120 grammi

 “Ho sempre voluto,

tornare

al mio corpo

dove sono nato.”

(Allen Ginsberg)

Cosa definisce l’identità di una persona? Basta venire al mondo per essere visti? E se nessuno ci vede esistiamo lo stesso?

Fai vedere che ti dai importanza, e ti sarà data importanza, assioma cento volte più utile nella nostra società di quello dei greci “conosci te stesso”, rimpiazzato ai giorni nostri dall’arte meno difficile e più vantaggiosa di conoscere gli altri.

(Alexandre Dumas – Padre)

1844 le parole di Dumas sembrano scolpite immortali senza tempo, ed arrivare con la potenza dell’attualità sino a noi. Il bisogno di farsi vedere per affermare la propria esistenza, restare sotto i riflettori per non piombare nel terrificante buio della profondità del sé. Trovare nello sguardo dell’altro l’autorevolezza di porci in esistenza.

Sara Pischedda con ironia e coraggio riesce a mettere il suo corpo a servizio della narrazione, raccontandoci di una “società dello spettacolo”, come la definirebbe Guy Debord,  impegnata a mostrare corpi osceni caratterizzati da un’ostentazione sguaiata, irriverente, scandalosa.

Seduti nel buio della sala odiamo il riconoscibile rumore del proiettore cinematografico e su un red carpet fatto di luce bianca comincia a sfilare il contorno giunonico di una donna. Vestito attillato giallo fluo, scarpe a spillo, il corpo si muove a scatti sincopati assecondando i click e i flash non di fotografi, come ci aspetteremmo da un red carpet, ma quelli della fotocamera di un telefonino che scatta selfie in maniera crescente sempre più compulsiva. 

Buio, i rumori dei click cessano. Questo silenzio dà allo spazio una dimensione liquida. La luce cambia e in questo stato di ritrovata placenta Pischedda comincia a spogliarsi, non in maniera erotica o sensuale, ma come trasfigurando il proprio corpo che da umano a un certo punto ci appare come materia plasmabile, feto che si dimena con fatica  ma senza frenesia, assecondando i tempi dilatati dell’attesa. Il respiro è all’unisono con il battito del cuore è alla fine il corpo scivola via da quello stretto tubo giallo fluo. Non c’è dolore in questo travaglio non è una vera è propria rinascita ma più un “ritorno al corpo dove sono nato” un ritorno alle origini.

Il corpo che si manifesta in un nudo integrale come pura bellezza non ha nulla a che vedere con l’osceno precedente. Un corpo morbido, burroso, accogliente, non propriamente in linea con i canoni estetici che siamo abituati a subire. Poi accade qualcosa di semplice ma al tempo stesso straordinario, questo corpo a noi estraneo dichiara il suo nome. Un atto tanto astratto ha in realtà un potere estremamente concreto, fisico, nel tracciare confini identitari. Le parole di presentazione e i movimenti che le accompagnano vengono ripetuti in maniera quasi ossessiva, come se passassimo più volte un pennarello sulla stessa linea per accentuarne i contorni. I movimenti si fanno sempre più larghi e il corpo tende a riempire l’intero palco.

Questo corpo importante che nella nostra società contemporanea sarebbe invisibile probabilmente per mancanza di like, compie un atto squisitamente politico e si riappropria del suo spazio nel reale, il suo spazio trimensionale, occupandolo.

Ironica, intelligente, coraggiosa non per aver messo a nudo il suo corpo ma per aver portato alla luce, in maniera schietta e tremendamente sincera, paure e frustrazioni nel tentativo, una volta mostrate, di legittimarle all’esistenza. Così quei 120g che gravano come ipoteca sul presente, diventano la traccia di un destino quello che porta Pischedda ad indagare e ricercare attraverso la danza una conoscenza profonda del suo corpo nel lungo ed accidentato cammino dell’accettazione di sé, rendendo per questo il suo messaggio universale.

