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FDCT23-Summerless

Teheran vent’anni dopo la rivoluzione. Uno spaccato di società o meglio una società spaccata, piena di contraddizioni nella sua storia grande come in quella piccola di donne e uomini, e bambini che vanno a scuola. È difficile per noi capire fino in fondo quella parte di mondo, il Medio Oriente, con le sue terre devastate da guerre intestine e internazionali, contraddizioni religiose e civili, e ora  ancora di più attuali. L’Iran repubblica islamica dalla fine degli anni settanta, è uno degli stati più influenti e potenti della regione, sebbene le contraddizioni, di una società sempre più chiusa e integralista, non si fanno attendere, aggravate ulteriormente dall’embargo occidentale. Tutto questo nello spettacolo non c’è, non viene detto, ma è come se trasudasse dalle pareti della scuola, lo si percepisce nascosto tra le parole sconsolate della gente. Persone che non ci stanno, persone che nel loro piccolo pongono domande per comprendere, capire qualcosa che non sta accadendo come dovrebbe. Le domande di una mamma al maestro, sono le domande della maggioranza di un popolo che vuole un Iran senza restrizioni.

Il regista iraniano Amir Reza Koohestani, da tempo molto apprezzato nella scena internazionale, mette in scena Summerless ,in seconda rappresentazione europea, alla ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi. Uno spettacolo in lingua farsi che vuole indagare i rapporti tra diverse generazioni, tra i figli che aspirano a un cambiamento, a una vita in una società diversa e a scoprire il mondo, e i padri troppo ancorati ad un sistema di controllo, che  accettano perché hanno conosciuto solo quel sistema. Koohestani sceglie, come microcosmo per mostrare le trasformazioni che stanno avvenendo nella società iraniana, una scuola elementare. Un arco temporale di nove mesi,  scandito in tre stagioni, il periodo scolastico, in cui appunto, come si intuisce dal titolo, manca il periodo estivo. L’estate viene evocata come tempo futuro, lontano, dove i nostri protagonisti non vivono perché la scuola è chiusa, un tempo di sogno, utopia di un futuro migliore.

Tre personaggi: una sorvegliante, un pittore e una madre. Il pittore in passato viveva con la sorvegliante, ma avendo intenzioni di vita differenti si sono separati.  La sorvegliante viene incaricata di abbellire la scuola e creare laboratori. Non conoscendo altri,  chiama il pittore e gli dà la possibilità di insegnare arte in uno dei laboratori e di dipingere il muro. Si intravedono le prime crepe. Lui accetta il lavoro per guadagnare qualcosa e riconciliarsi con la donna, ma non verrà pagato. Inoltre il muro deve essere ridipinto perché ha ancora delle scritte propagandistiche  del vecchia dittatura. Parole che i bambini vedono continuamente, simbolo di una tara del passato che fa fatica a scomparire. Se si copre una crepa, mettendola da parte come cosa di poco conto, al minimo scossone si ingigantisce e poi crolla tutto. Così questi problemi si insinuano anche in un muro dipinto. Il pittore incontra una giovane madre in attesa della sua bambina nel cortile della scuola, le parla e si fa raccontare chi sia la sua bambina e il papà. Decide di dipingere la bambina con la madre e il padre. Costretto a cancellare il dipinto perchè si intravede ancora qualche scritta, decide di andarsene e continuare la sua vita da pittore in provincia. Una sua alunna crede di essere innamorata del maestro, ed è distrutta quando capisce che lui se ne va. Inoltre la madre, intravedendo sotto il bianco l’immagine di un uomo che tiene per mano la bambina,  comincia a pensare che il maestro nasconda qualcosa. Voci aggravate dagli altri genitori. La quiete tornerà quando si chiarirà col maestro e quando ci sarà un incontro tra lui e la bambina, per farla guarire dai suoi problemi. Non mangiava più, voleva vedere solo il maestro. Come è cominciato in punta di piedi, lo spettacolo finisce altrettanto, con la bambina che spinge la giostra in cortile, sogno di uno stravolgimento delle situazioni, sogno verso un futuro, forse adesso un po’ più dolce.

Uno spettacolo semplice nel suo sviluppo, che volutamente non intende mostrare apertamente tutti i problemi di una società che non riesce a scrollarsi di dosso il passato. Il regista li cela sotto altre situazioni, sotto simboli e piano piano piano i drammi vengono alla luce, uno dopo l’altro, forse con ancora più  forza. Siamo calati in una società dove la povertà delle strutture, come appunto le scuole, è diffusa, in cui i genitori non riescono a capire il motivo per cui pagare più tasse scolastiche, meglio più tasse in generale. Più welfare, più tasse diremmo noi. Una società che vuole farsi aperta, ma che grava i cittadini di limitazioni, addirittura i bambini nelle scuole, mentre queste nuove generazioni non le comprendono, aspirano a qualcosa di nuovo.

Amir Reza Koohestani ci mostra la speranza di un futuro forse migliore se certe limitazioni culturali saranno dissipate, e ci aiuta a spostare un poco più in là il nostro sguardo  sull’Iran.

Emanuele Biganzoli

 

di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani

scenografia Shahryar Hatami
costumi Shima Mirhamidi
video Davoud Sadri e Ali Shirkhodaei
musica Ankido Darash
interpreti Mona Ahmadi, Saeid Changizian, Leyli Rashidi
soprattitoli in italiano Laura Bevione per Festival delle Colline Torinesi/Fondazione TPE

produzione Mehr Theatre Group
coproduzione con Kunstenfestivaldesarts, Festival d’Avignon, Festival delle Colline Torinesi / Fondazione TPE, La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, Théâtre National de Bretagne, Münchner Kammerspiele, La Filature – Scène nationale de Mulhouse, Théâtre populaire romand

FDCT23 – PLATONOV

Il 7 e l’8 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri per la settima e ottava giornata del Festival delle Colline Torinesi si è tenuta, in prima assoluta, la reinterpretazione del regista Marco Lorenzi (al quale siamo riusciti a strappare una piccola intervista), affiancato dalla compagnia “Il Mulino Di Amleto“, del Platonov di Anton Cechov, uno dei primi drammi da lui scritti (1880-81).

