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Elvira (Elvire Jouvet 40)

“Il teatro è una cosa dello spirito e un culto dello spirito”, così Louis Jouvet pensando al perché si fa teatro e che cosa spinge un attore a entrare in questo mondo misterioso e affascinante. 

Brigitte Jacques traendo spunto dal saggio di Jouvet Molière et la comedie classique (1965, Gallimard), scrive questa pièce teatrale che si concentra su sette lezioni che l’artista francese fece stenografare tra il 1939 e il 1940. Toni Servillo dirige e interpreta  l’apologo del mestiere dell’attore, entrando  nella tecnica e nel pensiero di Jouvet.

In queste lezioni,  che si svolsero  tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940, Jouvet fa preparare a una giovane attrice, Claudia, l’ultima scena del personaggio di Elvira nel Don Giovanni di Molière.  Un’avventura a due, maestro e allieva che si prendono per mano addentrandosi in un territorio oscuro, quello del personaggio. Un territorio da indagare fino in fondo per poter comprendere e dialogare con il personaggio, che va  costruito passo passo, così che lo spettatore in scena al posto dell’attore veda il personaggio. Per giungere a questo il percorso è arduo, estenuante, ma necessario. Per Jouvet  è dovere di una grande attrice arrivare a quell’emozione del personaggio. 

In questa ultima scena Elvira è cambiata: non è più rancorosa a causa del tradimento di Don Giovanni.  È come in estasi, in pace con se stessa. Va incontro a Don Giovanni, all’uomo che ha creduto di poter amare, come un angelo che scende lentamente con gli occhi pieni di luce ad annunciare qualcosa. E’ dunque una scena di annunciazione per Jouvet, in cui Elvira si accosta a Don Giovanni per supplicarlo di cambiare vita, altrimenti l’unico posto che lo accoglierà sarà l’Inferno. Tutto questo è detto   pacatamente, quasi vergognandosi dei suoi momenti di ira precedenti. Torna da lui perché in fondo lo ama ancora, vuole salvarlo.  Sarà l’ultima volta che si vedranno. Così la storia di Elvira e Don Giovanni si intreccia con la storia vera, di un maestro e un’allieva che per sette mesi hanno condiviso lavoro e passione, lezioni di vita e rimproveri reciproci, per poi perdersi e non incontrarsi mai più a causa della guerra e dell’occupazione nazista di  Parigi.

Toni Servillo, nelle vesti di Jouvet, accentua la figura di un  maestro le cui  parole sono cariche di passione, emotività e tenerezza.  È uno spettacolo fatto di sguardi e di silenzi, degli sguardi e dai silenzi da cui nasce la creazione. Può sembrare a prima vista uno spettacolo semplice, ma la grandezza sta nel rendere vive queste lezioni. Lezioni  di recitazione, ma ancor  più lezioni di vita. Sul palcoscenico accade la finzione, ma sul palcoscenico della vita ci aspetta quotidianamente e anche qui l’entrata e i movimenti devo essere quelli giusti.

Abbiamo la possibilità di vedere l’uomo, l’artista nel momento di più alto sforzo e tenerezza, il momento della creazione. Un momento grandioso e allo stesso tempo tenero, ma qui non si tratta di creare un oggetto, un materiale, ma creare il personaggio  attraverso il corpo e le parole di un’attrice.  Per arrivare al punto più alto, le paure e l’orgoglio vanno messi da parte, è necessario liberarsi mentalmente.   Così storia umana e recitazione si intrecciano in un apologo  del mestiere dell’attore che è anche una lezione di vita.

Emanuele Biganzoli

Di Brigitte Jaques

Da Molière e la commedia classica di Louis Jouvet

Traduzione: Giuseppe Monetsano

Regia: Toni Servillo

Interpreti: Toni Servillo (Louis Jouvet), Petra Valentini (Claudia/Elvira) Francesco Marino (Octave / Don Giovanni), Davide Cirri (Leon /Sganarello)

Costumi: Ortensia De Francesco

Luci: Pasquale Mari

Suono: Daghi Rondanini

Aiuto regia: Costanza Boccardi

Produzione: Teatro Milano- Teatro D’Europa, Teatri Uniti

IL BALLO

Un’attrice, 5 voci, tanti specchi.

Sonia Bergamasco porta sulla scena del Teatro Gobetti una favola nera di Irène Némirovsky, scrittrice francese di origine ebraica vittima dell’olocausto.

E’ la storia di Antoniette, una ragazzina quattordicenne, figlia di ebrei arricchiti, trascurata da una madre troppo narcisista ed egoista per preoccuparsi di lei.

Finalmente la madre ha ottenuto la ricchezza tanto desiderata e può permettersi di dare il primo ballo, che le aprirà le porte al suo debutto in società. Ma Antoinette viene esclusa: non può parteciparvi, e tanto meno rivolgere la parola a qualcuno. Chiusa in camera. Quello è il suo posto.

La ragazza allora compie il suo atto di vendetta: in un attimo d’ira getta nel fiume gli inviti, così che nessun nobile lo riceverà mai.

E’ il giorno del ballo: il tavolo è imbandito con pietanze di ogni tipo, la sala addobbata a festa, l’orchestra pronta per suonare. Ogni cosa è predisposta per accogliere la più alta società.

Ma non arriva nessuno. Solo la vecchia cugina, presenza non gradita dalla madre, ha ricevuto il biglietto a mano, e si trova ad essere partecipe di quest’immensa umiliazione.

Di fronte alla disperazione, la figlia, col viso nascosto tra le braccia della madre in lacrime, ride. La vendetta è stata compiuta.

Sonia Bergamasco porta in scena con un’interpretazione magistrale il racconto in tutta la sua spietatezza, dando voce ai 5 protagonisti: Antoinette, la madre, il padre, l’educatrice e la vecchia cugina.

Come scrive la stessa Bergamasco è una storia “di vendetta e di disamore; (..) il teatro di un bambino solo che costruisce il suo mondo, perchè il mondo conosciuto (quello degli adulti) non è bello e non gli piace”

Ed è questo che noi vediamo: una figura esile e bianca, che si muove sola, in un palcoscenico pieno di specchi, in cui si è costretti a guardare e guardarsi: in cui madre e figlia sono costrette a rispecchiarsi.