Senza sovrastrutture, fuori dagli standard, il corpo ritrova l’istinto alla libertà

P.S. non ci sono foto della nudità di questo corpo online a conferma di un bisogno di riappropriazione di una spazio reale che può essere visto e condiviso solo nell’intimità di un un incontro.

Nina Margeri

  • Coreografia e interpretazione Sara Pischedda
  • Suono Marco Schiavoni
  • Light design Stefano De Litala

ANOTHER ROUND FOR FIVE – CRISTIANA MORGANTI

Torniamo sempre in un punto della nostra storia personale nel quale ci siamo sentiti a nostro agio, per ricordare quello che è stato con spensieratezza, oppure facciamo visita ad un episodio di estremo malessere, in modo del tutto involontario, colpevoli quei ricordi che hanno causato un turbamento o un estremo piacere. Diverse tipologie di curve nel nostro cammino rettilineo.

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MISERICORDIA

All’inizio vi è solo un flebile ticchettio; alla fine, il suono sincopato di una banda di paese. Nel mezzo, la storia del giovane Arturo, figlio settimino della prostituta Lucia, nato a seguito delle botte con cui l’uomo che l’aveva messa incinta ha ucciso sua madre, e che le amiche-sodali Bettina, Anna e Nuzza hanno deciso di accudire e crescere, pur nella miseria di un appartamento desolato, un tugurio che non basterebbe per una persona, dove per sopravvivere devono vendere il loro corpo alle fameliche voglie degli uomini di passaggio.

Il ticchettio è quello dei ferri da maglia: le tre donne sferruzzano, con Arturo (il bravissimo Simone Zambelli), affetto da un ritardo mentale dovuto alla sua nascita traumatica, che dondola a quel ritmo, poi si alza, danza, sublimando con il movimento sinuoso del corpo, la malattia, in uno stupore incantato che non ha bisogno di parole. E’ naturale pensare quelle donne come le tre Moire, le filatrici cui anche gli déi dovevano sottostare, che filano la vita, la misurano e, infine, ne decidono la lunghezza: e quello cui stiamo per assistere è il momento del taglio, della separazione, ma non è la morte ciò che attende Arturo, nel teatro di Emma Dante tutto si fa continua metamorfosi e trasformazione e la separazione che le tre donne hanno architettato da Arturo non è un abbandono, una fine, un lutto, piuttosto un’alba che miracolosamente disperde in colori delicati una notte nerissima.

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GONZAGO’S ROSE – Tardito/Rendina

Mercoledì 29 gennaio 2020 la Lavanderia a Vapore di Collegno ha ospitato lo spettacolo Gonzago’s Rosedella compagnia Tardito/Rendina; uno spettacolo prodotto per la prima volta nel 1999 da Federica Tardito e Aldo Rendina che affronta il tema “dell’amore-non amore”, portato in scena quest’anno per i ragazzi delle superiori. 

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Fedeli d’amore

Fedeli d’amore – Marco Martinelli/Ermanna Montanari

Al Teatro Astra è appena andato in scena Fedeli d’Amore, un “polittico in sette quadri” con la regia di Marco Martinelli e co-regia e interpretazione di Ermanna Montanari. Il polittico fa parte di un lavoro triennale dei due fondatori del Teatro delle Albe sul poeta de La Comedìa, che si concluderà nel 2021 con “Paradiso” – anno del settimo centenario della sua morte -.

In una fredda e nebbiosa alba ravennate del 1321, Dante Alighieri, in preda ad una febbre malarica, è assalito da visioni deliranti, sospeso fra la vita e la morte, fra l’inizio di una fine e una fine che non è una fine.

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LA COMMEDIA DELLA VANITA’

Elias Canetti racconta che l’idea originale di questo suo testo teatrale – quasi un unicum nella sua produzione, più nota per il romanzo Autodafé e, soprattutto, per l’imponente e fondamentale saggio Massa e potere – ovvero quella di un bando esteso a tutti di non potersi specchiare, di privarsi della propria o altrui immagine riflessa o fotografata, è nata come idea giocosa nel tedio ambiguo e per certi versi imbarazzante del guardarsi allo specchio dal parrucchiere, ma che fu solo il cortocircuito con la realtà dell’inizio del regime nazista, che produceva ordini e imposizioni aberranti, come il rogo dei libri, e che vedeva tali ordini eseguiti con ottuso fervore, a dare a Canetti l’intuizione finale di scrivere questo testo.

