.

Nel frattempo, Pasquale conta le banconote sul balcone di fronte al professor Santanna – l’anima utile, che non si vede-,  lo ringrazia per lo stratagemma da lui suggerito, con quelle che sono le ultime parole dell’intera commedia: “Mi ha lasciato una somma di denaro… però dice che ha sciolto la sua condanna… che non comparirà mai più… Come?… Sotto altre sembianze? È probabile. E speriamo…”!

C’è chi va dall’oculista per vedere meglio; altri, per lo stesso motivo, utilizzano una lente di ingrandimento mentre leggono o sono alla disperata ricerca di minuziosi dettagli; chi invece, come Pasquale Lojacono, seppur dotati di un’ottima vista, si ostinano a non voler vedere. Costruirsi un alibi, una scusa quando qualcosa non ci piace è un tipico atteggiamento che riguarda ognuno di noi; è una sorta di medicina che ci auto prescriviamo, un’automedicazione essenziale e inevitabile per delle creature fragili e spaventate quali siamo, ma come tutte le medicine, bisogna, però, esser capaci di saper dosare, altrimenti è un attimo cadere nel baratro e perdere tutto, ma soprattutto perdere noi stessi.

In questa commedia, che valse a De Filippo un successo europeo, egli, con strema franchezza, ci mette di fronte al fatto compiuto: siamo tutti alla ricerca del quieto vivere e della fantomatica e agognata felicità. Si sa, il lavoro modesto non paga molto e chi vive una vita dignitosa, sogna di diventare milionario; chi è milionario, invece, sogna di poter tornare a star bene e in buona salute; ogni persona e ogni famiglia ha il suo cruccio; ogni persona vive come un’anima in pena e trovare la serenità di questi tempi, sembra, sempre di più, diventare una ricerca utopica.

 

Martina Di Nolfo

 

QUESTI FANTASMI!

Di Eduardo De Filippo

Regia Marco Tullio Giordana

Con Gianfelice Imparato, Carolina Rosi, Massimo De Matteo,

Paola Fulciniti, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto,

Viola Forestiero, Giovanni Allocca, Gianni Cannavacciuolo, Carmen Annibale

Scene e luci Gianni Carluccio

Costumi Francesca Livia Sartori

Musiche Andrea Farri.

ELLEDIEFFE- LA COMPAGNIA DI TEATRO DI LUCA DE FILIPPO

 

 

Il lavoro di vivere: “più facile a dirsi che a farsi!”

Sono le due di notte, le tende delle finestre oscurano la stanza matrimoniale dei due coniugi Yona e Leviva Popoch. Al centro di quest’ultima: un letto, sottosopra e disfatto, quasi “sciupato”, metafora senile dell’individuo.

Dormono, quando improvvisamente l’uomo viene colto da un malore al cuore: è una meditazione sul “male di vivere” -molto simile ai due protagonisti calviniani de La vita difficile –  è il bruciore del rimpianto di cose mai fatte, è il desiderio impossibile di tornare indietro negli anni per intraprendere un nuovo ciclo di vita; ma è anche la bramosia di rinascita; infatti, Yona è come una fenice alla quale hanno tagliato le ali, ed ora sembra deciso a riprendersele. Arrabbiato e insoddisfatto, quest’ultimo, decide di destare la consorte dal suo sonno profondo e quieto, ribaltandola letteralmente giù dal materasso, buttandola per terra senza alcuna remora, come si farebbe con un sacco dell’immondizia, per poi, cinicamente, chiederle: “Perché sto con te, Leviva?”

Ed è proprio in questa stanza- che pare un quadro dai colori ormai sbiaditi a causa del tempo- che ha inizio una lunga e logorante guerra di trincea che vede l’alternarsi di ragionamenti filosofici, di insulti ironici e di divertenti sfottò; la rabbia viene “vomitata” l’una addosso all’altro, per sfociare, infine, in violenti e sarcastici atti carnali che ricordano tanto quelli di Philip Roth.

Il-lavoro-di-Vivere 2

“Guardatevi sembrate due cani rabbiosi” dice l’impertinente amico Gunkel, osservando la coppia. Gunkel è giunto nella stanza forse perché in cerca di un’aspirina contro il mal di testa, o forse a causa della sua sofferenza scaturita dalla solitudine, in cerca di un po’ di compagnia contro cui inveire. Così, questi due esseri umani mutati in bestie, sprecano parole su parole senza mai agire veramente. Sono inetti di fronte ai loro stessi desideri!

Yona ha preparato la valigia, si è vestito, ha indosso persino una cravatta sopra il suo pigiama preferito, è desideroso di ricostruirsi una vita e perché no, di trovare un nuovo “culo sodo” che sostituisca quella flaccido della moglie. È già in viaggio… sì, ma con la mente, di certo non fisicamente: i suoi piedi rimarranno, infatti, radicati in quella stanza “finché morte non li separi”! La moglie inizialmente inscena, in modo astuto, e pur di non perdere il suo compagno di vita, un gioco di adulazione verso il marito: si offre completamente a lui, inginocchiandosi al suo cospetto, quasi fosse una madonna vergine, per poi trasformarsi in un giannizzero disperato, che recluta il marito, affinché combatta al suo fianco quella cruda ed estenuante guerra di vecchiaia e di morte, che altro non è che il lavoro di vivere.