Ma la storia di Antoinette è molto più di questo: “è l’arma di vendetta di una scrittrice che sempre, in ogni sua opera, ricorda e non perdona. La scrittura come arma, scoperta molto presto da Irène, proprio contro quella famiglia, quella madre che non aveva saputo amarla.”

Lara Barzon

Racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco
liberamente ispirato a 
Il ballo di Irène Némirovsky
disegno luci Cesare Accetta
scena Barbara Petrecca
costume di scena Giovanna Buzzi
Teatro Franco Parenti / Sonia Bergamasco

CARLO CECCHI E LA FOLLIA CONSAPEVOLE DELL’ENRICO IV

Dal 13 al 25 Febbraio al Teatro Carignano di Torino è andato in scena Enrico IV di Luigi Pirandello, con l’adattamento e la regia di Carlo Cecchi.

Enrico IV, uno dei testi più conosciuti e importanti di Pirandello, nella versione di Carlo Cecchi è la storia di un uomo che da vent’anni veste i panni dell’Imperatore di Franconia come inganno per simulare una nuova vita e come evasione dalla quotidianità e dalla realtà. Gli altri lo credono però pazzo e perciò lo assecondano in questa commedia per paura e per affetto, tanto da aver assunto degli attori come vassalli per fargli compagnia nella sua dimora, arredata e vissuta secondo gli usi del periodo storico in cui visse Enrico IV. Dopo ormai molti anni però gli amici decidono che l’uomo deve guarire, e portano al suo cospetto un famoso medico che dovrebbe riuscire ad aiutarlo: ovviamente l’incontro avviene con indosso costumi del periodo e sotto precisi pseudonimi storici, e il medico riesce così a fare una diagnosi. Ma durante un incontro con i suoi vassalli nella sala del trono l’Imperatore ammette di non essere mai stato malato e in questo modo tutti vengono a scoprire l’inganno.  Nel finale, come è ben noto, Enrico IV uccide Belcredi. Ma la morte, e tutto il resto, è nella versione di Cecchi finta, perché come ricorda proprio il protagonista, devono tutti riprendersi per la prossima replica, catapultando così gli spettatori in una improvvisa e quasi inaspettata dimensione meta teatrale.

 

Il testo affronta i grandi temi della maschera, della follia e del rapporto tra finzione e realtà: l’uomo sfugge razionalmente ad una realtà che non ama e che non lo rappresenta, e questo è infatti l’emblema pirandelliano del legame tra maschera e realtà. Un altro tema importantissimo e che Cecchi ha voluto mettere bene in luce è quello del teatro e della recitazione stessa: lo si vede chiaramente nel finale dello spettacolo, ma anche nella motivazione data alla falsa follia dell’Imperatore, che egli spiega in un bellissimo monologo, fulcro dello spettacolo: la vocazione teatrale.

Nonostante tutti gli attori fossero molto bravi e incisivi, non poteva non spiccare la recitazione di Carlo Cecchi: la sua tipica cadenza napoletana restituisce verità alla sua interpretazione e fa sì che il pubblico avverta che in quel momento in scena, proprio sotto i suoi occhi, stia accadendo qualcosa di profondamente reale. La cultura popolare infatti si insinua nella sua recitazione e la renda spontanea, giocosa, ma allo stesso tempo grottesca: si accende negli spettatori una coscienza critica che permette loro di vedere con lucidità i vari argomenti che questa recita porta alla nostra attenzione. Il carattere antinaturalistico del suo teatro infatti è perfettamente visibile anche grazie ai suoi movimenti un po’ legnosi, agli abiti molto larghi utilizzati per richiamare l’elemento burattinesco. Spesso inoltre egli recita di spalle, rendendo un po’ difficile la comprensione delle sue parole agli spettatori, sottolineando così l’impossibilità della piena e compiuta realizzazione artistica, altro tema a lui molto caro.

 

Interessante la scenografia realizzata da Sergio Tramonti: molto efficace nel richiamare la finta atmosfera medievale con diversi oggetti di scena, come le armature, ma soprattutto decisiva nel creare un ambiente sospeso, quasi fuori da tempo, quando gli attori si trovano nella sala del trono. Essa infatti ha come fondale uno specchio che riflette tutto quello che sta accadendo in scena, le rivelazioni e le finzioni, rende visibili gli attori che si voltano di spalle, catapultandoci così in un ambiente menta teatrale e sottolineando le duplici funzioni che il teatro può avere.

a cura di Alice Del Mutolo                                                                                      

di Luigi Pirandello
adattamento Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò, Dario Iubatti, Federico Brugnone, Remo Stella, Chiara Mancuso, Matteo Lai, Davide Giordano
regia Carlo Cecchi
scene Sergio Tramonti
costumi Nanà Cecchi
luci Camilla Piccioni
Marche Teatro

 

Il senso della vita di Emma

Chi è Emma? Si potrebbe rispondere in molti modi. Emma siamo noi, la nostra vita.  Emma è semplicemente la ragazza scomparsa. Ma è anche una figura astratta, tant’è che la vediamo solo alla fine. Permette la narrazione di una storia, crea dinamiche familiari, e trasforma i personaggi. Emma è un po’ vera e un po’ falsa.   Si potrebbe continuare a trovare altri significati. Ed facile che ci sovvenga  anche una seconda domanda: qual è il senso della vita di Emma? Niente di più sbagliato. Lo spettacolo non vuole essere incentrato sulla ricerca del senso della vita di Emma, o il senso della vita in generale.

Fausto Paravidino, attore, autore e regista, molto attivo nel panorama  teatrale italiano e internazionale, da gennaio di quest’anno Dramaturg residente del Teatro Stabile di Torino, scrive e mette in scena, interpretando anche uno dei personaggi, lo spettacolo Il senso della vita di Emma. Un romanzo teatrale in due parti, dove diverse storie e dinamiche familiari si intrecciano a piccoli cambiamenti di costume e di arte, sullo sfondo della storia grande; una storia che succede addosso ai personaggi, ma non motore della vicenda, a detta del regista.

