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MASCULU E FìAMMINA: UNA CONFESSIONE GENTILE

Masculu e Fìammina è un monologo che utilizza il potere dell’immaginazione per trasportare lo spettatore nella storia di Peppino, uomo semplice di un paese imprecisato della Calabria. Basta poco. La scenografia è minimale: un cerchio di neve, una lapide innevata, la fotografia della mamma, la colonnina su cui si siede l’uomo, non prima di avervi appoggiato un cuscino bianco. Tutto è bianco e grigio. Bianca la neve, bianco il cuscino, grigie la lapide e la foto, grigi i capelli di Peppino. Un solo puntino rosso a scaldare il quadretto: la rosa che ripone con cura davanti alla lapide.

Saverio La Ruina ha scritto un testo che arriva al cuore, lo stringe, lo accarezza, lo scalda e lo solletica suscitando persino il riso tra i toni tristi e malinconici dominanti. Non mancano nemmeno slanci di gioia nei “ricordi belli a metà” che il protagonista condivide d’inverno con Nina, sulla panchina sotto le fronde degli alberi e che ripete alla mamma, nel cimitero. Il tutto è recitato con una coloritura dialettale che affonda le radici nel retroterra linguistico e culturale dell’attore-autore, comprensibile anche alle orecchie meno avvezze alle parlate del sud.

La mamma di Peppino non c’è più, ma è come se fosse presente davanti a lui col “vestito fiorato, che mette il buon umore”. La vediamo anche noi, per come lui le parla. Se la immagina in viaggio verso il paradiso, forse ormai in coda con la valigia in mano ad aspettare il suo turno per parlare con San Pietro, che vaglia all’ingresso: “Tu sì. Tu no. Tu aspetta.”
Nessuna lacrima per la madre, solo una normale, quotidiana chiacchierata che poi si trasforma in confessione. Con lei si confida, si scusa e la ringrazia. Per la prima volta le dice apertamente di essere omosessuale. E’ una liberazione. Si scusa per non aver avuto il coraggio di dirglielo prima, anche se, ne è certo, lei l’aveva già capito da tempo e mai gliel’aveva fatto pesare. La ringrazia per ciò che in vita gli ha detto, per le parole pacate che ha usato, per il rispetto che ha nutrito nei suoi confronti: il rispetto è qualcosa che si ha, non si impara a scuola – dice Peppino-Saverio – l’istruzione non c’entra, così come non c’entra l’ignoranza. Alla mamma è bastata la terza elementare per averlo.

Peppino inizia quindi a ripercorrere le tappe del difficile percorso di auto-accettazione, tramite cui ha preso coscienza della propria omosessualità, passando poi per i primi amori, le delusioni, gli insulti, l’adesione a gruppi comunisti degli anni ‘70 (come Lotta Continua o Collettivo Karl Marx) che portano in paese un’ondata di libertà, ma anche di ipocrisia, fino ad arrivare ad un Segreto ancora più grande, dalle tinte macabre, che lo consuma da anni e per cui gli “piange non solo la faccia, ma il corpo intero”.

La storia di Peppino è fatta di immagini vivide. In un flusso di coscienza Saverio La Ruina fa riaffiorare una serie di episodi che intrecciano la sua vita con quelle di altri personaggi:

Nina, l’amica uscita dalla Banda della Magliana
Gino, il primo omosessuale del paese
Enzo, il compagno di scuola dal dolce sorriso
Pina, “che è partito masculu ed è tornato fìammina
Angelo, di nome e di fatto
Alfredo, il grande amore da Treviso
Vittorio, amico schietto e provocatorio
Saro e Marietto, i travestiti fatti Santi

Alcune delle loro storie finiranno in tragedia, segnando profondamente l’animo di Peppino. Non tutto però è frutto della fantasia dell’autore. Nella Mezz’ora con l’attore (momento del Festival dedicato al confronto con gli artisti) Saverio La Ruina ci rivela che molti dei personaggi sono stati costruiti a partire da esperienze personali reali di conoscenti e da cronache.