L’uomo sembra finalmente aver messo da parte la rabbia accecante, per rendersi conto che, in fondo, andare via di casa all’età di cinquant’anni non è poi una grande idea, che in fin dei conti non gli conviene poi tanto rinunciare alle comodità quotidiane, e dunque, a un bel frigorifero pieno, al piatto caldo, e a tutte quelle abitudini che solo trascorrendo una vita insieme, l’altra persona può arrivare a conoscere: dalla quantità di sale per condire le varie pietanze, alla quantità di zucchero da sciogliere nel caffè!

Andrée Ruth Shammah ci regala una regia d’effetto, quasi cinematografica e curata nell’estremo dettaglio. Carlo Cecchi che interpreta il burbero marito, è formidabile nella sua recitazione “stanca”, trascinata e a tratti persino “biasciacata”; estremamente vera la recitazione di Fulvia Carotenuto (Leviva) e Massimo Loreto (Gunkel); merito anche del testo di Hanoch Levin, israeliano scomparso prematuramente -purtroppo poco conosciuto in Italia- che mescolando una freddezza tipica dello straniamento brechtiano ad una violenza già cara al teatro sperimentale del secondo Novecento, ci pone di fronte a dei protagonisti che sono degli anti-eroi per eccellenza, inetti soldati che combattono piccole grandi battaglie quotidiane, ai quali non resta che lamentarsi e crogiolarsi  nei loro fallimenti.

Il lavoro di vivere è una piccola grande analisi sul trionfo delle parole sulle azioni, che spesso caratterizzano la vita di noi fragili esseri umani; è una amara celebrazione dell’abitudine sulla forza vitale, e dunque sulla nostra incapacità di agire, rimanendo stigmatizzati e incatenati ad una situazione che sappiamo peggiorare sempre di più…dunque non ci resta che lamentarci, continuamente lamentarci, perché in fondo ci piace e ci fa comodo così.

Un testo sulla difficoltà e sulla pesantezza di vivere, che vale la pena di essere visto, perché tutti noi, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo sentito o sentiremo, di non essere più in grado di andare avanti.

 

Martina Di Nolfo

 

Di Hanoch Levin

Uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah

Con:

Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto

Musiche Michele Tadini

Teatro Franco Parenti/ Marche Teatro

INTERVISTA A STEFANO SABELLI: L’ARTE PER VINCERE CONTRO OGNI LIMITE

Ha debuttato in prima nazionale il 29 giugno 2016 (con replica il 30 giugno), in occasione della trentottesima edizione di Asti Teatro, il capolavoro goldoniano LA LOCANDIERA O L’ARTE PER VINCERE nella nuova edizione prodotta dalla Compagnia del LOTO di TEATRIMOLISANI presso il Teatro Giraudi di Asti.

È stata la talentuosa Silvia Gallerano a indossare gli abiti in stile anni ’50 di una Mirandolina che tenta a tutti i costi di intraprendere la via dell’emancipazione. Con lei un asciutto e caustico Claudio Botosso nel ruolo del Cavaliere di Ripafratta e molti altri quali Dario Florio, Eva Sabelli, Giorgio Careccia, Chiara Cavalieri e Andrea Ortis.

La vicenda si svolge nel Delta del Po, in un’atmosfera acquitrinosa e a tratti onirica. Ce ne parla meglio l’eclettico Stefano Sabelli, regista di questa commedia.

Stefano Sabelli BR

 

Sabelli ha creato un riadattamento dello spettacolo di Goldoni, mantenendo fede al titolo originale aggiungendo però un sottotitolo: l’Arte per vincere. Che cosa significa esattamente?

Anzitutto da un lato si tratta di una battuta del monologo pronunciata da Mirandolina – protagonista della commedia – decisa ad andare a sedurre per la prima volta il Cavaliere di Ripafratta, famoso per la sua accesa misoginia, dunque, in questo senso, altro non si intende se non la vittoria del gioco di seduzione e dell’arte femminile; e dall’altro lato questo sottotitolo mi piaceva perché, secondo me, in Italia è rimasta unicamente l’arte come mezzo per vincere qualcosa!

“Visto che gli altri sono sordi mi fingo sordo per mantenere il teatro”, una frase che lei ha riportato in una precedente intervista a proposito di uno spot di cui era protagonista e che appunto si lega un po’ con il discorso precedente. Dunque è davvero attendibile?

(Ride) Sì, sì è verissimo! L’intervistatore mi aveva chiesto come mai avessi scelto di fare pubblicità e io gli ho spiegato che è uno dei tanti mezzi che mi permettono di fare teatro.

Quel “gli altri sono sordi” era chiaramente riferito agli enti pubblici nello specifico e anche ai nostri enti pubblici molisani visto che la compagnia comunque è residente in Molise. Intendevo dire che ormai l’unico modo per fare teatro e soprattutto per mantenere il teatro è anche questo. Io appunto ho mantenuto il teatro facendo la televisione, il cinema e la pubblicità. Non avrei potuto fare il contrario altrimenti, detto molto francamente.

Come al solito la scelta delle sue scenografie non è casuale, al contrario è parecchio significativa e simbolica: ricordo infatti l’utilizzo di una gabbia carceraria nello spettacolo Autodafè del caminante; in questo riadattamento goldoniano si utilizza invece una locanda-palafitta su di un girevole che si muta ora in una nave corsara ora in una casa di frontiera. Perché questa scelta?

Sì, nell’ Autodafè il pubblico si siede in questa gabbia carceraria svolgendo non solo il ruolo di spettatore ma anche di corte giudiziaria; è sicuramente un’esperienza particolare, quest’anno tra l’altro lo riprenderemo proprio a Torino.