Uno spettacolo che fin dall’inizio vuole rivolgersi direttamente al pubblico, dove i personaggi hanno bisogno di narrare la loro storia, per capire come mai Emma sia scappata. Infatti, la quarta parete sarà infranta ripetutamente. Padre, madre, fratello e sorella e gli amici racconteranno a tratti qualche spezzone della vita di Emma. Lo spettatore assiste ad  una storia di due  famiglie, dagli anni sessanta fino ai giorni nostri, da quando i genitori di Emma e i loro amici si sono conosciuti fino al ritrovamento di Emma. Classi sociali differenti, ma che si incontrano. Due coppie di amici che si accorgono che è arrivato anche per loro il momento di crescere e assumersi responsabilità: da una parte Carlo (Fausto Paravidino) e Antonietta (Eva Cambiale) e dall’altra Giorgio (Jacopo Maria Bicocchi) e Clara (Marianna Folli). La prima coppia, un uomo semplice dedito ad impagliare gli animali e una professoressa di lettere un poco svampita; la seconda, una donna pettegola e isterica, che scarica le sue frustrazioni sul compagno, un letterato per bene, che si fa mettere i piedi in testa dalla compagna accettando la situazione.

I problemi giungono quando nascono i primi figli di Carlo e Antonietta: Marco, il maggiore (Gianluca Bazzoli) sempre in crisi con la propria identità, scoprendo in seguito di essere bisessuale, e vittima degli scherzi della sorella Giulia, la stronza (Angelica Leo). Impreparati a gestire i propri figli, i problemi si trasferiranno anche sugli amici: questi, stanchi del fatto che l’altra coppia ha scelto di avere figli, forse anche invidiosi, decidono di non frequentare più Carlo e Antonietta. Il punto di svolta si avrà quando Antonietta rimane incinta per la terza volta. Tutte le frustrazioni della coppia saliranno in superfice: Carlo non riesce a vedere e capire le sofferenze della moglie e così quest’ultima decide di prendersi una pausa di riflessione e si trasferisce dagli amici, con cui si era riconciliata poco prima. Il padre dovrà occuparsi dei figli, o meglio dovrà imparare ad occuparsi di loro.

Emma che per più di metà spettacolo viene solo evocata a parole, finalmente entra in scena (era la bambina che aspettavano Antonietta e Carlo), prima come bambina neonata, poi cresciuta come una marionetta, una  bambola. Forse per accentuare il fatto che sono gli altri, i genitori e i fratelli che la dirigono nella sua infanzia, la manipolano a loro piacimento, oppure solo per mostrare che è un personaggio immaginario, finto, che rappresenta qualcosa in più della semplice Emma. Fatto sta che lei procurerà non pochi problemi alla famiglia. Crescendo parla poco, ha solo un’amica con cui condivide le sue stranezze e le sue avventure di ribellione contro un sistema sporco e radical chic.  A Londra fa irruzione con altre compagne in una galleria d’arte contemporanea, con una maschera di maiale sul viso e completamente nuda, per distruggere con un quadro una pecora, sezionata a metà, esposta come opera d’arte. Qui, come all’inizio dello spettacolo si vede tutto l’intento parodico su cosa ormai possa essere considerato bello e su cosa sia un’opera d’arte. Tutto può essere considerato opera d’arte? I cambiamenti di cultura e costume, vanno di pari passo con la crescita di Emma, come se lei rappresentasse uno spartiacque tra la cultura sessantottina dei genitori e quella successiva  dei figli, di lei, che deve fare i conti con l’eredità che i genitori le hanno lasciato: non a caso è nata il giorno del delitto  Moro.

Emma è compresa solo da Leone  (Giuliano Comin), figlio dell’altra coppia, di Giorgio e Clara. Lui, innamorato,  va a cercarla, ma sarà poi rifiutato da lei. Emma torna a casa, e si allinea al sistema : va a lavorare per un’industria che di ecologico non ha nulla e sposa Nello lo Splendido (Giacomo Dossi), un discotecaro bisessuale che la tradisce con la sua logopedista. Emma a seguito in un furto nell’azienda in cui lavora, scappa in Kosovo, per riapparire in un museo inglese dove è esposto il suo ritratto. Finalmente ha lasciato il suo corpo di marionetta e la vediamo come una persona viva (Iris Fusetti). Si è tolta la maschera, una maschera imposta dagli altri, da sé con le sue fughe i suoi atti sovversivi, una maschera per stare al mondo, in un mondo che fa marionetta e ti dirige? La maschera si è trasformata nel ritratto appeso al museo ed è per questo che lo vuole distruggere?  Sarà bloccata da Leone che si trovava lì per caso ad ammirare il quadro, o meglio ad ammirare Emma. Leone le fa capire cosa ha sbagliato in tutti quegli anni di fughe di comportamenti ingrati, ma lei continuerà a sentirsi disadattata, vuole ma non riesce a trovare una sua identità, a piacersi. Colpa degli insegnamenti sbagliati, o meglio delle mancanze dei genitori? Forse. Leone e l’artista del quadro le fanno capire che la persona raffigurata nel quadro è si lei, ma rappresentata dal punto di vista dell’artista, e così il quadro rimane lì. Non dobbiamo aver paura di come ci raffigura la società ed essere noi stessi?

La chiusa finale è un piccolo gioco sul teatro, dove la storia di Emma è un po’ vera e un po’ no come il teatro, per usare le parole del regista. E qui sta il senso di chi sia Emma, una figura che esiste, che si porta dietro problemi, fa evolvere le vite degli altri personaggi e si immerge nei cambiamenti culturali, ma che allo stesso tempo è una marionetta, è finta. Emma siamo noi, è la nostra vita, così si chiudeva la prima parte.

Fausto Paravidino non vuole dare un senso ultimo allo spettacolo, ma lascia libera interpretazione allo spettatore. Non vuole neanche fare una critica alla società post-sessantottina che si trasforma, a costumi che cambiano velocemente, pur inserendo commenti parodici verso l’arte e una storia che c’è come sottofondo.

Ma se si vuole appagare la nostra ricerca a dare senso ad ogni cosa, si può trovare un possibile significato dello spettacolo parafrasando le battute di Giorgio. La vita magari non è quella che ci siamo sognati, va così. Ci sono momenti belli e altri invece di meno, ma l’importante è esserci, vivere.

Uno spettacolo da tutto esaurito pure alla penultima rappresentazione. Un pubblico però che abbocca più facilmente alle battute volgari. Altre scene potevano meritare di più la risata, ma hanno avuto meno applausi. Uno spettacolo quindi comico, ma con venature drammatiche che si diramano attraverso le crisi di queste persone, il tutto per dare uno spaccato particolare, ma abbastanza probabile di due possibili famiglie.