Masculu e Fìammina, con Saverio La Ruina. Foto ©Masiar Pasquali

Dolcezza, gentilezza, rispetto, autenticità sono concetti a cui l’attore-autore sembra tenere molto e che tornano più volte nel monologo, dando vita a spunti di riflessione, come quello sulle parole. Più che le persone, sono le parole che fanno paura, sia a chi le dice, sia a chi le riceve. Omosessuale, checca, frocio, fru fru, ricchione dette con tono spregiativo sottintendono l’idea di invertito, anormale, malato, diverso dall’uomo in quanto essere umano. Così accade che per chi ama una persona dello stesso sesso sia difficile riconoscersi come tale davanti ad uno specchio, frenato da pregiudizi sociali. Peppino racconta di essere riuscito a definirsi omosessuale, nel momento in cui ha realizzato che il principio che porta ‘nu masculu ad amare ‘na guagliuna è lo stesso che porta ‘nu masculu ad amare ‘nu masculu. Ecco che allora Peppino trova istanti di libertà ed autenticità stando nudo, solo, in spiaggia dove si vedono “solo pìetre, pini e ginestre” poi “mare e cielo” e“di nuovo pìetre, pini e ginestre”.

Ma Peppino è stanco. Si convince che Angelo, di nome e di fatto, ha ragione: in un paese come il loro avrebbero dovuto aspettare almeno cent’anni perché le cose cambiassero. Ha sentito che un uomo ibernato nella neve può rimanere intatto per anni e anni, allora si siede di fianco alla tomba della madre e sullo scontrino della rosticceria scrive: “svegliatemi quando il mondo sarà un po’ più gentile”, magari un mondo in cui la parola “ricchione” vorrà dire semplicemente “uomo dalle grandi orecchie”. E aspetta, con le mani nella neve.

Alessandra Minchillo

Festival delle Colline Torinesi XXII Edizione
Teatro Astra –18 giugno 2017
Masculu e Fìammina

di Saverio La Ruina
regia Saverio La Ruina

con Saverio La Ruina
musiche originali Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia Cecilia Foti
scene Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo
disegno luci Dario De Luca e Mario Giordano
audio e luci Mario Giordano
organizzazione Settimio Pisano

produzione Scena Verticale

L’INSONNE: MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

Il tempo si lacera […] Le stagioni hanno perduto il loro significato. Domani, ieri, che vogliono dire queste parole? Non c’è che il presente […] Tutto ciò è adesso. Non è stato, non sarà. È. Sempre. Tutto insieme. Perchè le cose vivono in me e non nel tempo. E in me tutto è presente.

Con un’eco quasi bergsoniana cala il sipario sullo spettacolo che Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli hanno liberamente tratto da Ieri, romanzo della scrittrice ungherese Agota Kristof.

Partire dalla battuta finale è quantomai appropriato: questa è infatti una storia di riemersione

Tobias nasce in un villaggio senza nome e trascorre la sua infanzia all’ombra della madre, la prostituta del paese. Un giorno, quando tra i tanti uomini che frequentano la casa individua suo padre, prende un coltello e glielo affonda nella schiena con l’intento di uccidere anche la madre, stesa sotto di lui. Tobias è allora costretto alla fuga. Cambia identità: diventa Sandor e lavora in una fabbrica di orologi. La sua giornata è un susseguirsi di gesti vuoti, l’unica cosa che pare confortarlo è la scrittura. Scrive e si rifugia nell’ ossessionante attesa di Line, una donna appartentente al passato e affidata all’immaginazione. Un giorno però Line arriva. I due si riconoscono e si amano di un amore impossibile. Potrebbe essere l’inizio di un futuro diverso, ma il passato grava sui due amanti con il suo limite di invalicabilità. Line infatti ha un terribile segreto: è la sorellastra di Tobias… ma non lo sa.

coppia

La narrazione della storia non è lineare, ma costruita su continui dislivelli. Il tempo permea di sè l’intera vicenda, senza tuttavia mai lasciarsi delimitare. I contorni sfumano in suggestioni oniriche, la percezione sfugge, tutto si fa dilatato, confuso. Passato e futuro sono entrambi destinati a confluire nel presente sotto forma di ricordo e immaginazione.

La commistione dei livelli temporali è resa con straordinaria efficacia dall’organizzazione dello spazio scenico e dalla modulazione della luce.

Al centro del palcoscenico un cubo, le cui pareti consistono in pannelli semitrasperenti. All’interno del cubo una stanza con un letto e un tavolo, all’esterno il vuoto. I due attori padroneggiano indistintamente entrambi gli spazi. Questa contrapposizione interno-esterno permette l’alternanza di scene agite e scene narrate e si presta meravigliosamente alla resa scenica di un viaggio tutto giocato sull’accavallarsi di temporalità differenti.