Nel pre-spettacolo avremo una veloce e gaia presentazione del regista, gioiosa infatti sarà anche la prima parte del primo atto, dove vedremo i nostri attori imbandire un grande tavolo con bottiglie e contenitori di vetro contenenti vodka, importante simbolo della Russia e dello spettacolo in sè, e nel contempo, accompagnati dalla musica, gestita da uno dei personaggi seduto alla console. Dopo qualche minuto dall’arrivo di Platonov entreranno in scena pure la rabbia, il risentimento e la frustrazione fra i personaggi, sia per sciocchezze che per fatti di una certa importanza, ma l’allegria non lascerà mai il palco, creando una vera e propria altalena di sentimenti, la “Russità“.

Ma cos’è la “Russità“? Come ci spiega il regista, la russità è un neologismo utilizzato dai personaggi stessi, appunto per descrivere questa complessità emotiva altalenante continuamente presente durante il dramma e a volte anche durante la vita di tutti i giorni.

Cechov mandò il suo testo a diverse personalità di rilievo, fra cui una grande attrice del Maly Theatre di San PietroburgoMarija Ermolova, che, ahimè, gli consigliò di cambiare mestiere, al che lui si sbarazzò del dramma. In seguito, nel 1920, venne scoperta la prima stesura dell’opera e finalmente fu resa pubblica.

Il Platonov di Cechov è un opera divisa in 4 atti, ma in questa reinterpretazione godremo dei primi 3 e il quarto ci verrà narrato. Cechov, dopo quest’opera, abbandonò per lungo tempo il teatro dedicandosi ai racconti, ma nei suoi futuri testi teatrali prevarrà comunque la costante ricerca dell’uomo della felicità, sempre convinto che essa non si trovi lì con lui ma da un altra parte, tema che troviamo nel Platonov e spesso anche nella nostra esistenza. Altro tema di massima importanza è l’amore, amore al cui centro troveremo appunto Platonov, sposato, con amante e spasimante, ma tutto quest’amore è falso, l’amore non è un dono che bisogna ricevere per sentirsi completi, ma qualcosa di spontaneo e puro. Marco Lorenzi ci racconta come Oskaras Koršunovas (importante regista lituano) gli  abbia spiegato la sua intenzione di mettere in scena il Platonov dandogli di un ottimo consiglio:

Devi pensare che racconta della crudeltà dell’amore.

A mio parere, per questo dramma, Cechov fu influenzato da Arthur Schopenhauer per sua stesura. Qui citerei una delle frasi più famose del filosofo per far capire in che modo:

La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia.

Quest’opera, a sua volta, ha influenzato il famoso regista, sceneggiatore e scrittore francese, Jean Renoir nella stesura della sceneggiatura de La regola del gioco, dove possiamo trovare situazioni e significati simili a quelli del Platonov.

Realizzare questo dramma si deve essere rivelata un’impresa ardua, considerata la profondità e l’intensità dell’opera, ma il regista insieme alla compagnia ha svolto, a mio avviso un ottimo lavoro donandoci una godibile revisione. Gli attori come il pendolo oscilleranno fra amore e odio, tristezza e felicità con una facilità incredibile e riuscendo a rimanere credibili per tutta la durata dello spettacolo.

Per quanto riguarda la scenografia, ci troveremo inizialmente un tavolo vuoto, gli attori seduti su delle sedie e un pannello vetrato mobile praticabile in fondo al Décor. In seguito gli attori imbandiranno il tavolo, sposteranno le sedie e ci sarà un continuo mutamento della scena. Il pannello verrà utilizzato per il cambio del’ambiente, e in una scena di grande confusione verrà pure fatto ruotare velocemente in un mix di euforia e caos che rappresenterà a pieno i contrastanti sentimenti dei personaggi ormai alla deriva.

Recensione a cura di Roberto Lentinello

Da Anton Cechov
Regia Marco Lorenzi

Uno spettacolo di Il Mulino di Amleto

Con Michele Sinisi
e con Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D’agostino, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Angelo Maria Tronca
Adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi
Regista Assistente Anne Hirth
Style e visual concept Eleonora Diana
Disegno luci Giorgio Tedesco
Costumi Monica Di Pasqua

Co-produzione Elsinor Centro Di Produzione Teatrale, Festival delle Colline Torinesi, Tpe Teatro Piemonte Europa
Con il sostegno di La Corte Ospitale – Progetto Residenziale 2018
in collaborazione con Viartisti per La Residenza Al Parco Culturale Le Serre

FDCT23-LATE NIGHT_APPLAUSI SCROSCIANTI

Cosa si aspetta la società del XXI secolo dall’arte? Arduo compito dare una risposta a questo interrogativo e ai numerosi altri che il Bliz Theatre Group pone al pubblico con lo spettacolo Late Night. Novanta minuti di performance intensa, che racconta le macerie di un’Europa devastata dalla guerra attraverso gli occhi di tre donne e tre uomini che si trovano in una sala da ballo fatiscente. Qualcuno nemmeno si ricorda come ci sia finito. Padroni di questo luogo surreale sono il tempo e l’attesa. Ma cos’è che i sei stanno aspettando? Davvero siamo solo esseri umani in balia degli eventi e che altro non possono fare se non attendere che tutto quanto finisca? E, soprattutto, come trascorrere questo tempo? Danzando. Continua la lettura di FDCT23-LATE NIGHT_APPLAUSI SCROSCIANTI

FDCT23 – Intervista a Marco Lorenzi (Mulino di Amleto)

Il buongiorno dal Festival delle Colline Torinesi arriva oggi con un’intervista al regista Marco Lorenzi della compagnia Il Mulino di Amleto, in attesa del debutto in prima nazionale il 7 e l’8 giugno alle Fonderie Limone di Moncalieri di una personalissima e scatenatissima versione di Platonov, uno dei primi lavori, classe 1880, del maestro Anton Cechov.