Uno spettacolo forse troppo didascalico. Dove a volte le azioni compiute, che si sovrappongono alle parole, suscitano la risata, o sono costruite molto bene per aumentare il senso di quello che si ascolta, altre volte questo risulta troppo pesante e scontato.
E un finale in cui tutto si fa troppo dilatato e prolisso. Ci riferiamo soprattutto all’incontro tra i due giovani al museo.
Invece, punto di forza sono le scene corali, costruite molto bene dal regista e dagli attori. Un gruppo di ben 12 attori, con a “capo” Fausto Paravidino che fa da punto focale di queste piccole coreografie, anche nei momenti in cui in scena gli attori sono solo una parte. Sul palcoscenico lo si sente e lo sentono anche gli altri attori, come se si nascondesse dietro ai suoi personaggi per far da base, da spinta per far risaltare di più i suoi compagni/personaggi.
Uno spettacolo che seppur con qualche caduta è divertente e abbastanza riuscito. In un microcosmo dove esistono problemi, si deve vivere un po’ giocosamente, prendere coscienza di sè e cercare di non morire democristiani.

Emanuele Biganzoli

Produzione: Teatro Stabile di Bolzano e Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale

Di Fausto Paravidino

Regia: Fausto Paravidino

Con: Eva Cambiale (Antonietta), Fausto Paravidino (Carlo), Marianna Folli (Clara), Jacopo Maria Bicchiere (Giorgio), Gianluca Bazzoli (Marco), Angelica Leo (Giulia), Sarà Rosa Postilla (zia Berta), Giuliano Comin (Leone), Veronika Lochmann (Ingrid), Emilia Pizza (Genziana), Maria Giulia Scarcella (dottoressa Forlì), Iris Fusetti (Emma), Giacomo Dossi (Nello, lo splendiso / don Mario).

Scene: Laura Benzi

Costumi: Sandra Cardini

Luci: Lorenzo Carlucci

Musiche originali di Enrico Melozza, eseguite da Orchestra Notturna Clandestina, diretta dall’autore

Maschere: Stefano Ciammitti

 

LACCI

Il sipario si apre, ci accoglie una scenografia semplice e spoglia, con un velato e malinconico color viola-blu. Due figure sedute su due sedie vicine, un uomo e una donna. Aldo legge dei fogli con un’aria incupita. Solo qualche battuta più avanti si capirà trattarsi di una delle tante lettere di sua moglie, Vanda, la donna accanto a lui. Le parole su quella carta risuonano dalle labbra di lei, parole che rappresentano lo sfogo di anni di sofferenza e frustrazione. “Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie.”. Più la sua voce si fa sofferente e il dolore più forte, più le sedie si allontanano.

La scena cambia ed emerge un senso di apatia e smarrimento. La scenografia prende un aspetto diverso, si tinge di chiaro e diventa più fredda, sterile. Un grande salone disordinatissimo con delle altissime mura tutte bianche, quasi fossero fatte di gesso. Tra i tanti oggetti e tra le pagine dei libri buttati per terra, riaffiorano anche vecchi dolori e verità mai confessate. La casa diventa la  metafora della famiglia con tutti i suoi disastri e le sue rovine. È da qui che tutto parte.

Il tema di Lacci è la storia di una relazione matrimoniale fallita con le rispettive dinamiche famigliari che ne conseguono e le varie ipocrisie su cui molto spesso essa si basa. È senz’altro un argomento che prende al cuore ogni spettatore in sala. Ognuno, almeno una volta nella vita, ha rivestito la parte del compagno ferito e tradito o, al contrario, di colui che vuole tener segreto un amore proibito. Ci si trova partecipi ma allo stesso tempo giudici, senza mai riuscire a prendere le parti di un personaggio preciso. Amanti, fratelli, figli e compagni di vita, tutti ci ritroviamo immersi da quella che si può definire una “tragedia contemporanea”. Proprio nei tumultuosi anni sessanta, ani di forte cambiamento, Vanda, interpretata da Vanessa Scalera, e Aldo, interpretato da Silvio Orlando, si sposano e dopo pochi anni diventano genitori. Più gli anni passano più lui si sente oppresso dall’idea di invecchiare e con il suo animo da ragazzino decide di trasferirsi a Roma per poter vivere la freschezza di un amore nuovo. A differenza della moglie che da subito ci trasmette il suo attaccamento, a volte quasi morboso, alle piccole gioie della vita quotidiana. Donna forte, legata al senso della famiglia e ormai consumata dai sacrifici per di mantenere da sola i suoi due figli. Ripetute sono le sue lettere indirizzate al il marito che dopo anni riescono ad avere risposta con il suo ritorno, dovuto in realtà solamente al senso di colpa. Per lui il matrimonio si dimostra essere un labirinto dal quale si sente intrappolato e. Infatti i “lacci” legati simbolicamente indicano sia quell’azione quotidiana che Aldo inconsapevolmente insegna a suo figlio, sia quel legame, quel vincolo così consueto da essere inavvertito, che può arrivare ad essere soffocante. Sicuramente le ossessioni di una donna ormai non più spensierata e le difficoltà dei figli non aiutano questa sua condizione. Eppure è proprio lui ad ammettere che in fondo anche loro due sono stati felici ma poi forse si sono abituati alla felicità fino a non sentirla più.

Si avverte benissimo lo scontro generazionale tra i genitori e i figli. I genitori cresciuti in un’epoca di grandi cambiamenti, dallo spirito libero e increduli di dover accettare a volta l’impossibilità di essere felici. I figli (Maria Laura Rondanini e Sergio Romano) abituati al non-amore, cresciuti con paure e ossessioni, si armano della solita scusante: “Non è colpa mia! L’ho preso da mia madre..”. Saranno poi loro che si prenderanno la tanto desiderata rivincita.