La luce è altrettanto fondamentale, perchè diventa la guida di questo viaggio. Dietro al cubo un faro mobile si sposta di continuo creando suggestivi effetti d’ombra. Seguire il fascio di questa luce è come seguire la memoria nel suo impietoso scandagliare. Le zone illuminate sono le zone del ricordo, l’oscurità invece pertiene all’oblio.

spazio

Impossibile non cogliere il riferimento alla psicanalisi. Non tanto perché il vissuto di Tobias richiama il più classico dei complessi, quello edipico, quanto perchè è lo stesso spettacolo ad assumere – fin dall’inizio – le sembianze di una seduta psicanalitica. Il tutto costruito con grande intelligenza. Non c’è l’assurda pretesa di psicanalizzare un personaggio della finzione, ma la volontà di mostrare un percorso di riemersione nel suo fluire disordinato.

La fantasia dei drammaturghi ha valorizzato la sapiente tessitura del romanzo. Il testo viene rispettato nei suoi snodi principali e nell’uso di una prosa asciutta, messa in risalto da una recitazione mai sopra le righe.

Ad essere riproposti con fedeltà anche i richiami autobiografici che costellano l’opera. La Kristof condivide con i suoi personaggi un destino fatto di fuga dalla patria e ossessione per la scrittura. Scrivere rappresenta per entrambi il tentativo di raccontare la propria storia.

Per Tobias la funzione salvifica della scrittura si carica di un valore aggiunto. È la forza che alimenta l’attesa della donna amata.

In fondo, amare e scrivere altro non sono che due facce della stessa medaglia, perchè fermano il tempo.

Cecilia Nicolotti

L’INSONNE

di Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
regia Claudio Autelli

liberamente tratto da Ieri di Agota Kristof
drammaturgia Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
con Alice Conti e Francesco Villano
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
luci Simone De Angelis
suono Fabio Cinicola
responsabile tecnico Giuliano Bottacin
assistenti alla regia Piera Mungiguerra e Andrea Sangalli
voce registrata Paola Tintinelli

co-produzione Lab121, CRT Milano
spettacolo vincitore In-Box 2015
selezione Visionari Kilowatt Festival 2015
presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo

 

Una Monica al bacio

di Matteo Tamborrino

«Nacqui nei ’70 e giunsi in anni cupi,/ libero lo spirto mio com’è quello dei lupi./ Da subito in fattezze de masculo/ sentii smover, de drentro,/ l’intensa femminina forza,/ la scorza,/ ch’el tempo avrebbe trasmutato/ in delicata movenza,/ in gentile essenza de bambino/ che l’ambigua carta porta,/ ma ancor senza difesa,/ alfin non resta che la resa;/ lo pensiero dello sbaglio,/ il nascondiglio,/ la lacrima sul ciglio,/ al voler sentire che forte preme/ lo desiderio de svelar/ il sommovimento,/ lo stordimento, de scoprir la direzione/ c’agli altri par sbagliata» (da L. Fontana, Monica Bacio. Frammenti per un monologo)

Lorenzo Fontana/Monica Bacio
Lorenzo Fontana/Monica Bacio

Abbiamo sentito parlare spesso, negli ultimi mesi, di questa bionda squinternata Monica, e ora, finalmente, l’abbiamo conosciuta.

DSC7686-1024x682La creatura teatrale di Lorenzo Fontana  – ispirata a un personaggio del drammaturgo canadese Michel Marc Bouchard – è nata da un  articolato percorso creativo e ha avuto il suo  debutto  ufficiale al Teatro Astra di Torino: «Negli anni – spiega Fontana nelle note di regia – [Monica] è diventata il mio alter ego. Quando ho iniziato a scrivere questa storia, fortemente autobiografica, ho capito subito che mi serviva un tramite per raccontarla e mi è sembrato che la Bacio fosse lì apposta. Ho scritto il lamento di Monica perché credo che sia importante riconoscere il diritto di crescere diventando quello che sentiamo di essere davvero, nel modo più autentico possibile. Quando siamo piccoli c’è sempre qualcuno che pensa di sapere cosa sia giusto per noi, ma quello che è giusto per noi già lo sappiamo, abbiamo solo bisogno di essere accompagnati nel nostro viaggio di costruzione dell’identità».