Poche parole per descrivere il cuore di questo lavoro? Complessità, umanità, emotività, felicità, trasparenza, crudeltà dell’amore…  insomma:  russità!

E le Colline, cosa c’entrano con tutto questo?

“Il Festival delle Colline è un posto dove si può rischiare, si può sbagliare, si può cercare” Marco Lorenzi

Buona visione

A cura di

Andreea Hutanu, Eleonora Monticone, Roberto Lentinello

FDCT23 – RITRATTO DI DONNA ARABA CHE GUARDA IL MARE

Il 5 giugno alle Lavanderie a Vapore, quarta giornata della 23esima edizione del Festival delle Colline, è andato in scena  Ritratto di donna araba che guarda il mare. Il contrasto tra culture è essenzialmente al centro di questo spettacolo del regista Claudio Autelli e della compagnia milanese Lab121, che mettono  in scena il testo di Davide Carnevali, vincitore del 52° Premio Riccione per il Teatro nel 2013. 

La compagnia ha scelto di non apportare tagli al testo, ma di usarlo integralmente, accludendo sia didascalie che titoli dei capitoli. Per trasformare le parole di Carnevali in suono e immagini, hanno utilizzato una handycam, che durante la narrazione riprende piccoli luoghi creati del modellino attorno a cui gli attori recitano. La scenografa Maria Paola Di Francesco si è occupata anche della realizzazione del modellino: molto bello e preciso nei dettagli, mette lo  spettatore  davanti a luoghi creati con la carta. Grazie alle riprese della macchina si entra a far parte di posti misteriosi dei quali non conosciamo i nomi. Si intuisce solo di essere in una città del Nordafrica. È in queste riprese, utilizzate come fondale scenografico con l’aiuto di un videoproiettore, che ci viene raccontata la storia dei due personaggi principali. Un turista europeo che incontra una donna araba al tramontar del sole, di fronte al mare. Da qui nasce la curiosità da parte di entrambi di rincorrersi e conoscersi. Una storia che parla di amore, della condizione della donna e del potere dell’uomo. Le inquadrature che si creano davanti ai nostri occhi sembrano rappresentare dei quadri che ci ricordano per certi versi quelli di Hopper.

L’obiettivo dello spettacolo consiste nel tentativo di creare qualcosa che si componga pezzo per pezzo, come fosse un puzzle, mettendo insieme piccole parti che solo alla fine, unendosi, mostrino un disegno più grande. Il testo di per sé è, purtroppo, fin troppo statico e alcune delle scene potrebbero godere di un ritmo più incalzante, al fine di favorire la fluidità dell’azione. Quello su cui sembra giusto focalizzarsi, quando si va a vedere questo spettacolo, è la grande componente narrativa che ne costituisce l’ossatura: è il rapido articolarsi di un turbinio di battute, una “guerra verbale”, come l’ha definito il regista Claudio Autelli. Un testo che mostra quanto a volte la differenza di linguaggio, l’impossibilità comunicativa e le divergenze culturali non siano solo frutto di origini geografiche eterogenee ma anche di tradizioni sociali e radici etniche diverse. Una diatriba verbale che genera lontananza e fomenta malintesi, fino a degenerare nel disastro.

Quando la donna araba parla di “fratelli” non parla solo di parenti di sangue ma si porta dietro l’idea di “famiglia”, di onore, di protezione verso le “proprie” donne, di senso di possesso, di controllo. Da spettatrice italiana vedo queste dinamiche non totalmente estranee ad alcune delle nostre tradizioni. Poco cambia dalle situazioni che si verificano soprattutto al Sud Italia, come ha voluto aggiungere Giacomo Ferraù dopo lo spettacolo durante la “Mezz’ora con…”, essendo lui siciliano.

I personaggi sono quattro, tutti contornati da un’aura di mistero. Vengono usati soprattutto come simboli per manifestare dinamiche relative a differenti costumi e di abitudini sociali.

L’uomo europeo, interpretato da Michele Di Giacomo, è un personaggio molto schivo che vuole ammaliare la donna senza però riuscire a prendere coscienza di non essere in Europa ma di avere a che fare con una quotidianità totalmente diversa dalla sua. Uomo di grande presunzione, dai comportamenti egoistici, crede di poter ottenere tutto ciò che vuole.

Alice Conti veste i panni della donna araba, donna che non accetta il rigido stereotipo femminile inseguendo un desiderio di libertà non raggiunto appieno, nonostante le vedute decisamente aperte della sua famiglia. Si sente più indipendente rispetto alle amiche che è costretta ad accompagnare una ad una fino all’uscio di casa, anche a tarda notte. Però, nonostante la sua apparente forza interiore, chiama i suoi fratelli perché rivendichino il suo onore ne confronti dell’uomo che l’ha ferita.

Giulia Viana interpreta invece il bambino, fratello minore della donna, che si porta dietro un sentimento di inquietudine. È soprattutto sul finire della vicenda che si fa avanti il dubbio sulla sua reale natura: buona oppure no? Il suo compito è quello di aiutare veramente l’uomo europeo o, come per gli altri fratelli, ha gli occhi offuscati dalla vendetta? È una domanda a cui Davide Carnevali non vuole dar risposta, ma alla quale preferisce sia lo spettatore, a modo suo, a dare una soluzione interpretativa.

L’ultimo dei quattro, impersonato da Giacomo Ferraù, è il fratello maggiore della donna. Ci è dipinto come uomo compassionevole, nonostante si abbia l’impressione che non sia l’unica sfumatura della sua vera essenza. Si può essere caritatevoli e buoni anche quando un uomo ha fatto del male e ha approfittato della propria sorella? La sua rabbia è dovuta solo al senso di protezione verso la famiglia di appartenenza, o è invece la rivelazione di qualcosa di più oscuro?