Generalmente a livello concettuale posso sostenere che non mi piace lavorare esclusivamente sulla quarta parete, oltretutto in un’idea di teatro contemporaneo diventa riduttivo pensarla in questo modo. Il teatro nei secoli è sempre stato l’arte che ha condiviso e assorbito tutte le arti possibili. Oggi, per esempio, fare teatro senza pensare che esista il cinema, il linguaggio multimediale, senza tener conto delle nuove sonorità che si stanno affermando è impossibile nonché ridicolo; è pleonastico rimanere legati a un concetto dell’ottocento! Ora, questo spettacolo, è molto più tradizionale di quel che può sembrare: noi usiamo un meccanismo girevole che ci permette di creare contemporaneità fra delle azioni teatrali, rispettando comunque le indicazioni presenti nel testo goldoniano. L’unica variante che abbiamo realmente apportato, è un esterno (assente in Goldoni) e un interno, al fine di cercare di mantenere l’azione sempre viva; sapere infatti che l’azione è contemporanea e che perciò un fatto succede subito dopo l’altro in qualche modo ti tiene sul pezzo e mantiene viva la tensione…

13466501_1023027291118108_1136908719465640103_n

Come mai hai scelto proprio Silvia Gallerano per il ruolo di Mirandolina?

Perché sono rimasto folgorato da La Merda! È stato sicuramente uno spettacolo che mi ha colpito! È forse dal punto di vista interpretativo, uno dei più importanti degli ultimi dieci anni in Italia, non è un caso che abbia ricevuto parecchi premi a livello internazionale! Mi è piaciuta la sua la fragilità, la sua comicità che sapeva far anche commuovere; sotto certi versi mi ha ricordato un po’ Franca Valeri.

Silvia, ti sei chiesta come poteva essere Mirandolina negli anni ’50, rispetto alla Mirandolina settecentesca goldoniana?

Sicuramente la suggestione che avevamo sia io sia Stefano era quella di capire come non far diventare questo testo soltanto un testo di maniera, cercare quindi di tirar fuori una verità: quello che è venuto fuori è la totale verità di Mirandolina, in tutto quello che dice , da quando è maliziosa a quando è innamorata… perciò se dovessimo avvicinarla all’oggi o comunque al secolo passato diciamo che rappresenterebbe un personaggio dalle più svariate sfacettature.

Silvia [interviene Sabelli] ha molte verità ma tutte estremamente credibili, una contraria all’altra, non va per schemi, ed è proprio lì che risiede la sua modernità.

Perché la scelta di ambientare la vicenda negli anni ’50?

Il tutto parte da un’analisi del personaggio di Mirandolina, unica protagonista femminile di tutta la drammaturgia goldoniana, la quale rappresenta il carattere di una donna che non è rivoluzionaria, dal momento che utilizza ancora la malizia delle arti femminili per irretire gli uomini, ma che inizia a presentare tratti di emancipazione femminile. Si tratta infatti di una donna che cerca di affermare una propria identità su tutto e su tutti. Negli anni’50, quando lo abbiamo ambientato noi, sta succedendo esattamente la stessa cosa: io mi sono ispirato a Riso Amaro di De Santis perché lì le mondine diventano in qualche modo partecipi della loro vita, prendendone le redini nelle  loro mani; non dimentichiamoci poi del suffragio universale in Italia del ’46 che segna un periodo di svolta nella storia femminile.

Ovvio Mirandolina non è Rosa Luxemburg , non è nemmeno una femminista lineare, può essere però immaginata come una donna in una fase di pre contemporaneità e dunque di pre modernità in cui decide di rendersi indipendente e libera, esclusivamente con i propri mezzi di seduzione e di spirito d’accoglienza; concetto che peraltro è andato tristemente scomparendo nel nostro Paese.

Mirandolina di fatto è accogliente con i propri ospiti, ma questo, a parer mio, è una dote!

Nella nostra lettura abbiamo inoltre reso la donna maggiormente intrigata dal Cavaliere di Ripafratta, rispetto a quanto lo sia nel testo originale, spingendo su certi tratti di passione amorosa ambigui e non del tutto svelati.

Che ruolo ha la musica in questo spettacolo?

La musica è molto presente: abbiamo deciso di utilizzare il personaggio del marchese di Forlimpopoli (Andrea Ortis) che peraltro parla in veneto e rappresenta una sorta di “dandy fuorimoda”, come baluardo di quel gusto popolare per l’opera lirica, che è tipico della zona della Padania (Parma, Reggio, Ferrara). Per cui per tutta la durata della messa in scena, parla e canta indistintamente arie d’opera e arie di canzonette, come ad esempio “Ma l’amore no” e tante altre dell’epoca. Subentrano poi gli swing di Glenn Miller. Anche per la musica ritorna il riferimento a Riso Amaro e a Ossessione di Visconti, ma anche a De Sica in Ieri oggi e domani: ho infatti ripreso una scena proprio dal duetto tra la Loren e Mastroianni.

Possiamo dire allora che le tue messe in scena risentono parecchio dell’influenza del cinema?

Assolutamente, il cinema influisce particolarmente, soprattutto come linguaggio. Non solo il cinema però, anche l’arte contemporanea. Peraltro a me piace lavorare sui classici in maniera moderna: quest’anno ho deciso di fare un lavoro sul Saul, che ha debuttato su diversi palchi già qualche tempo fa, dando una matrice tutta yiddish, tutta legata alla musica Klezmer mischiata al Requiem di Mozart (contemporaneo di Alfieri) data la sua estrema modernità di linguaggio.