Il lamento, ovvero le lacrime, di Monica Bacio è un esempio di ottima scrittura scenica.  Un prodotto, anzi no, un’opera preziosa, rara, vera. I versi accarezzano l’orecchio e giocano con la mente. È la potenza della lingua,  dell’italiano nella sua proteiforme beltà, da far andare in “brodo di giuggiole” file intere di letterati. Non è mai la parola stantìa e polverosa delle rappresentazioni da m(a)us(ol)eo. È la parola musicale di un teatro poetico, ma poetico per davvero. E non solo perché in rima.

Fontana_Manescalchi_JudicaOvviamente nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza un buon cast. In scena il collaudatissimo trio Fontana-Manescalchi-Judica Cordiglia. La pièce ripercorre varie fasi di crescita del protagonista, dall’infanzia all’età adulta, passando per l’adolescenza. Quadri che dipingono situazioni, emozioni, pensieri: la sfilata casalinga in tacchi alti, la partita di calcio, il giardinetto della foia, il bagno turco. La Creante/Manescalchi dà sostanza e azione ai Memoires di Monica/Fontana; a punzecchiare la narrazione intervengono la voce e le mani (e a un certo punto anche il corpo) di Giancarlo Judica Cordiglia, per lo più nei panni (o meglio nei volti) dei genitori.

Di fronte allo spettatore uno svettante cono fucsia adorno di toppe e finti seni, due cespugli, un pallone, una panchina, una parrucca luminescente. Il tutto racchiuso da un buio quasi onirico, da chiar di luna. Quella stessa Luna cacciatrice, con cerchietto e arco, che comparare all’inizio dello spettacolo. La scena, a dire il vero, ci coglie impreparati: forse – stando a quanto Monica aveva lasciato intendere su Internet – ci saremmo aspettati più kitsch, più esuberanza, più ostentazione. E invece no. Il gioco è sempre leggero, mai violento o invasivo. L’incanto delle ombre, poi, è particolarmente evocativo.  Si scherza sì, ma sempre con eleganza. E con il sottofondo di Mina. Non c’è mai la risata sguaiata da spogliatoio. Anche l’allegra falloforìa che a un certo punto invade il palco non è volgare. Perché dietro c’è sempre la storia di “Monica”, che non si piange addosso, ma ci aiuta a riflettere.

E quindi, Monica, tra una copertina di Vogue e il nuovo spot di Pasta Diluvio, continua a “lamentarti”!

IL LAMENTO, OVVERO LE LACRIME, DI MONICA BACIO-
(Prima Nazionale – 16/6/2016, Teatro Astra – Torino)
di Lorenzo Fontana
regia Lorenzo Fontana
con Olivia Manescalchi, Giancarlo Judica Cordiglia e Lorenzo Fontana
scene Paolo Bertuzzi
costumi Viola Verra
light designer Cristian Zucaro
sound designer Luca Vicinelli
direzione tecnica Alberto Giolitti
presentato in collaborazione con Fondazione Teatro Piemonte Europa nell’ambito di Scene d’Europa

Verità nascosta da una farfalla

Ieri è andato in scena 1983 BUTTERFLY, spettacolo della “Piccola Compagnia della Magnolia” in prima assoluta al Festival delle colline.

Il lavoro narra la storia di Bernard Boursicot e Shi Pei Pu, persone realmente vissute, in maniera molto intima, raccontando e mettendo in scena pagine del diario di Boursicot.

Un giovane contabile francese, in viaggio per lavoro nella Pechino del 1962 incontra un cantante d’opera, Shi Pei Pu, che si è appena esibito nella “Madame Butterfly”. Nonostante si dica che i cinesi odino la Butterfly come opera perché vi ritrovano l’oppressione dell’uomo occidentale sulla donna orientale, Bernard trova che in Shi ci sia qualcosa di speciale.
Tra i due nasce un sentimento, Shi gli racconta che in realtà è una donna, avranno un figlio insieme. Andranno a vivere in Francia tutti e tre.
Bernard inizierà a passare documenti francesi alla Cina per poter proteggre la sua famiglia.
Qualcosa smuove l’apparente felicità che c’è in questa sorta di famiglia. Un’accusa di controspionaggio. Una rivelazione che sconvolge tutto.