Il testo teatrale è adattato da Domenico Starnone dal suo omonimo romanzo e mette bene in evidenza quei meccanismi di distruzione reciproca che si vanno a creare talvolta nel matrimonio senza che nessuno dei due coniugi se ne renda conto. È un testo classificabile certamente nella categoria del dramma familiare. Starnone nell’adattamento del testo letterario alla drammaturgia scenica opera una trasposizione forse un po’ troppo fedele che appesantisce  l’andamento della storia e, più in generale, l’azione dei personaggi, nonostante lo spettacolo sia stato arricchito da qualche intermezzo comico e battuta divertente. In realtà infatti, in scena succede poco, si tratta più che altro di ricordi del passato. Tutti gli attori comunicano allo spettatore il senso del dramma e la loro aderenza al personaggio anche se, ai miei occhi, un approccio più sentito avrebbero reso il lavoro più forte e avrebbero permesso allo spettacolo di lasciare maggiormente il segno.

Mercoledì 22 novembre, serata in cui ho assistito allo spettacolo, gli spettatori hanno comunque dato prova di essersi divertiti e di aver apprezzato. Durante gli applausi finali molti spettatori sui loggioni si sono alzati in piedi e la commozione di Silvio Orlando era evidente. È sicuramente una bellissima emozione poterlo vedere come interprete di Aldo. Un personaggio dal comportamento in fondo molto comune ma arricchito dallo stile “buffo” di questo grande attore.

 

In scena al Teatro Carignano di Torino dal 14 al 26 novembre 2017

tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone

con Silvio Orlando

 

e con Pier Giorgio Bellocchio, Roberto Nobile,

Maria Laura Rondanini, Vanessa Scalera

e Matteo Lucchini

regia Armando Pugliese

scene Roberto Crea

costumi Silvia Polidori

musiche Stefano Mainetti

luci Gaetano La Mela

Cardellino Srl

 

Teatro Stabile di Torino stagione teatrale 2017-18, conferenza stampa

Giovedì 11 maggio presso il Teatro Carignano si è tenuta la conferenza stampa del Teatro Stabile di Torino riguardante il programma della stagione teatrale 2017-18 .  Sono intervenuti il presidente Lamberto Vallarino Gancia, il direttore Filippo Fonsatti, il direttore artistico Mario Martone, il nuovo direttore artistico che entrerà in carica dall’inizio del 2018, Valerio Binasco, le assessore alla cultura Francesca Paola Leon e Antonella ParigiBarbara Graffino, membro del consiglio generale della Compagnia di San Paolo.

Il presidente  Lamberto Vallarino Gancia  ha espresso, a nome suo e del Consiglio di Amministrazione, i più sinceri auguri al nuovo direttore artistico Valerio Binasco, ai collaboratori dello Stabile e a Mario Martone, per l’ottimo lavoro che ha svolto negli ultimi dieci anni. Ha introdotto poi il direttore Filippo Fonsatti, ricordando quanto sforzo comporti creare un cartellone teatrale come quello dello Stabile e ha mostrato gli indicatori chiave della stagione scorsa. Lo Stabile di Torino si conferma al secondo posto tra i Teatri Nazionali nella classifica ministeriale grazie ad un’alta qualità dei progetti artistici, al contributo economico garantito dai Soci Aderenti e soprattutto grazie al lavoro svolto dallo staff.

La cultura è fondamentale per la crescita di un territorio. La nuova stagione comprenderà 16 produzioni, di cui 5 nuove produzioni esecutive, 6 nuove coproduzioni e 5 riprese, tra cui 29 spettacoli ospiti e 24 spettacoli programmati per la rassegna Torinodanza. Sono 69 gli spettacoli con grandi titoli di registi e attori che si sono affermati sulla scena scena nazionale e internazionale. Tra le produzioni troviamo molte rivisitazioni di testi classici: Don Giovanni di Molière con la regia di Valerio Binasco, Le baruffe chiazzotte di Carlo Goldoni con la regia di Jurij Ferrini, L’illusion Comique di Pierre Corneile con la regia di Fabrizio Falco e Le Baccanti di Euripide con la regia di Andrea De Rosa. Ma troviamo anche una vasta gamma di produzioni contemporanee come Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo con la regia di Mario Martone, Il nome della rosa di Umberto Eco con la regia di Leo Muscato, L’Arialda di Giovanni Testori con la regia di Valter Malosti, Galois di Paolo Giordano con la regia di Fabrizio Falco, Emone. La traggedia de Antigone seconno lo cunto de lo innamorato di Antonio Piccolo con la regia di Raffaele Di Florio e Da questa parte del mare di Gianmaria Testa con la regia di Giorgio Gallione. Prosegue la collaborazione con le compagnie teatrali della città di Torino: importante la coproduzione di Lear, schiavo d’amore dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa che debutterà in prima nazionale al Teatro Gobetti con la regia di Marco Isidori, inoltre anche Mistero Buffo di Dario Fo prodotto dal Teatro della Caduta con la regia di Eugenio Allegri, Alice nel paese delle meraviglie prodotto dal Mulino di Amleto con la regia di Marco Lorenzi e La bella addormentata con la regia di Elena Serra.
Il teatro pubblico non è la casa di un singolo artista, è un cantiere aperto dove i registi al lavoro devono essere numerosi e diversi tra loro, con un orizzonte comune ovvero la direzione artistica per evitare che gli spettacoli siano un assemblaggio di merci su uno scaffale. Per questo nella stagione prossima si punterà ad una riflessione su temi del nostro mondo complesso, dal micro al macro, della dimensione sociale mononucleare a quella di massa destinato a raggiungere la dimensione G-zero. Ad esempio con il pluripremiato Disgraced di Ayad Akhtar, in cui fuoriesce la tensione culturale all’interno del salotto borghese, con la regia di Martin Kušej.

Tra i dati riportati da Filippo Fonsatti è importante sottolineare che tra il 2015 e il 2016 c’è stato un aumento del 85% delle vendite dei biglietti e che purtroppo quest’anno ci sarà un aumento dei prezzi, eccetto che per gli studenti. Si è parlato molto anche di giovani, infatti Lo Stabile collabora con la Scuola di formazione per Attori e ben 128 artisti e tecnici sono under 40 e altri 45 sono under 30. Perché il teatro comprende tutti coloro che lavorano al suo interno, non solo gli attori ma anche i tecnici che lavorano dietro le quinte.
Inoltre c’è il desiderio di variegare le fasce di spettatori, comprendendo molti giovani e offrendo la possibilità a  un pubblico di  estrazione sociale e di grado di istruzione diversi fra loro di dialogare, perciò assieme alla Fondazione CRT, il Teatro Stabile offre gratuitamente 1.000 abbonamenti per cittadini a basso reddito.