Quando lavoro sui versi penso sempre al cinema, sarebbe impossibile il contrario! Mi sono reso conto che ci sono ormai delle convenzioni teatrali che oggi non reggono più: ho messo in scena , ormai nel 2003, un Romeo e Giulietta che era tutto itinerante, ambientato negli anni ’30 fra il jazz e lo swing, tra due famiglie italo-americane, ho dovuto prendere Diego Florio, che peraltro qui interpreta Fabrizio, ma che ai tempi interpretava appunto Romeo e mia figlia Eva che interpretava Giulietta, qui Dejanira, in quel caso uno aveva 20 anni e l’altra 16, quindi possedevano un’età coerente col testo, ed è stato in quel momento che ho capito che se avessi voluto prendere attori più maturi questo sarebbe stato impossibile, poiché lo spettatore di teatro, come quello del cinema, non crede più ad una Giulietta di 40 anni! Ecco allora, in questo senso, oggi, mi ritrovo “costretto” ad assumere certi linguaggi del cinema, così come sono costretto a tener conto di certe verità. Ed è proprio il cinema che ti costringe oggi a recitare a teatro in maniera non barocca.

Rimane poi il fatto che è bello, secondo me, portare nei classici delle suggestioni che ci sono oggi! Ho fatto ad esempio un Amleto nel 2005 con Giorgio Careccia, portandolo tutto in un’ambientazione giapponese fra samurai, con costumi tipici quali il kimono, e con riferimenti al linguaggio giapponese, inserendoci e mischiando dell’altra musica: all’inizio lo spettacolo si apre sulle note di Elvis Presley per confluire nel duello con le katane fra Amleto e Polonio scandito da “All along the watchtower” di Bob Dylan eseguita da Jimi Hendrix.

(Sorride) La mia cultura in fondo è quella del rock ed esso è il mio vademecum, anche nella mia esperienza teatrale; penso sia proprio questa la bellezza di linguaggi diversi.

A proposito di influssi non occidentali: lei è fondatore del Teatro del Loto, allestito secondo il gusto orientale e curato in ogni minimo dettaglio per garantire versatilità, perché questa scelta di allestimento?

Devo dire che è stata una scommessa, io ero direttore artistico del Teatro Savoia di Campobasso, un giorno entrai in questa sala parrocchiale in occasione di un invito di amici per vedere una commedia di Pirandello, e vidi questo spazio che offriva parecchie possibilità di trasformazione, quindi già da lì mi feci un’idea molto precisa per l’allestimento. Ottenni poi dalla curia la possibilità di rilevarla. Insomma ho fatto un investimento insieme alla cooperativa che ho fondato, e soprattutto privatamente, perché volevo creare uno spazio per i giovani, volevo creare uno spazio propedeutico a tale professione. Ho cercato di creare un luogo il più accogliente possibile, dove gli artisti si potessero sentire a casa.

Oggi molte personalità importanti considerano il Loto come il più bel piccolo teatro d’Italia, e devo dire che sono passati parecchi artisti: da Silvia Orlando a Elio Germano, da Fabrizio Gifuni a Silvia Gallerano, altri come Nanni Moretti, Sgarbi e Gassman ci hanno donato, secondo un’usanza tipica del teatro, la sedia in platea.

Posso affermare con orgoglio che oggi siamo riusciti a creare una compagnia che ha permesso di “coltivare” il nostro territorio, creando delle professionalità assenti prima nel nostro territorio; il cast attoriale e la troupe tecnica è infatti composta totalmente da enti molisani.

Il-Teatro-del-Loto-1

Perché ha scelto di adottare il nome di un fiore?

Nella cultura buddista il fiore del Loto è un fiore che nasce nella stagnazione e i suoi petali sono perfetti nonostante la matrice di melma da cui si formano, questo sta a significare che le cose più preziose si originano da ambienti spesso impervi e dai quali nessuno si aspetterebbe nulla di buono… Io poi l’ho utilizzato anche come acronimo di LIBERO OPIFICIO TEATRALE OCCIDENTALE.

Quanto tempo ha impiegato per la realizzazione del suo teatro?

Eh, ci ho messo ben cinque anni. Mi serviva anche del tempo per trovare i soldi! Penso però che ne sia valsa la pena perché ha reso più felice qualcuno; penso anche a molti attori della compagnia, come Giulio Maroncelli, che qui interpreta il servo, che è proprio cresciuto nel Loto, e come lui, così tanti altri, i quali sono entrati nella compagnia ancora liceali e ne sono usciti professionisti.

Siamo poi riusciti a farci riconoscere come Compagnia dal Ministero dei Beni e della Cultura, nonostante ci siano ancora delle difficoltà a gestire questo spazio, tipiche del mestiere.

Il Loto prevede dei corsi di formazione teatrale anche per bambini, c’è quindi una volontà di “investire” sulle generazioni future nonostante questo momento di crisi per il teatro e per tutta la cultura?