L’autore, oltre a proporre una riflessione su migrazioni di popoli e scontri tra culture, se di speranza vuole parlare, non può che lasciar il messaggio finale al bambino. Si può, in questo caso, intravvedere uno spiraglio di ottimismo, vista l’ultima scena dello spettacolo? Possiamo credere inoltre che il confronto tra i due uomini (tra le due culture, aggiungerei) non si sia rivelato fatale? Anche questo non è esplicitato da Carnevali, stimolando così lo spettatore a concludere la storia in base al proprio pensiero e alla personale visione del mondo in cui vive.

Alessandra Botta

di Davide Carnevali
regia Claudio Autelli

con Alice Conti, Michele Di Giacomo , Giacomo Ferraù e Giulia Viana
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
suono Gianluca Agostini
luci Marco D’Andrea
responsabile tecnico Stefano Capra
organizzazione Camilla Galloni e Carolina Pedrizzetti
distribuzione Monica Giacchetto
ufficio stampa e comunicazione Cristina Pileggi
assistente alla regia Marco Fragnelli

produzione LAB121
in coproduzione con Riccione Teatro
con il sostegno di Next/laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo in collaborazione con Teatro San Teodoro Cantù

FDCT23 – I LIBRI DI OZ

Ambiente scuro, un grande proiettore bianco che risalta sul fondo della scena. Un tavolino nero al centro con sopra un grande libro, una lente tonda, delle scarpette rosse. Ecco la scena semplice, essenziale e per questo estremamente esplicativa de I libri di Oz, spettacolo che è andato in scena domenica 3 Giugno presso Caffè Muller per il Festival delle Colline Torinesi.

Chiara Lagani, fondatrice della compagnia teatrale Fanny & Alexander, ha tradotto e antologizzato per i Millenni di Einaudi i quattordici romanzi di Baum ambientati nel magico mondo di Oz. Con lei ha collaborato l’illustratrice Mara Cerri, realizzando una serie di disegni a colori e in bianco e nero per accompagnare le storie, ma soprattutto per aprire nuove chiavi di lettura e per dare nuova vita a racconti che da più di un secolo accompagnano l’infanzia dei bambini.

È proprio con l’ausilio di queste interessanti illustrazioni, proiettate alle spalle dell’attrice, e di alcuni suoni abilmente scelti, che Chiara Lagani inizia a raccontare lo spirito del ciclo dei libri di Oz: inizia leggendo dal libro, ma subito quello che sembra essere un reading si trasforma in un vero e proprio recital grazie al carisma dell’attrice, che pur essendo sola sulla scena, dà l’impressione di essere circondata da tutti i personaggi nominati.
Con l’ausilio di un microfono crea effetti sonori e voci per ogni protagonista della storia che prende la parola.

Quasi come una maestra che vuole insegnare ai suoi alunni la creatività da dietro la cattedra, anche Chiara Lagani rimane quasi sempre in piedi dietro al tavolino e per questo può sembrare un po’ statica, ma grazie al movimento della parte superiore del corpo e al controllo e l’uso della voce, riesce a trasportare tutti gli spettatori nella storia che sta abilmente raccontando, catturando l’attenzione per tutto il tempo.

Tramite l’evocazione di queste storie e dei personaggi sono tanti i temi affrontati dall’antologia, che chiaramente si rivolge anche agli adulti, pur essendo pensata per i bambini: dall’immaginazione al mito, dall’amore alla morte, le tematiche sono molteplici e tutte possono dare spunti di riflessione.

Sebbene questi libri siano stati oggetto delle più svariate interpretazioni, da quelle politiche a quelle economiche, da quelle religiose a quelle psicanalitiche, lo spettacolo non vuole imporre al pubblico una chiave di lettura, ma mostrare semplicemente la varietà di questo mondo e la sua perfetta e logica costruzione: tutto, per quanto fantastico, ha un senso, anche geograficamente parlando; infatti anche l’attrice, circa a metà dello spettacolo, sente l’esigenza di spiegare agli spettatori la composizione geografica del Mondo di Oz, mostrandone la complessa articolazione, che appare infatti totalmente coerente. L’autore Baum non ha di certo lasciato niente al caso.

Vengono quindi dati allo spettatore tutti gli strumenti per comprendere queste storie, per amarle o per non aprezzarle, e per trovarvi significati nascosti.

 

a cura di Alice Del Mutolo

 

di Chiara Lagani
regia Luigi De Angelis

con Chiara Lagani
testi di Frank Baum tradotti da Chiara Lagani per I Millenni di Einaudi
illustrazioni Mara Cerri
paesaggio sonoro Mirto Baliani
animazioni video Luigi De Angelis

produzione Elastica, E/Fanny & Alexande

presentato in collaborazione con Giulio Einaudi Editore

FDCT23 – Copioni di commento. Giulio Cesare, Pezzi staccati

Seconda giornata del Festival delle Colline Torinesi, ormai arrivato alla sua 23esima edizione e alla nostra terza collaborazione con loro.

Io ed Emily ci siamo spostate dal nostro palchetto per andare a sederci sui cuscini alla Fondazione Merz per assistere alla performance di “Giulio Cesare, pezzi staccati”.

Cosa abbiamo visto? Questa è la domanda che ci siamo fatte appena siamo uscite dalla fondazione Merz.

SIPARIO

Sulla terrazza di casa, al calar della sera, mentre il glicine all’angolo segue le trame di una brezza leggermente fastidiosa, Emily ed Elisa discutono a proposito dello spettacolo visto poc’anzi.

Emily è seduta al grande tavolo bianco che cerca di bere da un bicchiere senza usare le mani.

Elisa entra reggendo tra le mani una grossa pentola (si capisce che scotta perchè usa le presine da forno) ma appena si accorge di quello che sta facendo Emily arresta la sua entrata per guardarla con un leggero disgusto dipinto in volto.

 

Emily (accorgendosi dell’ingresso di Elisa) :  Ma perché quando vengo a teatro con te non capisco mai cosa ho visto e ci ritroviamo a scriverci sempre su…?

Elisa (appoggia la pentola sul tavolo schiaffeggiando la mano dell’altra che è subito scattata verso il cibo) : Perchè scegliamo gli spettacoli in base al titolo e forse dovremmo smetterla. Secondo me dovremmo cambiare la metodologia  di scelta degli spettacoli.