A seguire è intervenuto Mario Martone, presentandosi per l’ultima volta pubblicamente come direttore artistico e lasciando in eredità il suo ruolo al successore Valerio Binasco, regista e attore tra i più apprezzati e premiati della scena italiana. Martone ha sostenuto che il teatro è una macchina che ha bisogno di una buona conduzione gestionale, dove è importante l’elemento razionale ma anche una certa imprevidibilità e follia degli artisti. La parola è poi passata a Valerio Binasco che si è presentato entusiasta di continuare a lavorare con solidità e coerenza sulle tracce del collega Martone, con attenzione ai temi della contemporaneità riletti in modo innovativo ed originale, prestando attenzione alla valorizzazione dei giovani talenti. Durante il suo intervento ha sottolineato quanto sia importante che il teatro rifletta e si interroghi sulla realtà che ci circonda.

“Il teatro non è un semplice luogo dove si svolgono le rappresentazioni teatrali ma è un luogo di vita quotidiana.” ha aggiunto Barbara Graffino,  che è intervenuta assieme agli assessori.

Resoconto scritto da Floriana Pace e Andreea Hutanu.

TEATRO STABILE DI TORINO – TEATRO NAZIONALE
@Presidente: Lamberto Vallerino Gancia
@Direttore: Filippo Fonsatti
@Direttore artistico: Mario Martone
@Consiglio d’Amministrazione: 
Lamberto Vallerino Gancia
Riccardo Ghidella (Vicepresidente)
Mario Fatibene
Cristina Giovando
Caterina Ginzburg
@Collegio dei Revisori dei Conti:
Luca Piovane (Presidente)
Flavio Servato
Stefania Branca
@Consiglio degli Aderenti:
Città di Torino
Regione Piemonte
Compagnia di San Paolo
Fondazione CRT
Città di Moncalieri (Sostenitore)

INFORMAZIONI. Biglietteria del Teatro Stabile di Torino: Teatro Gobetti, via Rossini 8 – Torino. Tel. 011 5169555 – Numero verde 800.235.333 – info@teatrostabiletorino.it

“MINETTI: LA FOLLIA NELL’ARTE”

Lo scorso martedì 4 Aprile ha debuttato al Teatro Carignano “Minetti”, un testo di Thomas Bernhard, con Roberto Herlitzka, in scena per la stagione teatrale 2016/2017 del Teatro Stabile di Torino.

Il testo è quasi un lungo monologo, inframmezzato solo da qualche battuta di alcuni personaggi che compaiono all’interno dell’albergo dove è ambientata la storia.
Siamo ad Ostenda, città sulla costa del Belgio, durante la notte di San Silvestro. Giunge in albergo un anziano signore con una pesante valigia da cui non si separa mai, Minetti, che annuncia di avere appuntamento con il direttore del teatro per portare in scena, dopo trent’anni di inattività, il Re Lear di Shakespeare.
Durante l’attesa, così prolungata da infondere il dubbio che in realtà l’incontro sia frutto dell’immaginazione dell’attore, Minetti racconta della sua vita e riflette sul teatro e sul mestiere di attore. Un personaggio che porta con sé la tristezza per essere stato esiliato dalla città dove era direttore del teatro, per essersi negato alla letteratura classica e che per trent’anni, nella soffitta della sorella, non ha fatto altro che ripetere il Re Lear di Shakespeare con la maschera che aveva creato per lui il celebre Ensor.

Per misurarsi con un personaggio così definito e per interpretare un testo tanto forte e complesso, ci vuole sicuramente una certa capacità e esperienza, attributi che chiaramente l’attore protagonista Roberto Herlitzka può vantare. Con grande intelligenza Herlitzka riesce a rendere il personaggio ironico nella sua follia, nonostante la drammaticità di una vita vissuta  esiliato dalla società. Molto dinamico in scena, non lascia mai l’occhio dello spettatore fisso in un punto e, comunicando con tutto il corpo, rende chiaro il messaggio e mantiene alta l’attenzione verso un testo che richiede per sua natura di essere seguito parola per parola.
Grazie ad un approccio intimo al personaggio, coinvolge lo spettatore a tal punto da indurlo a riflettere sulle questioni da lui affrontate. Questo aspetto viene sottolineato anche da alcune battute registrate con voce soffiata, che sembrano quasi svelare al pubblico le riflessioni personali di Minetti sull’arte.

Il protagonista si confronta principalmente con due personaggi, la cui presenza è per lui il pretesto per esporre le proprie idee: il primo è una signora, ospite ogni anno dell’albergo per passare il Capodanno sola con una maschera da scimmia e qualche bottiglia di champagne. Può essere vista come l’alter ego di Minetti, poiché entrambi vivono in una triste solitudine e sentono il bisogno di “recitare”  una parte nascosti dietro una maschera.
Il secondo personaggio è quello di una ragazza giovanissima che aspetta il fidanzato per andare a una festa mentre ascolta musica da una radiolina. Un po’ timida, scambia qualche parola con Minetti provando forse nei suoi confronti una certa tenerezza. Essa è chiaramente un contrasto con la sua situazione, è una giovane donna che ha ancora tutta la vita davanti e alla quale l’attore augura di non commettere errori.

La vicenda è interrotta qua e là da figure mascherate che entrano ed escono dall’albergo: si muovono lentamente, hanno maschere inquietanti e la loro presenza determina una situazione surreale che contrasta con il tono ironico e grottesco del racconto di Minetti. Si tratta di figure allusive che sembrano quasi uscire dalla mente del protagonista, come fantasmi del suo passato, delle sue paure e dei tormenti che alimentano la sua follia.

La scenografia ha un tratto naturalistico ed è ben curata in ogni dettaglio, come anche la musica e i vari suoni, ad esempio quello esterno del mare o quello dell’ascensore all’interno dell’albergo.
Le luci cambiano repentinamente a seconda dei momenti dello spettacolo per sottolineare ora l’introspezione del racconto, ora l’atmosfera quasi onirica dovuta alla presenza dei personaggi mascherati.

Importante è il ruolo delle maschere: quella della signora, quella di Re Lear di Ensor dalla quale Minetti non si separa mai e quelle indossate da chi festeggia San Silvestro. Maschera come rifugio dalla realtà e come unica possibilità per essere liberi.

