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Filumena Marturano al Carignano di Torino

Si sono da poco concluse le repliche di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, andato in scena dal 31 ottobre al 12 novembre al teatro Carignano di Torino per la stagione del Teatro Stabile.
Regista Liliana Cavani che, per la prima volta, si cimenta nel teatro di prosa scegliendo di rappresentare uno dei testi più significativi del nostro Novecento.
La Cavani decide di restare aderente al testo, evitando voli di fantasia che sarebbero risultati poco coerenti con l’ idea di Eduardo.
Nei panni della protagonista, ad incarnare perfettamente , con i suoi capelli scuri e le forme generose, la figura della donna partenopea, troviamo Mariangela D’Abbraccio.
Alternando scatti d’ ira degni di Santippe (apprezzata la sonora sberla ai danni di Diana – Ylenia Oliviero, amante di Don Domenico) ad emozioni strappalacrime,come quelle che inevitabilmente colpiscono l’ animo dello spettatore che, coinvolto, ascolta il monologo della Madonna delle Rose, la D’Abbraccio ci restituisce, forse con un pizzico di drammaticità in più, l’immagine delle rappresentazioni passate, tanto fedele quanto lo sono le scelte registiche .
Al suo fianco, impegnato a ripercorrere le orme del maestro, Geppy Gleijeses che ricopre il ruolo di Don Domenico Soriano.
L’attore napoletano fa arrivare direttamente al pubblico un profilo ben delineato del personaggio, scivolando, ogni tanto, in contrappunti cabarettistici che la simpatia del dialetto e le battute ben congeniate rendono superflui.
Lanciandosi nel viale dei ricordi fatto di viaggi, amoretti e corse di cavalli, Don Domenico, dovendo fare i conti con il passare degli anni, affronta un percorso di maturazione che deve la sua genesi al meccanismo azione/reazione scatenato dal primo matrimonio con Donna Filumena, estortogli con l’ inganno.
I maggiori responsabili di questo cambiamento sono i tre figli di Filumena interpretati da Agostino Pannone, Gregorio De Paola e Adriano Falivene, ai quali Don Domenico, emozionandosi nel sentirsi chiamare papà, consegnerà le redini di quei cavalli che un tempo correvano per lui.
La D’Abbraccio e Gleijeses si spalleggiano bene, giocando a rubarsi la scena e sostenuti da due personaggi secondari ai quali il testo regala una comicità irresistibile, Rosina (Nunzia Schiano) e Alfredo ( Mimmo Mignemi), che si prestano bene a far comprendere al pubblico le incomunicabilità derivate dal contrasto tra i due protagonisti.
Compito gradito anche per le difficoltà generate dal dialetto napoletano in terra piemontese. E’ infatti consigliata una lettura peventiva del testo o una lunga vacanza a Napoli a tutti coloro che non hanno confidenza con il dialetto campano, onde evitare l’irritazione dei vicini di poltrona ponendo continuamente la domanda “che hanno detto?”.
Divergenze linguistiche a parte, il pubblico, soprattutto quello femminile composto sia da chi è madre sia da chi non lo è, reagisce bene alla commedia, identificandosi con facilità con la figura della donna che si sacrifica per un bene più grande: un lavoro, un uomo, una passione, così come per Filumena sono indifferenti i suoi figli, perchè ” i figl so figl e so tutt’egual”.

Emily Tartamelli

LET’S DO THE TIME WARP AGAIN: ROCKY HORROR SHOW

Nessun musical è stato probabilmente così amato, celebrato e venerato come il Rocky Horror Show fin dal suo debutto in teatro nel 1973: il testo e la colonna sonora innovativi infrangevano ogni tabù che la morale borghese degli anni ’70 imponeva. Scritto da Richard O’Brien, con delle chiare allusioni meta teatrali e cinematografiche, ha fin da subito stregato il suo giovane pubblico, che ha iniziato così a creare un vero e proprio culto attorno a questo spettacolo che presto avrebbe avuto anche una trasposizione cinematografica, il The Rocky Horror Picture Show. I personaggi bizzarri e la straordinaria capacità della storia di parlare del presente tramite comicità e musica coinvolgente, ha fin da subito reso lo spettacolo interattivo, rendendo il pubblico protagonista e scaturendo gag ogni sera differenti tra attori e spettatori.