Emily : Mi trovi d’accordo. Ora, siccome non so da dove partire, inizierò con la domanda più semplice: ti è piaciuto?

Elisa : Non è semplice dare un parere quando non hai capito bene cosa hai visto… Oddio, molto bello e interessante il modo di lavorare sulla ferita alla gola di Giulio Cesare creando nuovi metodi di comunicazione alternativi alla voce.

Emily (approfittando di un momento di distrazione ruba qualcosa dalla pentola cercando di mangiarlo di nascosto) : In effetti è una performance basata sull’origine  della comunicazione a partire proprio da dove il suono nasce all’interno della nostra gola. È stato abbastanza impressionante vedere la ripresa laringoscopica che il primo attore ha operato su se stesso. Non so tu ma io non avevo mai visto l’interno di una gola. (fa sparire il boccone in un morso)

Elisa le molla una sonora pacca tra le scapole accorgendosi che la meschina sta soffocando a causa del boccone rubato.

Elisa : Beh sono cose che non si vedono spesso a teatro. Sono impressionata dalla resistenza dell’attore perché mi ricordo del mio esame laringoscopico! è fastidioso avere la lucina nel naso e in gola  figuriamoci recitando Shakespeare! Complimenti!

finalmente iniziano a cenare e Emily non è un bello spettacolo. Elisa quasi non tocca cibo  disgustata dall’allegria famelica dell’altra.

Emily: Comunque con gli attori vestiti con quelle tuniche bianche sembrava di essere un po’ in un ospedale. Erano un mix tra medici,monaci e chierichetti. Anche la location contribuiva all’illusione ambulatoriale: bianco al limite dell’ossessione e scenografia scarna, essenziale e glaciale.

Elisa (ispirata, è ossessionata da cavalli e unicorni) : Vogliamo parlare del cavallo?

Emily( ribadendo l’ovvio): Era un vero cavallo!

Elisa : Era un bellissimo cavallo! Mi chiedo il significato delle parole bianche che gli hanno scritto addosso in contrasto con il cavallo che era l’unica cosa nera all’interno della performance: Mene Tekel Peres…

Emily (con la bocca piena) : Beata te che sei a questo punto, io sono rimasta a cercare di capire il significato del cavallo stesso. Forse per capire alcuni significati dovremmo ,come ci ha gentilmente suggerito la professoressa Mazzocchi (salve professoressa), evitare di intellettualizzare ciò che abbiamo visto attribuendo agli elementi scenografici il loro significato di base.

Elisa (aggrotta le sopracciglia) : Quindi per te il significato del cavallo è.. che è un cavallo? complimenti, molto profondo…

Elisa si alza e inizia a sparecchiare un po’ seccata perchè tocca sempre a lei fare tutto. Per manifestare la sua irritazione raccoglie le stoviglie con troppa veemenza, punteggiando la sua breve filippica di allegri tintinnii

Elisa (digrignando un po’ i denti) : Però hai ragione sul pensare basic,mi viene in mente il colore rosso che rievocava il sangue, il pulpito da cui era incomprensibile il discorso del laringectomizzato Marco Antonio o per concludere le lampadine accese tutte insieme e fatte scoppiare una ad una come se fossero le fasi di passaggio della vita che mano a mano si spengono e non torneranno più indietro.

Si alza anche Emily che, dopo aver schivato una lama sfuggita dalle mani nervosette di Elisa, decide di dare una mano all’amica.

Emily : Probabilmente assistendo a questo tipo di teatro concettuale non ci si dovrebbe interrogare troppo su ciò che si vede ma semplicemente, andando a casa, conservare la sensazione che ti resta.

Elisa : Ci sono degli spettacoli che vanno visti e basta, interiorizzandoli nell’intimo della propria camera da letto. Senza farci troppe parole sopra..e questo è uno di quelli.

Emily (sbadigliando) : Quindi camera da letto?

Elisa : Si, buonanotte!

Emily : Sicuramente sognerò il cavallo, buonanotte.

BUIO

SIPARIO.

A cura di Elisa Mina ed Emily Tartamelli

di Romeo Castellucci
regia Romeo Castellucci

ideazione Romeo Castellucci
con Giulio Cesare: Gianni Plazzi, Marcantonio: Maurizio Cerasoli, …vskji: Sergio Scaraltella
assistenza alla messa in scena Silvano Voltolina
tecnica Nicola Ratti
responsabile di produzione Benedetta Briglia
promozione e comunicazione Gilda Biasini, Giulia Colla
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci

produzione Societas

Nel quadro de “e la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale”
Progetto speciale della città di Bologna 2014

FDCT23 – LIV FERRACCHIATI / THE BABY WALK TRILOGIA SULL’IDENTITA’

Ieri sera, 1 giugno 2018, alla serata di apertura del Festival delle colline torinesi è andato in scena al Teatro Astra di Torino la trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati/ The Baby Walk in collaborazione con Lovers Film Festival.

La trilogia è strutturata in tre capitoli, non legati da un filo narrativo ma uniti tra loro dal tema dell’identità di genere: “Peter Pan guarda sotto le gonne”, “Stabat Mater”, “Un eschimese in Amazzonia”.

The Baby Walk sono: Liv Ferracchiati (regista/autore, a volte, anche in scena), Greta Cappelletti (dramaturg/autrice, a volte, anche in scena), Laura Dondi (costumista/danzatrice), Linda Caridi (attrice), Chiara Leoncini (attrice), Alice Raffaelli (attrice/danzatrice), Lucia Menegazzo (scenografa), Giacomo Marettelli Priorelli (light designer/attore), Andrea Campanella (videomaker).