Direi proprio di sì, ritorna infatti il concetto di “arte per vincere”, l’arte per vincere le paure della propria vita, l’arte per vincere la propria condizione sociale, poiché se si ha talento nessuno può fermarti; certo, siamo in un Paese dove questo non viene riconosciuto, ma se lo si possiede ci si può allora permettere di “scappare”, di abbandonare qualunque condizione si abbia, sia essa di povertà o di ricchezza. Il talento, difatti, aiuta a vincere la vita, a superare i propri limiti, è l’unica possibilità, secondo me, nel mondo occidentale…

L’arte poi sta anche per mestiere, dunque l’Arte per vincere è l’industriarsi per vincere, il mettere in gioco se stessi, che è poi quello che fa qui Mirandolina e che dovrebbe fare anche questo Paese, dunque anche qui i bambini imparano a mettersi in gioco con loro stessi sin da subito.

È solo l’arte che consente di andare oltre al proprio limite, permettendo un riscatto personale e aiutando gli altri a stare bene. In fondo avrei potuto inserire come sottotitolo l’Arte per vincere appunto o l’Arte per essere felici e sarebbe stata la stessa cosa!

Adesso quali sono i suoi progetti futuri?

Subito dopo la Locandiera, mi accingo a interpretare Re Lear, attraverso uno studio sulla pazzia nella senilità del potere e nella famiglia. Mi auguro possa andare al meglio!

 

Martina Di Nolfo

 

 

ASTI TEATRO 38

Direzione Artistica: Comune di Asti

 

Mercoledì 29 giugno – ore 20

Giovedì 30 giugno 2016 – ore 19

 

presenta

in Prima Nazionale

 

una produzione

 

Teatro del LOTO

Libero Opificio Teatrale Occidentale

di TeatriMolisani – Ferrazzano CB

 

 

Silvia Gallerano (Mirandolina)

Claudio Botosso (Cavaliere di Ripafratta)

 

in

LOCANDIERA

o l’Arte di Vincere

di Carlo Goldoni

 

 

 

 

 

adattamento e regia Stefano Sabelli

 

con

Giorgio Careccia – Conte di Albafiorita

Andrea Ortis – Marchese di Forlimpopoli

Chiara Cavalieri – Ortensia

Eva Sabelli – Dejanira

Diego Florio – Fabrizio

Giulio Maroncelli – il Servo

Piero Ricci – il Fisarmonicista muto

 

scene Lara Carissimi

decorazioni sceniche Michelangelo Tomaro

costumi Martina Eschini

disegno luci Daniele Passeri

aiuto regia Giulio Maroncelli

foto di scena Mauro Presutti

 

Teatro Giraudi (Asti)

ORGIA: una spirale nevrotica di vita e di morte

«Orgia – rispondeva così Pasolini, nel 1968 – è il dramma della disperata lotta di chi è diverso contro la normalità che respinge ai margini, che rinchiude nel ghetto, è il rapporto tra diversità e storia».

icona_t

«La mia Orgia è la tragedia di chi non sa stare al mondo» risponde, invece, più sinteticamente Licia Lanera, regista, nonché attrice protagonista di questa revisione moderna, e a tratti un po’ punk, dell’omonima tragedia dello scrittore bolognese e fondatrice nel 2006, insieme al drammaturgo Riccardo Spagnuolo, della compagnia Fibre Parallele.

Ed è proprio quest’ultima a ridurre a uno la trinità del corpus pasoliniano, consegnando l’inadeguatezza e la difficoltà del vivere nelle mani e nel “cappuccio nero della felpa” dell’Uomo:

«Sono l’Uomo e la Donna perché io sono già quell’ambiguità, non c’è bisogno di travestimenti. La tragedia è di entrambi, solo la prostituta è totalmente inconsapevole del mondo. Il rapporto di potere, di carnefice e vittima, di dominio, tra marito e moglie, è però in fondo paritario, non lo è fisicamente ma mentalmente sì» spiega l’attrice.

I protagonisti vivono in due realtà: quella superficiale fatta dell’odore dei gelsi profumati, di sorrisi e di ingenuità e quella nuda e cruda della camera dei due sposi, dove si consuma ogni forma di piacere, di terrore, di rimorsi e di violenza, poiché quest’ultima è l’unico mezzo in grado di mettere in comunicazione le due fragili belve.

Una poltrona al centro del palcoscenico, un leggìo, un microfono – scelto appositamente dalla Lanera – per risuonare meglio, un cappuccio per trincerarsi e da tirare sopra la testa fino a coprire gli occhi; un’alternanza di luci e buio dove si muovono dei pesanti anfibi neri e un corpo irrequieto e pulsante che resta in ascolto della sua stessa voce registrata, riempiono il palcoscenico del Teatro Astra, che in occasione del Festival delle Colline Torinesi, ha ospitato la prima nazionale dello spettacolo.

image3

Nella rilettura della Lanera, dove carnefici e vittime si scambiano continuamente i ruoli, viene enfatizzata la tragedia della diversità, cara a Pasolini, insieme a quella della linguistica: in particolare viene enfatizzata la dicotomia tra linguaggio verbale (inesistente e frivolo) e linguaggio del corpo, con i suoi tratti barbari e animaleschi.

Il monologo finale dell’Uomo, che uccide la moglie-serva dopo aver messo in atto con lei pratiche sadomasochiste, vuole renderci consapevoli che la realtà intorno a noi è fatta di parole macchiate di menzogna, che addirittura ci vengono insegnate sin dall’infanzia; sono «parole, parole, parole che parlano», che riempiono le nostre cucine, i nostri luoghi di vita, le nostre camere da letto… parole che, in realtà, non hanno nulla da dire. Ricorrere alla violenza sembra ormai essere l’unico modo per l’Uomo di colmare questo vuoto, che lo porterà sino al suicidio: «Ho scoperto che c’era un qualcosa che mi tranquillizzava nel tenere la testa nel mio stesso vomito…».