Proprio perché la scenografia è così naturalistica, risulta forse un po’ stridente il finale, che secondo il testo dovrebbe essere ambientato all’esterno su una panchina mentre la neve cade su Minetti. In questo caso, il fondo della scenografia cambia, ma il contesto dell’albergo, così visivamente ben curato, rimane.
Inoltre, gli attori erano muniti di microfono, aspetto che può lasciare perplessi, perché una delle caratteristiche del teatro è per esempio poter notare negli attori un cambio di tonalità vocale a seconda della posizione del corpo nello spazio.
In ogni caso la recitazione del protagonista è riuscita a catturare con molto efficacia l’attenzione del pubblico, sia per la sua dinamicità, sia per l’ironia con cui si è approcciato al personaggio.

Un testo che parla della vita, della società, dell’arte e che vede nell’attore colui che è in grado di vivere fino in fondo tutte le emozioni e perciò anche la frustrazione che porta inevitabilmente alla follia. Come afferma lo stesso Minetti, l’arte è “orrenda” e l’attore è “mostruoso” poiché è l’unico in grado di portare di fronte al pubblico la dura realtà. Ma proprio perché non viene compreso dalla società, l’attore è destinato a fallire sia nell’arte che nell’esistenza.

di Alice Del Mutolo

di Thomas Bernhard
traduzione Umberto Gandini
con Roberto Herlitzka
e con Pierluigi Corallo, Verdiana Costanzo, Matteo Francomano, Roberta Sferzi, Vincenzo Pasquariello
regia Roberto Andò
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Gianni Carluccio, Daniela Cernigliaro
suono Hubert Westkemper
Teatro Biondo Palermo

La famiglia Popoch, o come lavorare per vivere.

I due protagonisti Yona e Leviva appaiono come due figurine su uno schermo.  Se si accetta l’idea secondo cui tra attore e pubblico, a teatro, non dovrebbe ergersi un vetro, nel caso de Il lavoro di vivere non è del tutto chiaro se questo vetro esista o meno. Questa rappresentazione è un quadro dipinto perfettamente. L’atmosfera è talmente fedele che viene da domandarsi se si assista a una storia raccontata già mille volte o a un pezzo di vita vera che assomiglia troppo a una finzione. La risposta che viene da darsi è che forse gi attori desideravano rendere proprio questa sensazione ibrida.
Carlo Cecchi, che intrepreta un uomo stanco della vita coniugale, sul palco si muove proprio come se fosse a casa sua. Inciampando e balbettando si comporta davvero come un marito che discute con la moglie. Se la sua intenzione era di trasmettere un dubbio, è stato eccezionale.
La camera da letto che accoglie i due coniugi è costruita con precisione analitica. Le serrande abbassate e i dettagli di luce contribuiscono a creare quella sensazione di “essere a casa”. Il lavoro di Gian Maurizio Fercioni è stato pertanto sobrio e corretto. Al centro di questa stanza c’è il letto attorno a cui girano i due personaggi, è il campo di battaglia loro e degli attori.
Fulvia Carotenuto interpreta Leviva e senza di lei Cecchi e Yona avrebbero poco senso. Nelle prime battute la sua interpretazione pare sotto tono rispetto a quella di Cecchi. L’attrice sembra semplicemente meno a suo agio con la parte. A un certo punto, però, Leviva si prende uno schiaffo e la recitazione di Fulvia Carotenuto dà uno schiaffo al pubblico. Diventa talmente vera che in lei si riconosce – al di là delle potenzialità del testo che lo permette – la chiave di lettura per capire l’interpretazione di Cecchi e il gusto di tutta la rappresentazione. Carotenuto diventa davvero una donna ossessionata dal “mettere su del tè” per risolvere i conflitti. Entra del tutto nel personaggio. Allora quando il testo richiede agli attori di rivolgersi al pubblico apostrofandolo direttamente, Cecchi e Carotenuto non parlano al vuoto, per pura retorica testuale, come potrebbe apparire superficialmente, ma è davvero come se fossero a casa loro a palare agli angoli, da soli, come a volte succede.
Carotenuto lascia un po’ di amaro in bocca solamente nel finale, dal momento che non si è goduta la sua tragedia, è andata veloce alla chiusura della rappresentazione, e tutta la scena ha perso di intensità.
Gunkel, il terzo personaggio, interpretato da Massimo Loreto è un personaggio senza né lode né infamia e la resa dell’attore non si discosta molto da questa definizione. Indubbiamente era fedele al clima della rappresentazione, ma mancava delle sfumature degli altri due interpreti.
Questo clima così intrigante è diretto dalla regia di Andrée Ruth Shammah che ha evidentemente compreso il testo di Hanoch Levin in tutte le sue virtù e potenzialità inespresse.
Un lavoro dunque, per quanto rodato a lungo, che ancora colpisce con ironie sottili e frecciatine ben piazzate, che sembrano uscite spontaneamente  ed è per questo che risultano ancora più amare. Il testo è costruito per aumentare in asprezza più ci si avvicina al finale e gli attori nelle ultime battute sono ormai riusciti a portare completamente il pubblico nella intimità della loro stanza. I movimenti di Yona diventano sempre più stentorei – reso da Cecchi fisicamente molto bene – finché a un certo punto, carico di angosce, si ferma. Non si muove più. Si alzano le serrande ed è giorno. Nella casa in cui tutti ci eravamo abituati a stare entra la luce. Questo finale, scenicamente incisivo, illumina tutte le sfumature.

Il lavoro di vivere in coppia

 

Il lavoro di vivere è una commedia “crudele e beffarda” di Hanoch Levin, autore israeliano, molto rappresentato in Europa. Andrée Ruth Shammah traduce e adatta il testo dall’ebraico, definito da diversi critici di alta complessità. A completare l’opera, che è stata in programmazione al Teatro Gobetti di Torino dal 17 al 22 gennaio 2017, sono Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto.

Il lavoro di vivere ha bisogno di soli tre attori per portare in scena una scatenata crisi coniugale, che si realizza sul palcoscenico nel quale campeggia al centro un bianco letto matrimoniale. Ma ascoltando con attenzione il lungo monologo di Yona (Carlo Cecchi) si scopre che è in gioco qualcosa di più e di diverso del suo matrimonio con Leviva (Fulvia Carotenuto).