Capitolo 1 “Peter Pan guarda sotto le gonne” durata 70’

Sul palco c’è il nostro Peter Pan: una bambina bionda di 11 anni e mezzo (Alice Raffaeli) che si dimena con un vestito rosa che non vuole mettere, non se lo sente addosso ma la madre insiste. Pertanto Peter è costretto ad andare con il vestito al parco a giocare a pallone, la sua passione, e viene presa in giro da Wendy (Linda Caridi) una ragazzina mora di 13 anni di cui si innamora. Ed è grazie all’amicizia con Wendy e la chiacchierata con la fata Tinker Bell(Chiara Leoncini) la fata che esiste, che Peter piano piano acquisisce la consapevolezza della sua identità. E’ un bambino in un corpo di una bambina. Comincia a ribellarsi ,infatti,  e non indosserà mai più il vestito rosa.”Peter non è esattamente una femmina ma precisamente un maschio”. Peter comincia, come se si guardasse allo specchio, una danza con sua ombra (Luciano Ariel Lanza) la guarda, la tocca. E’così che dovrebbe essere il suo corpo da grande, un ventenne con le braccia muscolose, le spalle grandi e i capelli corti. Ma Peter sa che non andrà in questo modo, ed è per questo che non vuole crescere; vuole restare così come è, non vuole che il suo corpo si modifichi, non vuole che i suoi fianchi si allarghino, che le crescano delle protuberanze morbide sul petto. I genitori, che non agiscono mai direttamente ma sono presenti solo come voci, esultano all’arrivo delle mestruazioni alla loro bambina che è finalmente diventata un signorina, mentre per Peter questo è solo il segno indelebile di un corpo che è sempre meno sotto il suo controllo. La madre è molto apprensiva ,quasi soffocante, vorrebbe evitare ciò che ha intuito ma che non vuole accettare; il padre si esprime solo attraverso definizioni da vocabolario e sembra non capire cosa sta succedendo alla sua bambina. Sostanzialmente Peter è solo con tutte le sue paure. Peter, incarna tutti quegli adolescenti transgender che si trovano totalmente soli a gestire il disagio di avere un corpo che non rispecchia la percezione di sé, un corpo che avrebbe dovuto essere diverso.“Tu non sei un bambino vero Peter e io non sono la tua Wendy” riecheggia la voce interiore.

Capitolo 2 “Stabat Mater” durata 85’

Viene raccontata la vicenda di un ragazzo di 27 anni, scrittore; vive al maschile ma ha le sembianze di una ragazza. La sua storia viene analizzata in seduta con una psicoanalista (Chiara Leoncini) ripercorrendo in flashback la storia d’amore con la sua compagna(Linda Caridi) da cui attualmente si sente sempre più distante. Un elemento centrale considerato in terapia è la sua incapacità a buttarsi: ha paura e si sente sempre in stato di inferiorità, il che è strettamente connesso a un legame edipico irrisolto con la madre. La madre, rappresentata come un volto in uno schermo, che non ha ancora metabolizzato l’identità di suo figlio, lo chiama insistentemente e il figlio risponde in qualunque momento non potendo avere in questo modo la propria intimità. Di fatto non sanno cosa dirsi, è un parlare di nulla. La mamma vuole controllare che il figlio abbia mangiato perché se ha mangiato allora vuol dire che va tutto bene, che sua figlia sta bene. La tematica del cibo attraversa tutta la trilogia, cibo come vita contrapposto alla morte. Per tutta la durata dello spettacolo si ha la sensazione di essere nella sua testa dove momenti di quotidianità si fondono a momenti di pura invenzione. Ciò è reso da una drammaturgia con un ritmo serrato in cui il linguaggio quotidiano si alterna ad un linguaggio con forti connotati emotivi; il linguaggio dell’inconscio.

 

Capitolo 3 “Un eschimese in Amazzonia” durata 65’

Quest’ultimo capitolo della trilogia dalla durata di 65 minuti tratta del difficile rapporto della persona transgender (l’eschimese) e la società (il coro). Al centro c’è l’eschimese con un cappuccio, come per proteggersi, e un microfono in mano, intorno a lui si muove il coro, lo segue, lo accerchia. Il coro,composto da 4 attori (Greta Cappelletti, Laura Donfi, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli), parla quasi sempre all’unisono con una lingua ritmata, molto spesso con accompagnamento musicale che lo rende ipnotico e pervasivo, a tratti soffocante e che si riflette in una gestualità scandita, ripetitiva. Sottopone l’eschimese ad un fuoco di fila continuo di domande ma non è realmente interessato ad ascoltare le risposte. Infatti hanno già le risposte fatte di stereotipi e luoghi comuni. Il monologo dell’eschimese, che si rifà al format della stand up comedy, è improvvisato e coinvolge il pubblico utilizzando l’ironia e la comicità per affrontare l’attualità politica ed esperienze di vita quotidiana. Oliver Hutton, l’eroe dell’infanzia diventa il simbolo del ”non arrendersi ”; infatti nonostante fosse sempre ferito alla spalla era sempre in campo e vinceva. Alla fine i fari accecano il pubblico, effetto che contribuisce a mantenere lo stato di confusione e spaesamento in cui lo spettatore è coinvolto per tutta la durata dello spettacolo, poi cala il buio e l’eschimese calcia il pallone. Il pallone apre e chiude la trilogia, un pallone che rappresenta il diverso ma allo stesso tempo la libertà.

Come è emerso dalle interviste fatte al pubblico dal progetto “nuovi sguardi”, gli spettacoli sono piaciuti molto e la tematica della ricerca dell’identità  e del conseguente disagio interiore è arrivato dritto al pubblico che si è sentito coinvolto ed emotivamente mosso.” Un turbamento emotivo”: così uno spettatore l’ha definito.

Carola Fasana

 

XXIII Edizione Festival delle Colline Torinesi

Presso la Fondazione Mertz si è tenuta il 26 aprile scorso la presentazione della XXIII edizione del Festival delle Colline Torinesi, dedicato alla drammaturgia e tematiche contemporanee.

Il Festival, diretto da Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla, è realizzato in sinergia con la Fondazione  Teatro Piemonte Europa. Il Festival presenta autori, registi, interpreti  di diverse paesi del mondo, tra cui Francia, Svizzera, Spagna, Grecia, Romania, Iran, Costa D’Avorio oltre che all’Italia, ancora una volta per ribadire al sua internazionalità e apertura verso altri contesti teatrali. Tante le collaborazioni, tra le quali quelle con Teatro Stabile Torino, Piemonte dal Vivo, Casa del Teatro Ragazzi e con altre istituzioni non teatrali come Il Museo Nazionale del Cinema e la Fondazione Merz.