Ed è soltanto grazie al suicidio, che egli raggiungerà la completa libertà. Durante i 60 minuti di spettacolo, infatti, la scenografia della Lanera muta via via forma, diventando sempre più grottesca, squallida e nauseante, quasi si stesse preparando un rito di morte, che è allo stesso tempo rinascita e vita.

La novità della messa in scena consiste, poi, nell’incursione dell’incalzante rap di Eminem e nell’apparizione di tre dipinti seicenteschi (Paesaggio con la Ninfa Egeria di Claude Lorrain, Maddalena in estasi di Caravaggio, Ila e le Ninfe di Francesco Furini), riprodotti dal pittore Giorgio Calabrese: immagini che permettono uno sdoppiamento della visione teatrale.

La voracità e la spregiudicatezza delle parole e dei movimenti di Licia Lanera, la sua crudeltà e la sua nudità scenica fanno del testo di Pasolini una “bomba a mano” in procinto di esplodere addosso al pubblico e di farlo riflettere su quanto sia estenuante vivere in un mondo dove i rapporti sociali altro non sono che rapporti violenti e di potere, in cui c’è sempre chi copre il ruolo di vittima e chi quello di carnefice, ma anche dove il carnefice è egli stesso vittima, quasi a rovesciare il concetto darwiniano di selezione naturale, dove a perdere e a vincere siamo tutti e non solo il più forte!

 

Martina Di Nolfo

 

ORGIA

Fibre Parallele

 

di Pier Paolo Pasolini

regia Licia Lanera

 

con Licia Lanera

e Nina Martorana

regista assistente Danilo Giuva

consulenza artistica Alessandra Di Lernia

luci Vincent Longuemare

costumi Antonio Piccirilli

dipinti Giorgio Calabrese

tecnico di produzione Amedeo Russi

organizzazione Antonella Dipierro

spazio Licia Lanera

 

produzione Fibre Parallele

coproduzione Festival delle Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Costing& Management

con il sostegno di L’Arboreto-Teatro Dimora di Mondaino

la compagnia è sostenuta dal MiBACT

Geppetto e Geppetto: biologia o sentimento?

 “Toni perché abbiamo desiderato così tanto avere dei figli, forse per paura di rimanere soli?”

“No Franca, no, i figli non si fanno per questo!”

Anche io – seppur nella condizione di  figlia e non ancora di genitore- confesso di essermi chiesta parecchie volte quale senso abbiamo noi figli per i nostri genitori e che senso ci sia nel desiderarci a tutti i costi. Avere figli  può essere emozionante,  talvolta può essere controproducente; il rapporto genitore-figlio non è sempre roseo, ci possono essere difficoltà economiche, ideologiche e pratiche, eppure sono sicura che qualsiasi madre sacrificherebbe la propria vita per quella del  figlio, senza esitazione!

Mi sono interrogata sulla tanto discussa “stepchild adoption” e se essa nasca  da un reale desiderio  d’amore o se, in fondo, non sia  un pretesto per affermare il proprio orgoglio omosessuale e i propri diritti in un paese, sotto molti aspetti, ancora ben poco al passo coi tempi. Il regista Tindaro Granata mi ha fatto capire,  pragmaticamente, che non c’è alcun senso, in realtà, nell’essere genitore e nell’essere figlio, esattamente come nell’amore: quando si ama qualcuno, lo si ama e basta, e si ama con esso la follia, il desiderio e le difficoltà che comporta. E così  succede nel rapporto tra genitori e figli.

GEPPETTO

Con una scrittura empatica e aderente alla realtà, Granata  porta in scena – in  prima nazionale alla XXI edizione del Festival delle Colline Torinesi –  Geppetto e Geppetto, la storia di Toni e Luca, due  uomini che si amano, e che sono disposti ad andare contro tutti e contro tutto per avere il figlio che tanto desiderano. Dopo qualche esitazione, partiranno  per il Canada, dove ricorreranno all’inseminazione artificiale tramite una “gravidanza per altri” (pratica  vietata nel nostro paese). Dopo il ritorno in Italia e un lutto imprevisto, il figlio Matteo dovrà fare i conti con la difficoltà che il crescere comporta; mentre Luca farà i conti con il rapporto travagliato che ha con il figlio, rapporto che,  solo nel  finale commovente,  troverà un suo positivo modo di esprimersi.

Una vicenda, quella di Geppetto e Geppetto che,  a partire dalla    favola di Collodi, cita un celeberrimo padre  single, Geppetto appunto. Come ha spiegato, Granata non si schiera né “pro” né “contro” la questione, ma  racconta  la “semplice” storia di un papà che vuole fare unicamente il papà e di un figlio che vuole fare il figlio… “Se solo ci fosse  più amore” ripete spesso ironicamente Luca, interpretato dallo stesso Granata,  ci sarebbero meno problemi!

Estremamente attuale è dunque il tema dello spettacolo che richiama la  legge Cirinnà (tanto criticata da una parte, tanto attesa dall’altra) su unioni civili e convivenze, legge infine approvata  dopo un lungo iter.