Il 24 Ottobre 2017 ha debuttato al Teatro degli Arcimboldi di Milano la produzione BB Promotion Gmb del Rocky Horror Show, ma io ho personalmente avuto il piacere di vederlo durante la sua seconda tappa italiana, a Firenze, presso il Nelson Mandela Forum, ultima città che ha ospitato lo spettacolo dopo ben 200 repliche in tutta Europa. Una tournée innovativa prodotta da uno dei principali punti di riferimento del live – entertainment europeo che ha deciso, per ogni nazione, di far interpretare il personaggio del Narratore da un attore diverso, che accompagna il pubblico durante la visione dello spettacolo recitato in lingua originale. Per l’Italia la scelta è ricaduta su Claudio Bisio, che già durante gli anni dell’Accademia aveva lavorato allo spettacolo e fu tra i primi ad animare la proiezione della pellicola al Cinema Mexico di Milano, dove gli spettatori si presentavano mascherati come i personaggi e recitavano in coro le battute contemporaneamente agli attori nel film. Con la sua verve, Bisio è riuscito a coinvolgere ulteriormente il pubblico e si è inserito perfettamente all’interno del contesto dello spettacolo, ballando anche lui qualche passo del famoso Time Warp.

Durante una notte tempestosa ai due fidanzatini Brad Majors e Janet Weiss si buca una ruota della macchina, che avrebbe dovuto condurli in visita al loro professore dottor Evrett Scott. Cercando un telefono, si imbattono in un inquietante castello dove, a loro insaputa, si sta svolgendo l’annuale convegno dei Transylvani, extraterrestri provenienti dal pianeta Transexual. Verranno così anche loro coinvolti nella presentazione del padrone di casa del suo più grande esperimento: Frank’N’Further è uno scienziato che ha creato la vita, un uomo bellissimo di nome Rocky. Ma gli abitanti del castello sono personaggi eccentrici, creature singolari che faranno passare ai due giovani una notte difficile da dimenticare.

Inutile dire che la parte più bella dello spettacolo è stato vedere l’interazione tra il pubblico e gli attori: dialoghi inaspettati, battute anticipate, canzoni cantate e ballate in coro: ancora dopo più di 40 anni questo musical riesce ad unire generazioni in una frenesia di emozioni che si scatenano.

La messinscena, che si rifà tradizionalmente al fascino dei B-Movies, al burlesque e al Glam Rock, ha dato molto risalto agli attori, tutti molto  bravi e in grado di rendere giustizia agli interpreti del film che sono ormai degli “intoccabili” nelle menti dei più affezionati. La scenografia infatti non era esagerata, ma nella giusta misura eccentrica, e in grado di richiamare l’ambientazione dell’opera. In scena solo gli oggetti necessari allo svolgimento della storia e i colori principali erano dati dalle luci quasi psichedeliche e dal trucco degli attori. La band presente in scena ha dato un tocco in più, in quanto le voci e la musica si univano perfettamente e restituivano una melodia omogenea.

Anche volendo, credo che non sarei in grado di trovare delle pecche in questa recita, che è stata coinvolgente, unica, emozionante. La prova che ci sono testi che ancora riescono a parlare con un’attualità incredibile, che ogni volta sono in grado di stupire gli spettatori e che portano gli artisti a mettersi in gioco per creare qualcosa di contemporaneo.

RAZMATAZ LIVE in collaborazione con MURCIANO INIZIATIVE

RICHARD O’BRIEN’S ROCKY HORROR SHOW

 

musiche RICHARD O’BRIEN

coreografie Matthew Mohr

scene e costumi David Farley

regia SAM BUNTROCK

con la partecipazione straordinaria di

CLAUDIO BISIO nel ruolo del narratore

 

Alice Del Mutolo

Ma sono mille papaveri rossi-Tangram Teatro

Chi è il nemico? E dove si trova? L’identificazione del nemico e, in seguito, il passo successivo di elaborare una strategia per annientarlo, è una costante che permea tutta la nostra vita. Oggi, come cento o mille anni fa e così a ritroso. Il nemico c’è quando lo creiamo noi, è una nostra invenzione. Ne abbiamo bisogno per dare forse un senso alla nostra vita, per muoverci dal torpore della noia dandoci una spinta, facendo da catalizzatore o solo per giustificare qualche nostra azione. Se il nemico è sempre l’altro, noi ad un primo sguardo siamo autorizzati a far la parte dell’eroe, ma l’altro lato della medaglia mostra come tutti possiamo diventare il nemico dell’altro. Un discorso vivo anche tutt’ora, dove questa figura fa comodo, costruisce strategie politiche e militari, o in piccolo, strategie sociali di quartiere, che si portano dietro discriminazione e odio. Un camaleonte in questo mondo camaleontico.
Un passo ulteriore è stato fatto. Ora è superflua anche la domanda iniziale: siamo sicuri che il nemico è lì davanti a noi, però non sempre ha il fucile in mano. Il dubbio dell’errore non ci turba. Ma questo è solo un dettaglio.