Dall’1 al 22 giugno 2018 si potrà assistere a molti spettacoli e incontri stimolanti che ruotano attorno al Festival .

Alla presentazione si sciorina il programma degli spettacoli anticipando che questa edizione avrà come tema principale il Fluctus, il viaggio in tutte le sue declinazioni. Il viaggio e il valore della memoria in Empire di Milo Rau, dove protagonisti sono quattro attori/migranti che raccontano le loro odissee. Ancora le migrazioni come fenomeno culturale ritornano in Birdie di Agrupacion  Senor Serrano, compagnia catalana che accosta i migranti agli Uccelli di Hitchcock. La compagnia greca Blitz Theatre con Late night cercherà di capire cosa stia accadendo all’Europa, raffigurandola ferita e decadente.  Il viaggio interplanetario con Vieni su Marte di Vico Quarto Mazzini, Premio Siae Sillumina.

Un altro tema importante è il rapporto tra le generazioni e i sessi. L’apertura del festival sarà affidata alla Trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati. Tre spettacoli nella stessa serata partendo con Peter Pan guarda sotto le gonne, poi Stabat Mater e infine Un Eschimese in Amazzonia. L’iraniano Amir Reza Koohestami in Summerless riflette sul rapporto fra uomini e donne, giovani e vecchi, in mondo che sta cambiando. Lo scontro tra le culture presente sia in Causa di Beatificazioni di Massimo Sgorbani diretto da Michele di Mauro, e sia in Ritratto di donna araba che guarda il mare di Davide Carnevali, messo in scena da Lab121 con la regia di Claudio Autelli.

Molti sono gli spunti letterari o riferimenti alla drammaturgia classica: Giulio Cesare. Pezzi staccati da Shakesperare, spettacolo-istallazione di Romeo Castellucci; Dialoghi con Leucò, studio firmato da Silvia Costa e dedicato al mondo di Cesare Pavese; Platonov / commedia senza padri, progetto biennale cechoviano del Mulino di Amleto; Oh no, Simon Weil!, liberamente tratto dalla vita e dalle opere di Simon Weil, monologo di Milena Costanzo; uno spettacolo itinerante di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti, Dickinson’s Walk; una serata a soggetto di Chiara Lagani, sulla saga dei Libri di Oz. Inoltre saranno presenti il premio Ubu per il miglior spettacolo 2017 Macbettu, un Macbeth recitato in sardo e da soli uomini, e il premio Ubu miglior attrice under 35, Cristina Balivo che reciterà in La buona educazione della Compagnia Dammacco. A chiudere il Festival sarà Aiace di Linda Dalisi e Matteo Luoni che riscrivono la tragedia di Sofocle, interpretato dall’attore ivoriano Abrham Kouadio Narcisse.

Oltre a questi e altri spettacoli, non mancheranno eventi che ruotano attorno al Festival, come “Cinema in scena”, in collaborazione con Il Museo Nazionale del Cinema, proiezioni di film che si terranno al cinema Massimo, inerenti agli spettacoli in cartellone: a maggio, Untitled viaggio senza fine di Michael Glawogger/Monika Willi, nel mese di giugno, Uccelli di Alfred Hitchcock, Macbeth di Roman Polanski, Stanze di Gianluca e Massimiliano De Serio.

Ci saranno incontri con gli artisti de Festival a cura di Laura Bevione e un incontro dal titolo Fluctus, riflessioni sulle declinazioni del viaggio, aperitivo per confrontarci su viaggi geografici, emotivi, intellettuali, teatrali che caratterizzano la nostra epoca contemporanea.

Ma questo non basta. Ritorna, l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori., in cui si possono commentare spettacoli e consigliare quelli da non perdere.

Gli spettacoli, oltre che nei teatri torinesi Astra, Cafè Muller, Casa del Teatro e Gobetti, saranno proposti anche a Moncalieri alle Fonderie Limone, a Collegno alla Lavanderia a Vapore e in spazi cittadini non tradizionali quali la Fondazione Merz, il Superbudda e il Caffè Elena.

Dopo aver visto il volto di bambini che non hanno mai avuto modo di sorridere […],

dopo esser stati in balia dei venti del deserto che accecano e bruciano gli occhi per farvi dimenticare […],

allora è lo stesso, vivere, morire, sognare o amare,

allora la nostalgia è come il troppo vino che finisce per ucciderti […].

(Lida Abdul, Segno di artista: Time, Love and the workings of anti-love)

Con questa poesia  vi auguriamo buon festival chiedendovi di partecipare numerosi, non per fare come si suol dire numero, ma condividere il momento teatro  con chi vi sta accanto e chi sulla scena. Ribadendo che anche un buon spettatore è necessario alla rappresentazione. Vi aspettiamo!

Per chi sente un desiderio profondo di partecipare al Festival e vuole divorare gli spettacoli, indichiamo riduzioni dei biglietti se acquistati entro al data del 13 maggio. I biglietti possono essere acquistati al Teatro Astra, nelle rivendite Vivaticket (online www.vivaticket.it), A  Infopiemonte  – Torinocultura.

@Contatti (per info e abbonamenti):+011 5634352

+393462195112; www.festivaldellecolline.it

@Luoghi: Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Cafè Muller, Fonderie Limone (Moncalieri), Lavanderia a Vapore (Collegno), Fondazione Merz, Superbudda, Caffè Elena.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

Stanze/Qolalka: siamo diversi?

Martedì 20 giugno, in occasione del Festival delle Colline Torinesi, va in scena alle Fonderie Limone lo spettacolo diretto da Massimiliano e Gianluca De Serio Stanze/Qolalka.