“Ho rubato pensieri e ignoranza dalle persone; ho rubato loro paura, dolcezza, rabbia, intolleranza, odio e amore. Ho annotato sulla linea ferroviaria Cosenza- Milano Centrale punti di vista e luoghi comuni” spiega Granata , “così sono salito sui tram, ho incontrato persone, mi sono finto un giornalista per raccogliere riflessioni di madri e di donne spaventate da questa tecnica che prevede un utero in affitto”. Esempi lampanti sono infatti la figura di Franca (Alessia Bellotto), l’amica di famiglia e la maestra elementare di Matteo (Lucia Rea per la prima volta sul palcoscenico).

COLLINE-GEPPETTO%20E%20GEPPETTO

Efficace, nella sua semplicità,  la scenografia: un tavolo al centro della scena e  sedie lungo i lati del palcoscenico. I costumi sono  magliette nere con dei nomi attaccati, che via via si staccheranno durante i 90 minuti dello spettacolo, perché la volontà della regia è quella di dare voce a personaggi, focalizzando  l’attenzione sul dinamismo delle situazioni più che sulla realtà statica dei caratteri.  Non manca poi un’attenta riflessione sui  diversi tipi di famiglia di oggi. Granata  ne mette a confronto tre. Quella cosiddetta normale di Walter, caro amico di Matteo, preoccupata unicamente dell’agognato “posto fisso” in azienda, scordando così le reali attitudini del figlio; quella a stampo “matriarcale” di Lucia, alla quale è mancato un padre, e quella “strana”, forse la più invidiata, e forse la più bella nonostante i problemi, di Matteo Luca e Toni.

Quest’ultima si scontrerà con la madre di Toni (Roberta Rosignoli) che metterà in discussione il rapporto con il figlio poiché totalmente contraria al modo in cui dovrà nascere Matteo: “Non è che uno può pensare una cosa e poi la fa! I figli sono una cosa seria…siamo animali che amano”.

A fare da “intermezzo musicale” allo spettacolo ci sono frammenti registrati durante il Family Day del 30 gennaio scorso, che riportando voci distoniche e opinioni dei manifestanti, voci  che paiono aggredire la platea!

Per concludere, sono stati invitati a raccontare la propria esperienza, due “Geppetti” in carne ed ossa: Francesco e Piero, due uomini che, come Toni e Luca, si amano e che stanno lottando  per avere un figlio, ben consapevoli delle difficoltà di crescerlo. I figli sono una cosa seria e i genitori lo sono altrettanto per la nostra identità di figli; quando si parla di avere due padri o due madri, di affittare un utero, non so dove stia la ragione, cosa sia davvero giusto e cosa sbagliato, ma forse dovremmo togliere a questa questione un po’ di biologia e metterci un po’ più di sentimento: in fondo anche un nonno, una nonna, un amico, un cane o gatto possono essere la nostra famiglia. Tutti sbagliano, tutti amano, tutti odiano e tutti hanno diritto ad avere diritti. Se  poi a far da mamma è un padre e far da padre è una mamma forse poco importa, no?

 

Martina Di Nolfo

 

Geppetto e Geppetto

Scritto e diretto da Tindaro Granata

Con Alessia Bellotto, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Carlo Guasconi, Paolo Li Volsi, Lucia Rea, Roberta Rosignoli.

Coproduzione: Teatro Stabile di Genova, Festival delle Colline Torinesi, Proxima Res.

Regista assistente: Francesca Porrini

Allestimento: Margherita Baldoni

Luci e suono: Cristiano Camerotti

Movimento di scena: Micaela Sapienza

La Merda: “mettersi a nudo” e non solo metaforicamente…

Ricurva. Bianca. Il piede sinistro gioca contro la gamba dell’alto sgabello situato al centro del palcoscenico. Buio. Seduta su quest’ultimo c’è una donna, completamente nuda.

Nuda e cruda come la scenografia: praticamente inesistente. Nuda contro tutti inizia a canticchiare e poi… luci.

“Ci vuole coraggio”: sono le forti parole pronunciate da una voce tremula – a tratti un pò infantile -ad aprire il monologo di una giovane “rivoluzionaria” che non spicca particolarmente per la sua bellezza ma che tenta con ostinazione, grinta e un pizzico di ingenuità quasi commovente, di aprirsi un varco nella Società delle Cosce e della Libertà.

Un coraggio che farà da leitmotiv in tutti e tre gli atti di questo testo d’esordio di Cristian Ceresoli, pluripremiato e vincitore del Fringe First Award 2012 for Writing Excellence.

Un monologo pungente, attuale, esilarante e a tratti provocatorio, il quale vede come protagonista un’energica e dinamica Silvia Gallerano (vincitrice dello Stage 2012 for Acting Excellence) che tra una risata e una riflessione, grida addosso al pubblico un urlo di denuncia al pantano massmediatico di oggi; ci sputa con estrema franchezza e pochi sofismi tutta “la merda” ingoiata pur di entrare a far parte nel mondo dello spettacolo. Nella società “che conta” è l’apparenza a regnare sovrana. La giovane donna, infatti, è persino disposta ad ingrassare sino ad esplodere pur di diventare qualcuno, e apparire in una pubblicità che “sì mamma, ma certo che andrà in televisione, mamma!”.

Silvia-Gallerano_La-Merda

Per l’intera performance, la nostra eroina muterà la voce cambiando così la maschera: dal suicidio del padre, ai complessi per le cosce un pò grosse e per la bassa statura; dalla querela verbale contro svariati tipi di razzismo, – verso il sesso femminile e verso i disabili e la loro realtà di esclusione dalle classi scolastiche-  all’ossessione di far colpo, in particolare sulla madre, e “diventare alta” cosicché: “metti che sono in coda, in auto, e qualcuno dal finestrino mi riconosce chiedendomi se sono proprio io quella della… posso rispondere: oh sì certo che sono proprio io!”, la nostra “Anita Garibaldi” ci guida, per sessanta minuti, in questa feroce rivoluzione teatrale.