Un passo indietro ora è necessario: ritornare almeno, se non possiamo farne a meno, a riflettere su quella domanda iniziale per poter cercare una risposta adeguata. Qui ci vengono in soccorso la grande storia dei libri e quella piccola di persone comuni, come Susanna, che sono state catapultate nel Novecento e che probabilmente un nemico lo hanno trovato. “Il nemico è dentro di noi”, dice Susanna, ormai nonna, al nipotino. Tutto questo sottovoce, meglio che la gente non lo senta, non può capire.

La regista e direttrice del Tangram Teatro Ivana Ferri, mette in scena la storia di Susanna, bambina al tempo marcio della Grande Guerra che crescendo vedrà e sarà toccata dai grandi eventi che hanno visto luce durante tutto l’arco del Novecento. “Un viaggio”, dice la regista, “attraverso un secolo alla ricerca del nemico, per crescere, imparare e capire con la saggezza dei semplici e l’onestà di chi non ha dimenticato i valori”.
Come un vero e proprio cantastorie, l’attore e co-direttore del Tangram Teatro Bruno Maria Ferrario, ci narra questa vicenda, districandosi tra le decadi del secolo, attraverso la storia Grande e quella piccola di Susanna, delle persone comuni e tendendo le fila con le canzoni d’autore di grandi cantautori italiani che hanno a loro volto raccontato di quei momenti, come Ivano Fossati, Roberto Vecchioni, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Lucio Dalla. La canzone d’autore è riuscita ad indagare il nostro tempo, accompagnando la crescita di generazioni, dando spazio alle figure emarginate, a spaccati sociali e alla rabbia del momento.

<<C’è un giorno che ci siamo perduti
Come smarrire un anello in un prato
E c’era tutto un programma futuro
Che non abbiamo avverato>>,
( Estratto di C’è tempo di Ivano Fossati.

Susanna ha tre anni quando nel 1917 è costretta ad accompagnare la madre nella sua discesa agli inferi, perché, stanca di aspettare, vuole riafferrare la vita, riportarla in superficie. Attraversa campi, soldati maciullati lì distesi. C’è il vento che porta le voci dei morti. Può desistere, la incitano a non desistere. Ma questo non è contemplato da lei. La vita, la voglia di portare fine a quell’ansia, a quel dramma personale, la necessità di voler rivedere suo marito. Va a Caporetto a cercare il marito, con la sua bambina Susanna. Una madre e una piccola ignara di ciò che accade intorno a lei, immerse in un mondo in disfacimento che vogliono andare oltre la consolazione di un papavero rosso. Susanna ritrova il suo papà. Tornano a casa. Eroe è colui che cerca e che continua a cercare.
La prima guerra mondiale si portò dietro la seconda guerra, e altro terrore e distruzione. Altro tempo in cui quello che abbiamo seminato non darà mai frutti. Nuovi nemici da annientare.

“Sogna, ragazzo sogna
Quando cade il vento ma non è finita
Quando muore un uomo per la stessa vita
Che sognavi tu”

( da Sogna ragazzo sogna di Roberto Vecchioni)

E intanto Susanna cresce. La mente rivolta sempre a Pierino, il suo grande amore scomparso chissà dove. Sposa, però, Giovanni a cui col tempo si era affezionata. Ha due figlie. La storia del mondo si intreccia ancora una volta con quella personale. Arriva in Italia il boom economico e Susanna si trova a confrontarsi con le nuove tecnologie, la TV. La prima e ultima volta.  Vedrà sì i primi computer e i telefonini, ma non rimarrà influenzata dalle innovazioni, tenendosi a debita distanza. Probabilmente non riuscirà a comprenderle sino in fondo, o forse le vedrà solo come un ulteriore faccia del nemico. Lei nella sua vita di nemici ne aveva visti tanti. Il soldato con la giubba diversa, il fascista, ora trasformatosi nel rosso comunista, o semplicemente il barbone, il nero. E così velocemente se ne va via anche il boom, con le sue contraddizioni. Lasciando sogni non propriamente realizzati, punte amare in bocca tentata.

Però la storia non si ferma
davvero davanti ad un portone
la storia entra dentro le stanze e le brucia
la storia dà torto o dà ragione

(Da La storia siamo noi di Francesco De Gregori)