Foto di Serena Pea

Claudio Longhi, in questo quarto pannello di scavo sull’identità europea dopo La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht, Il ratto d’Europa e Istruzioni per non morire in pace di Paolo Di Paolo, affronta il difficile e complesso testo canettiano organizzando una sinfonia in tre tempi basato su di uno spazio circense, come il monologo iniziale del banditore Wenzel Wondrak poteva suggerire, e dove i numerosi personaggi si aggirano come marionette stilizzate e oppresse da un potere invisibile ma onnipresente, che ha lanciato il divieto assoluto di specchiarsi o di vedersi in immagine fotografiche. Accompagnati da Fausto Russo Alesi che sovente si fa una sorta di guida-burattinaio dello spettacolo, recitando le didascalie del testo, informandoci dei luoghi e dei personaggi che appena dopo appaiono e così uscendo e straniandosi dai tre personaggi che interpreta, l’imballatore Barloch – uomo grezzo e popolano – Heinrich Föhn e Josef Garaus, emblemi, come spiega Longhi stesso nel libretto introduttivo, il primo di una versione degenere del superuomo nietzschiano e il secondo della frustrazione del potere, assistiamo nel primo movimento alla gioiosa e carnevalesca adesione al bando, dove tutti i personaggi, agghindati da abiti appariscenti o grotteschi, spesso deformanti le figure, portano al rogo le fotografie, che diventano quasi una moneta di scambio per potervi partecipare con più zelo. La successione di questi personaggi (dall’insegnante alle tre amiche fino alle sei ragazzine in abito color pastello) rammenta lo svolgimento a “numeri” dei varietà e dei circo, una sorta di variazione su di un unico tema, dove la regia spinge sul pedale del grottesco per una società che pare ballare inconsapevolmente sull’orlo di un abisso – o, forse, più propriamente con l’ambientazione dello spettacolo come acrobati che non sanno di non avere reti di sicurezza sotto di sé.

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TEMPORAL – BTT, JULIA KENT

Se mi venisse richiesto di definire questo spettacolo con poche parole, immediatamente penserei a : flusso – energia – libertà.

Sono effettivamente queste le sensazioni che ho percepito nella sera di sabato 18 gennaio 2020 nella sala della Lavanderia a Vapore di Collegno.

Ho assistito a Temporal, uno spettacolo di danza, che vede come protagonista il Balletto Teatro di Torino, accompagnato dal vivo dalle note di Julia Kent, violoncellista canadese di fama internazionale.

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Fuori foyer. Dialoghi oltre il teatro ospita ClaUdio MorgantI

Prosegue la serie di incontri Fuori Foyer. Dialoghi oltre il teatro, organizzati e promossi dall’associazione culturale Pratici e Vaporosi, che ha sede nel cuore di San Salvario, in via Donizetti 13. Questi incontri, come i contenuti extra dei DVD fanno con i film, offrono occasioni di approfondimento, discussione attorno al mondo teatrale che passa per Torino. Il pubblico ha modo di incontrare i protagonisti e gli artigiani del teatro e scambiarsi opinioni, in un’atmosfera intima e informale.

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Scene di violenza coniugale. Atto finale

E’ in scena fino al 31 gennaio 2020 presso la Galleria d’Arte Franco Noero, in Piazza Carignano 2, a Torino, per la stagione del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale, SCENE DI VIOLENZA CONIUGALE. ATTO FINALE del drammaturgo franco-inglese Gérard Watkins, nella traduzione di Monica Capuani, con la regia di Elena Serra.