Lo spettacolo è realizzato da due soli attori.
I due si scambiano i ruoli di sesso, Davide Giglio interpreta Shi, Giorgia Cerutti interpreta Bernard. Devo ammettere che magnolia foto repertorio 1per la prima parte dello spettacolo la cosa mi ha turbato. Mi chiedevo il perchè di questa scelta. Ma, a un certo punto, sono le stesse parole del diario di Bernard a spiegarci che la sessualità non ha importanza. A fronte di ciò, ritengo che gli attori abbiano giocato molto bene su questo aspetto e abbiano saputo sfruttarla per una resa scenica ancora più di impatto.
Non ho apprezzato molto però l’uso dei microfoni. Mi sembra che servissero puramente per amplificare la voce e non per creare effetti particolari. E’ vero, i due attori hanno camuffato la voce per tutta la durata dello spettacolo, però sono ancor dell’idea che in teatro la parola debba arrivare senza mezzi intermediari.
Altro protagonista è lo schermo : stretto e a tutta altezza, ci mostra i fatti, ci porta da un luogo all’altro, da un anno all’altro, permettendo così alla compagnia di usare una scena molto essenziale e pulita. Un pavimento bianco, un bancone rosso, sei candele : tre a un capo del bancone e tre dalla parte opposta.
La storia di per sé è molto cruda, ma racchiude un non so che di poetico. Negli anni passati era già stata portata alla luce e i protagonisti resi immortali da un film . Ma grazie al teatro si è potuto rinnovare questa poesia e libertà delle proprie scelte che porta a un destino triste e infelice.

Elisa Mina

 

di Giorgia Cerruti
regia Giorgia Cerruti

assistente alla regia Cleonice Fecit
con Davide Giglio e Giorgia Cerruti
scene e luci Lucio Diana
costumi Gaia Paciello – atelier Pcm
musiche Giorgia Cerruti – Cleonice Fecit
organizzazione Giulia Randone

produzione Piccola Compagnia della Magnolia, Festival delle Colline Torinesi

Jerusalem: la pièce di piombo (fuso)

di Matteo Tamborrino

“Il Consiglio di sicurezza […] esorta le parti israeliana e palestinese e i loro leader a cooperare[…]. Decide di continuare a seguire con grande attenzione la questione” (da Risoluzione ONU n. 1397/2002). Questione. È un termine che raggela, soffoca, come piombo fuso. Che scende dritto nei polmoni.

Ruth Rosenthal in scena
Ruth Rosenthal in scena

Jerusalem Cast Lead (premio giuria come miglior performance all’Impatience Festival di Parigi nel 2011) è il battesimo torinese di Winter Family, duo di musica sperimentale franco-isrealiano nato dodici anni fa dall’incontro artistico tra Ruth Rosenthal e Xavier Klaine, fucina di molti spettacoli di teatro documentario, sempre proposti in spazi non convenzionali. Dopo aver fatto il giro del mondo – dall’Europa in Israele, dal Giappone in Canada – Ruth & Xavier approdano sul palco dell’Astra, con il loro “rotacistico” agitprop dai toni rochi.

Lo spa901504_518678041528409_1330654207_ozio scenico, albino, somiglia a un foglio piegato: due facce perpendicolari, con la metà verticale che – all’occasione – si trasforma in grande schermo, atto a resuscitare grandi celebrazioni di massa, canti melanconici e danze folkloristiche di un passato ancora prossimo. Figure virtuali a cui l’ombra della performer puntualmente si mescola. Quello che si coglie non è però un candore puro, immacolato, rasserenante, bensì un bianco freddo, livido, da obitorio (su cui giocano perfettamente le luci, ora abbaglianti, ora più fioche).

Quattro casse, qualche microfono, una Coca e un tramezzino. E poi file ossessive di bandiere, stelle ciano incastonate in un manto interrotto di tallèd. La Rosenthal ha un vestito scuro, casalingo, di quelli che si vedono nei documentari sulla Seconda Guerra Mondiale, mosso da un’indecifrabile fantasia; e poi trecce da bambina; e scarpe da ginnastica con la suola violetta. Questa la cromia della pièce: una “limpidezza sporca” che nasconde mostri di piombo. I mostri della storia. Il timbro sonoro è penetrante, fende i timpani; i movimenti sono geometrici, perlustrano tutto lo spazio disponibile. La protagonista si barrica sempre più dietro fragili mura simboliche. È davvero una sintesi allucinata nella sua cruda realtà, oppressiva e mai dispersiva.