Lo ammetto: quando sono entrato in teatro e ho visto due leggii senza alcuna scenografia se non un paio di sedie, un cassone e due teli bianchi ho avuto paura. Temevo di risentire la classica storia sul quanto siamo cattivi e poco accoglienti noi occidentali nei confronti dei fratelli africani in un’accozzaglia di letture e video utili solo all’autocelebrazione di un’idea.

E invece? Invece i Fratelli De Serio hanno dato vitae spazio a storie forti e coinvolgenti raccontate da due immigrati e ora mediatori 

culturali di nome Abdullahi e Suad che, pur non essendo attori, hanno portato in scena ciò che molti grandi professionisti (o presunti tali) italiani non riescono a trasmettere: la verità.

Sì, perché Abdul e Suad sono anche autori dello spettacolo e, per poco più di un’ora, hanno raccontato cosa è realmente la Somalia e di cosa tratta la loro cultura: tra poesia, religione, guerre, morti e un’instabilità politica tristemente nota a molti paesi africani.

La messinscena, come ho già accennato ironicamente, è essenziale: è evidente come in questo spettacolo giochi un ruolo da protagonista l’uso sapiente delle retroproiezioni dei Fratelli De Serio, non a caso – ottimi – registi cinematografici. I teli bianchi sono infatti mobili e vengono spostati dai due attori per creare delle stanze ogni volta differenti, arricchite da immagini, parole e sottotitoli, in un’alternanza di idiomi tra somalo e italiano, i quali finiscono per fondersi in un’unica lingua nella parte iniziale dello spettacolo, in cui le parole italiane vengono simpaticamente ”somalizzate” (ad esempio ”insalata” diviene ”ihynsalatah”) per aiutare il pubblico a prendere confidenza con una lingua, così come una cultura, apparentemente tanto diversa dalla nostra.

La domanda che ci si pone è: siamo veramente tanto diversi? La risposta non è importante, siamo esseri umani entrambi. Ma è innegabile che vi siano delle disuguaglianze tra il popolo italiano e quello somalo: ciò che salta immediatamente agli occhi è l’intensità dell’aspetto religioso. Questo è infatti molto presente nelle vite dei somali che continuamente durante lo spettacolo si rivolgono a Dio.

Inevitabile una riflessione sul testo, seppur buono, della rappresentazione: non c’è stata la volontà di spingersi ancora più in là di quanto si sia fatto per muovere delle accuse e portare delle testimonianze su quello che per la Somalia era ed è un vero e proprio ”cancro” che la divora dall’interno: lo jihadismo. Ho avvertito una necessità di dover mostrare solo il lato buono della cultura somala (cosa peraltro legittima) senza volersi mai addentrare nei fantasmi che hanno costretto centinaia di migliaia di persone a scappare per cercare un posto in cui vivere in sicurezza, lontani dalle bombe e dalla violenza gratuita delle minoranze belligeranti.

Esclusi Suad e Abdullahi, tutti gli attori siedono tra il pubblico e il senso di insieme tra platea e palco è palpabile, vista anche la scelta di luci che potrebbe risultare poco rischiosa ma anche funzionale allo spettacolo: il palco è sempre molto illuminato con un piazzato e, questa scelta, aiuta la distruzione della quarta parete come voluto anche per gli attori, i quali si rivolgono direttamente al pubblico e non recitano: raccontano.

I rimandi e le critiche al fascismo sono moltissimi. Un momento di fortissimo impatto emotivo è stata la stanza (o scena che dir si voglia) in cui si ricorda dei saccheggi e delle violenze perpetuati dagli italiani ai danni del popolo somalo negli anni del colonialismo. Quest’ultima mi è parsa una fondamentale chiave di lettura dello spettacolo: chi siamo noi per giudicare chi fugge da una guerra? Chi siamo noi per ostacolare chi cerca una terra diversa da quella che hanno calpestato per la prima volta? Dov’è finita la nostra umanità? La realtà è che una parte importante del nostro paese è composta da persone egoiste e attente a cercare un capro espiatorio che permetta loro di vivere felice. E’ stata quindi ottima la scelta degli autori e dei fratelli De Serio di sbattere in faccia la realtà a chi era in platea, di dire chiaramente le cose come stanno: ci lamentiamo di chi non ha niente e cerca qualcosa da noi ma, noi, che qualcosa lo avevamo, da loro ci siamo andati comunque. E il nostro aiuto non era richiesto.

Lo spettacolo si divide in tre momenti fortemente emozionanti: il racconto di un ragazzo somalo che, tramite un video, descrive la terrificante violazione dei diritti umani subita in un carcere libico; la testimonianza di una mamma come Suad dell’uso della poesia, la quale è fortemente presente nella cultura somala; il racconto di Abdullahi sul perché ha scelto di mettersi su un barcone e rischiare la vita e su quali sono i passaggi, le esperienze, i rischi concreti di chi sceglie di intraprendere questo pericolosissimo viaggio.

Molto interessante l’uso della tecnologia in tutto lo spettacolo, specialmente se abbinata alla tradizione somala: una volta le poesie (che, come già descritto, sono parte integrante della loro cultura) venivano tramandate oralmente, mentre ora i principali canali di diffusione sono Whatsapp, Viber, Facebook e Youtube. Questi ultimi, come testimonia Abdullahi, sono anche fondamentali nell’aiuto all’integrazione dei nuovi arrivati, i quali possono mettersi in contatto prima della partenza con chi ha già subito il calvario che li aspetta.

Abdullahi, infatti, racconta di come l’occidente sia visto come una terra promessa dai profughi africani ma, per una persona come lui che ce l’ha fatta, altre cento non riescono ad integrarsi e a trovare un motivo per vivere.

La colpa? Questo non ci è dato saperlo. Stanze/Qolalka è una straordinaria fonte di riflessione su quello che vuol dire integrarsi e sul come spiegare una cultura in modo fresco e a tratti brillante, oltre che emotivo e drammatico. L’auspicio è che la ricerca dei fratelli De Serio non si fermi qui e che si porti avanti questo progetto anche su altre culture apparentemente, e forse effettivamente, tanto lontane dalle  nostre.

Luca Vincent Pecora