A far da colonna sonora, un insolito Inno di Mameli, che elogia tra l’altro, le eccellenti doti canore della giovane ribelle in questione. Più agguerrita dell’eroina sofoclea Antigone, la Gallerano si aggiudica il titolo per la nuova Molly Bloom del ventunesimo secolo grazie al flusso di coscienza e al suo soliloquio, teso a liberarsi di certi scheletri nell’armadio, via via più scomodi, e vittime di superficialità.

Dopo aver vinto l’oscar del teatro europeo e registrato parecchia accoglienza tra un pubblico di tutte le età, La merda, è ritornato al Teatro Colosseo, uno dei teatri più importanti sulla scena torinese, nonostante una sottile e persistente censura.

 

LA MERDA

Di Cristian Ceresoli

Con Silvia Gallerano

Una produzione Frida Kahlo Production con Richard Jordan Productions.

Produzioni Fuorivia

In collaborazione con Summerhall (Edinburgh) e Teatro Valle Occupato (Rome)

Produzione esecutiva e Tour Managing: Nicole Calligaris

Grafica: Marco Pavanelli

Tecnico: Giorgio Gagliano

Regia: Cristian Ceresoli

 

Martina Di Nolfo

 

 

 

 

AFTER SHAKESPEARE: SALVATE DESDEMONA di Lidia Ravera

he fine hanno fatto gli eroi narrati dal calamo Shakespeariano?

Ce lo raccontano sei autori (Nicola Fano curatore del progetto “After Shakespeare”, Lidia Ravera, Alberto Gozzi, Lia Tomatis, Sergio Pierattini, Donatella Musso) che con sei spettacoli in progress dal 26 febbraio al 22 aprile in prima assoluta, presso il Teatro Astra, portano in scena i frutti di un lungo laboratorio di scritture e analisi critiche per celebrare i quattrocento anni dalla morte del bardo.

Salvate Desdemona per la regia di Alberto Gozzi, è il secondo di questi imperdibili appuntamenti. Ambientato durante gli anni di piombo, in piena esplosione del femminismo militante, tra collettivi politici, occupazioni, manifestazioni e picchetti fuori dalle fabbriche, Gozzi insieme a Lidia Ravera, porta in scena una mise en abîme dell’ Otello del drammaturgo inglese, che conserva un’incredibile attualità a distanza di secoli.

Shakespeare infatti fu uno dei primi autori del tempo a comprendere il ruolo di vittima della donna, cercando di spiegarne la causa. Impossibile dunque, citando un’opera del genere, non parlare di femminicidio, ancora oggi ampiamente praticato. Lo spettatore è dunque invitato a riflettere su un tema ancora molto caldo e irrisolto, quello della violenza sulle donne.

Nella sceneggiatura della Ravera, Desdemona è una ragazza colta, amante del teatro e politicamente impegnata, che ha rinunciato ai suoi agi per vivere con il suo sposo Otello, un operaio burbero, che ha abbandonato il caldo sud Italia per trasferirsi nel capoluogo piemontese, dove lavora come operaio della Fiat.

Il loro rapporto è però minato da un’esasperante gelosia, “mostro dagli occhi verdi che dileggia la carne di cui si nutre”. Otello è infatti convinto che sua moglie lo tradisca, prova ne sarebbe un fazzoletto, sostituito per questo riadattamento con un cd, tanto caro ad Otello perché donatogli dalla madre appassionata di lirica, che Desdemona impresta a Cassio.

Il vaso di Pandora si apre: accecato dalla rabbia, ebbro di una follia quasi ariostesca, Otello si trasforma in una bestia che tenta di affondare i suoi artigli nel candido collo di Desdemona, la situazione quindi precipita sempre di più. Riuscirà la nostra protagonista a destabilizzare il furore omicida del marito, mettendo in salvo la propria vita?

SALVATE DESDEMONA

È la giovane Selene Baiano, membro dell’equipe artistica della Fondazione Teatro ragazzi e giovani di Torino, a vestire i panni di Desdemona, Otello è invece interpretato da un graffiante Alessandro Lussiana, diplomato nel 2006 presso la Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Torino (impegnato anche nel cinema, nella televisione e nel doppiaggio), che per alcuni tratti sembra reincarnare una personalità rude e incisiva alla Gian Maria Volonté ne La classe operaia va in paradiso di Elio Petri.

Per chi fosse interessato e non avesse avuto il tempo di andare a teatro, il 23 e 24 aprile, nella prestigiosa sede del Circolo dei Lettori di Torino, verranno riprodotte in due mini-maratone sceniche, a partire dalle ore 19, tutte e sei le rappresentazioni. Il 23 aprile La signora di Shakespeare, Il sogno di Bottom e Lady M; il 24 aprile Salvate Desdemona, Puck e l’allodola, e A losing suit.

AFTER SHAKESPEARE/ Salvate Desdemona

Di Lidia Ravera

Con Selene Baiano e Alessandro Lussiana

Scene e costumi: Barbara Tomada

Luci: Mauro Panizza

Regia di Alberto Gozzi

FONDAZIONE TEATRO PIEMONTE EUROPA

Martina Di Nolfo