Ma che cosa c’è, dentro? «In occasione dell’anniversario della formazione dello stato di Israele e della riunificazione di Gerusalemme nel 2008 – racconta il programma di sala – i Winter Family incidono a Gerusalemme il brano Jerusalem Sindrome per la radio France Culture. Ruth Rosenthal e Xavier Klaine decidono di sviluppare e approfondire questo lavoro e di creare una performance di teatro documentario: così nasce Jerusalem Cast Lead. Fra il 2009 e il 2010 Ruth e Xavier documentano le cerimonie commemorative nazionali nelle scuole, nei quartieri, in un gran numero di luoghi simbolici di Israele. In scena la stessa Ruth guiderà il pubblico in un viaggio nella società israeliana attraverso suoni, immagini e testi che celebrano il dolore, la memoria e il coraggio. I simboli di questi elementi permeano la vita quotidiana degli israeliani, che ne sono sopraffatti, quasi, come recita il sottotitolo, come vivessero sotto una dittatura emotiva».

Con codici volu541916_684599334936278_965661395_ntamente semplificatori, Winter Family cammina, o meglio saltella, sul filo sottile che separa il sionismo collettivo, fatto di tradizioni comunitarie e pillole di memoria storica (prima fra tutte la shoah, che si materializza in cinque candele che si specchiano), dagli atti esecrandi di una società che viene smascherata, senza retorica ma anche senza pietà, nelle sue manipolazioni. Si tratta di una vera cecità visiva e cognitiva. “Gli insegnanti – ripeto parafrasando – ci portavano a vedere i kibbutz. Ci dicevano soltanto che una volta avevano nomi arabi. Noi non indaghiamo oltre”.

Due elenchi risuonano nelle orecchie degli spettatori: la sequela dei bambini sterminati nei lager da un parte, i prénoms dolceamari delle operazioni militari israeliane dall’altra: Colonna di nuvola, Arca di Noè, Grappoli della collera, Piombo fuso. Oferet Yetsukah. Cast Lead. Le scritte e i sopratitoli, che leggiamo con foga e con un po’ di alienazione (per via della scomoda posizione dei due schermi), non ci possono lasciare impassibili. L’animo – alla fine – è un po’più scuro, meditabondo. Plumbeo.

 

JERUSALEM CAST LEAD. HALLUCINATORY TRIP IN AN EMOTIONAL DICTATORSHIP
di Rosenthal & Klaine
regia Rosenthal & Klaine
idea originale, registrazione, regia e progettazione Winter Family (Rosenthal & Klaine)
con Ruth Rosenthal
suono e video Xavier Klaine
disegno luci e direzione tecnica Julienne Rochereau
tecnico del suono Sébastien Tondo
voci Marilee Scott & Brian Gempp
collaborazione artistica Yael Perlman
produzione Winter Family e ESPAL du Mans
residenza creativa Ferme du Buisson e Fonderie au Mans
versione francese con sopratitoli in italiano
traduzione a cura di VIE Festival Modena

Reality: i diari di Janina Turek

Cosa darei ogni tanto per essere morta, anche solo per cinque minuti”

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Una donna e un uomo inscenano una morte, provandola e riprovandola, cercando di renderla più “realistica” possibile, badando tuttavia a dettagli plateali quali una ciocca di capelli sul volto o la posa che assume un corpo privo di vita una volta caduto a terra. Da questo studio incomincia la storia di Janina Turek, partendo proprio dalla sua morte, avvenuta all’età di 80 anni a causa di un infarto, per le strade di Cracovia.

Subito le lancette del tempo vengono spostate indietro, nel febbraio 1943, poco dopo Continua la lettura di Reality: i diari di Janina Turek

Roberta Cade in Trappola: Viaggio verso il pianeta G570

Stanza piccola, buia.

Al centro, una scrivania, una pila di diari, un microfono, un bicchiere d’acqua, due attori, una piantana, una videocamera, un libro, un registratore.

Dai nastri escono rumori, suoni, canzoni di un tempo, voci.

Questo spettacolo inizia con un numero di magia!

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