Gli attori e i personaggi: Roberto Corradino (Pascal Frontin), Clio Cipolletta (Annie Bardel), Aron Tewelde (Liam Merinol), Annamaria Troisi (Rachida Hammad) e Elena Serra (Agnes Pertuis).

La regista mette in scena la Debolezza, e lo fa affinché lo spettatore arrivi a percepire sia quella dei personaggi che di se stesso.

Il luogo (una sala all’interno della Galleria) e il numero e la disposizione del pubblico (quaranta spettatori seduti in circolo attorno alla scena) sono funzionali alla catarsi personaggi-spettatori.

La storia si svolge in un appartamento di Parigi in cui si incrociano le vicende di due coppie di diverse estrazioni sociali: Liam, ex bullo di periferia in cerca di riscatto, e Rachida che cerca di sfuggire al clima soffocante della sua famiglia; Annie, ragazza madre in cerca di lavoro, e Pascal, fotografo radical chic. Destini paralleli che si incontrano casualmente nelle stanze dell’appartamento – che entrambe le coppie si trovano contemporaneamente a visitare con la “regia” dell’agente immobiliare, interpretata proprio da Elena Serra – e finiscono per combaciare nella spirale di violenza che, via via, trascina i protagonisti nelle profondità del dramma.

Se non vista “di pancia”, attraverso cioè il cliché della violenza di genere e il sottocliché della violenza di genere donna-vittima e uomo-carnefice, la vicenda pone in evidenza l’inesistenza di buoni e cattivi in cui il discorso di genere fortunatamente declina fino ad annullarsi e diventare sfondo per la riflessione sulla Debolezza, sia implicitamente nel corso della narrazione e nella definizione dei personaggi sia, esplicitamente, nel finale in cui Liam, Rachida, Annie e Pascal confessano, singolarmente, i motivi sociali e psicologici dei loro comportamenti che hanno portato all’escalation di violenza.

I cambi di scena tra la vita delle singole coppie sono scanditi dal suono di una campana. A mano a mano che la narrazione e la violenza e brutalità (mai mostrate nel compimento fisico se non attraverso un sapiente e potente utilizzo delle voci fuori scena) avanzano, i personaggi cominciano a condividere la scena, senza mai sfiorarsi, evidenziando così una vicinanza ideale fino al finale in cui dal dramma di coppie si passa alle debolezze di singoli e in cui si «mettono sotto la lente di ingrandimento i processi mentali e comportamentali di vittima e carnefice», secondo le parole del drammaturgo Gérard Watkins, autore del testo.

L’appartamento diventa metaforicamente una gabbia all’interno della quale sia i carnefici sia le vittime finiscono per rimanere schiacciati dagli effetti della loro Debolezza. Watkins costruisce un ingranaggio teatrale millimetrico, riportando i percorsi mentali dei quattro protagonisti.

La regia è concentrata anche sugli aspetti inespressi del testo, ovvero quelli che coinvolgono il ruolo e le reazioni del pubblico, perché se è forse scontato il comportamento delle vittime e dei carnefici lo è assai meno quello dei testimoni. La domanda fondamentale diventa quindi “che cosa faccio io di fronte a tutto questo?” Elena Serra tenta di riconoscere nello spettatore la potenziale risorsa di salvezza, negata però dalla consapevolezza, dello spettatore stesso, che alla fine, il sipario si chiude e che, forse, la salvezza non può che essere racchiusa, essa stessa, nella gabbia della finzione teatrale e, dunque, solamente rappresentata.

Galleria d’Arte Franco Noero | Piazza Carignano 2 | Torino

20-31 gennaio 2020

Prima nazionale

SCENE DI VIOLENZA CONIUGALE. ATTO FINALE

di Gérard Watkins

traduzione Monica Capuani

regia Elena Serra

in scena Roberto Corradino, Clio Cipolletta, Aron Tewelde, Annamaria Troisi e Elena Serra

spazio scenico Jacopo Valsania | progetto sonoro Alessio Foglia

produzioneTeatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale /Teatro di Dioniso /PAV con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati – fondazione franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe – Beyond Borders