Sono vite insoddisfatte. Due amanti incapaci di amare. Si sentono scaduti, abituati ormai alla decadenza del corpo e dei sentimenti.

Yona è un cinquantenne in crisi di mezz’età. Una notte si alza dal letto e s’interroga su chi dorma al suo fianco. Leviva è una donna concreta e leale, innamorata, forse, fin da minacciare il suicidio pur di non essere lasciata dal marito. Al culmine del litigio spunta un visitatore, un amico: Gunkel. L’uomo, in cerca solo di un’aspirina nel bel mezzo della notte, non lascia l’abitazione prima di aver dimostrato che è la paura della solitudine ad aver inchiodato i due coniugi per trent’anni l’uno all’altra. Se ne va lasciando una forte amarezza in quella stanza da letto che assomiglia sempre di più ad un ring.

Le commedie di Levin descrivono battaglie quotidiane della piccola gente, collocando l’azione in uno spazio ristretto. Questo testo in particolare riesce ad esprimere in modo non banale la durezza di una vera e propria lotta verbale, crudele ed ironica allo stesso tempo.

Il teatro di questo autore chiude le porte agli eroi e accoglie i cosiddetti “perdenti”, vestendoli di una vena poetica che li avvolge e li rende memorabili.

“Mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”: Natale in casa Cupiello

Martedì 10 Gennaio 2017 debutta al Teatro Carignano di Torino “Natale in Casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, con laregia di Antonio Latella.

La tragicommedia è stata scritta nel 1931 e De Filippo la porta in scena con la sua compagnia fino agli anni Settanta, apportando continue modifiche. Attraverso la figura del protagonista Luca Cupiello, che cerca di riunire la famiglia ispirandosi all’ideale del presepe, che diventa per lui quasi un’ossessione, l’autore vuole mettere in evidenza l’impossibilità di ricreare il nucleo familiare, ormai sfasciato, solo durante una ricorrenza annuale come il Natale.

Antonio Latella supera il naturalismo della rappresentazione di De Filippo, rivolgendosi al pubblico attraverso simboli e invitandolo a immaginare il contesto in cui si svolge la storia. Il sipario si apre rivelando una disposizione lineare e simmetrica degli attori, con al centro il protagonista, Luca Cupiello, interpretato da Francesco Manetti, vestito di bianco, diversamente dagli altri personaggi che indossano abiti di tonalità scure e con gli occhi coperti da una mascherina. Al segnale del bastone di Luca, immagine della malattia incombente, tutti i personaggi iniziano a camminare verso il proscenio mentre dietro di loro viene calata una grande stella cometa, che rimanda al presepe tanto amato dal protagonista, e unico oggetto della scenografia presente nel primo atto. Latella utilizza pochi oggetti di scena, ma fortemente simbolici. Infatti ad ogni personaggio nel corso del secondo atto verrà attribuito un “pupazzo” raffigurante un animale che lo rappresenta (ad esempio Nicolino ha un maiale che rimanda ai suoi comportamenti rudi verso la moglie Ninuccia), ad eccezione di Concetta, moglie di Luca, che traina un carro grande quanto il peso delle vicende familiari che ricadono tutte sulle sue spalle. Nel terzo atto invece l’oggetto predominante è una grande culla, all’interno della quale si trova Luca ormai in fin di vita, circondato dai familiari disposti a formare il presepe, che richiama il tanto agognato sogno familiare del protagonista, che a quanto pare può realizzarsi solo in prossimità della morte. È chiaro dunque che Latella riduca la scenografia lavorando su immagini metaforiche che diventano macroscopiche.

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Tornando al primo atto, dopo il posizionamento della stella cometa, gli attori, sempre su segnale del bastone di Luca, iniziano a recitare coralmente e fedelmente le didascalie mentre vediamo Luca che muove la mano come se stesse scrivendo: Latella sembra così voler sottolineare la fedeltà al testo eduardiano immettendo eccessi di teatralità, ad esempio quando gli attori pronunciano, all’interno delle battute, anche gli accenti (gravi, acuti o circonflessi) accompagnandoli con movimenti che ricordano passi di danza. Inoltre Luca “scrive” l’opera mentre si sta compiendo quasi per ricordare al pubblico la presenza dell’autore, poiché la storia dello spettacolo è un patrimonio di confronto che non deve essere dimenticato tanto che, nel secondo atto, risuona costantemente la voce di Eduardo De Filippo “mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”, per rammentare la sua presenza persistente, mentre gli attori si guardano spaesati attorno, come per cercarlo.

Da segnalare sono sicuramente due aspetti: in primo luogo l’uso sapiente delle luci, statiche per quasi tutto lo spettacolo e che mettono così in risalto l’intensità delle azioni e dei sentimenti, che diventano poi intermittenti e artificiose a metà del secondo atto, dove la tensione accumulata a causa del triangolo amoroso che vede protagonisti Nicolino, Ninuccia e Vittorio, esplode in una danza frenetica durante la quale risuonano versi di animali come in una “giungla” di conflitti familiari. Nel finale le luci tornano a creare un’atmosfera cupa, che rimanda all’incombenza della morte, e forti chiaroscuri che rendono la scena come un dipinto. In secondo luogo, gli attori sono molto abili a passare dall’italiano delle didascalie al dialetto napoletano delle battute e dei dialoghi repentinamente, in particolare possiamo mettere in evidenza la bravura di Monica Piseddu, che interpreta Concetta.

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È rilevante il cambiamento apportato da Latella al finale: il figlio Tommasino uccide, soffocandolo con un cuscino, Luca, con l’approvazione di tutti i presenti, ponendo così fine alle sue sofferenze. Da un lato questo può essere considerato un gesto di amore e pietà nei confronti del padre, nonostante per tutta la vicenda Tommasino si sia dimostrato ingrato e scansafatiche, dall’altro potrebbe anche essere uno spunto del regista per esortare le nuove generazioni a fare tesoro dell’insegnamento della tradizione ma, al contempo, a superarla, rinnovando e sperimentando, facendo così rinascere il teatro.

Alice Del Mutolo
Stefania Pero

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone,
Emilio Vacca, Alessandra Borgia
drammaturga del progetto Linda Dalisi
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino – luci Simone De Angelis – musiche Franco Visioli
Teatro di Roma