Sì, la storia non si ferma, e così il malcontento scoppia nel ’68. Studenti, ragazzi, è un giorno in cui quasi tutta la gente si tende la mano. Così una delle figlie di Susanna, quella più combattiva sarà affascinata dalla rivolta, sarà parte degli eventi, della contestazione. Stato corrotto, povertà, mancanza di diritti. Il ribelle contro lo sporco poliziotto. Il comunista contro lo sbirro. Lo sbirro contro il rosso. Una folla borghese benestante che sfida il poliziotto ormai povero. Punti di vista diversi, nemici nuovi e diversi.
Susanna ormai nonna, vede mutare la sua Nazione, i suoi ideali si nascondono, sono vecchi e vanno verso la rovina. Un mondo in trasformazione, un mondo forse che non le appartiene più. Ma per stare al mondo basta la saggezza, quella semplice ricevuta in dono dal trascorrere dei giorni, da elargire gratuitamente a chi ha tempo per ascoltare. E con le sue parole cresce il nipotino. Parole a volte che non comprende, perché ancora troppo piccolo, ma che capirà in futuro, come la piccola Susanna comprese la ricerca di vita della madre. Si ricorderà le parole della nonna su il nemico che, prima, bisogna cercare dentro di sé. E i sogni. La nonna seppur anziana oltre ai crucci per il presente, sognava. Un sogno che tende al futuro, ma che si salda sul passato. Su quel giorno in cui non vide più Pierino e quello futuro, ormai novantenne, in cui al notiziario venne trovato il corpo del giovane congelato dal gelo di un ghiacciaio per tutto quel tempo. Fantasia e realtà si mescolano per dare un tono in più alla nostra vita.

Sogna, ragazzo sogna
Quando lei si volta
Quando lei non torna
Quando il solo passo
Che fermava il cuore
Non lo senti più.

(Da Sogna ragazzo sogna di Roberto Vecchioni)

Susanna si fermerà alle soglie del nuovo millennio. Vedrà gli stravolgimenti sociali, politici ed economici. Si è portata dietro, da bambina fino ad ora, cicatrici, esperienze e valori. Ne ha parlato, ha cercato di tramandarli pur sapendo che non potevano adattarsi ad un mondo nuovo. Lei se ne va e lascia spazio al nipotino, al futuro e quindi a noi. Con lei il Novecento con i suoi picchi e le sue voragini ci lascia. Cosa abbiamo imparato da Susanna? Cosa abbiamo noi di lei? È il caso che riflettiamo meglio sul nostro tempo perduto, per poter affrontare meglio le contraddizioni del nostro presente e poter tornare a cercare la vita.
Questo spettacolo ci invita a continuare a cercare e sognare, continuando ad alimentare la storia, magari senza generalizzare il nemico.
La storia siamo noi. La si trova nei libri, nei film, nelle canzoni, ma con più attenzione la si ritrova anche nelle parole di chi ha vissuto più di noi.

Emanuele Biganzoli

 

Scritto e diretto da IVANA FERRI con Bruno Maria Ferraro

Musiche di Ivano Fossati, Roberto Vecchioni, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Lucio Dalla

Voci fuori scena: Susanna Ferro e Niccolò Fortunato

Arrangiamenti musicali: MASSIMO GERMINI

Disegno luci: MASSIMILIANO BRESSAN

Montaggio immagini: GIANNI DE MATTEIS

Assistenza tecnica: ANDREA BORGNIN

Materiali tecnici: DB SOUND- ASTI

Organizzazione: ROBERTA SAVIAN

Segreteria di produzione: FRANCESCA ROSINI

Produzione: TANGRAM TEATRO TORINO con il sostegno del SISTEMA TEATRO TORINO- REGIONE PIEMONTE MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI

 

 

Sogno Americano – Ex di Shakespeare

Ex di Shakespeare, una compagnia formatasi dal laboratorio condotto da Jurij Ferrini nello scorso anno, 2016/2017, che ha visto attori che avevano voglia di approfondire i loro studi e continuare un lavoro di scoperta, ricerca, sperimentazione, condotti da uno dei registi più importanti sulla piazza torinese e non solo. Ecco chi sono i protagonisti di Sogno Americano per la regia di Jurij Ferrini, andato in scena dal 10 al 13 novembre presso la Cavallerizza reale.
Questo spettacolo arriva a Torino dopo la sua presentazione in giugno al Teatro Civico Garybaldi di Settimo Torinese e sta registrando ottimi risultati facendo sempre il pienone di pubblico.

Sulla scena troviamo 24 attori che si alternano come in una danza, facendo spostare l’orologio del tempo avanti e indietro, per farci vivere le grandi crisi finanziarie dell’America e mondiali: quella del 1929, del 1987 e l’ultima, ancora sotto i nostri occhi, del 2008.
L’opera è il risultato di una drammaturgia collettiva unita a suggestioni di Arthur Miller.

Lo spettatore viene catturato dalla scena completamente vuota, anche se non appena si esce dal campo luminoso, grazie all’assenza di quinte o sipario, possiamo scorgere nella penombra tutte le figure immobili, sedute, che aspettano il destino che hano in serbo per loro una o due crisi nell’arco della loro vita.
Ci accoglie un’anziana signora, Edie, che racconta alla nipote, Hanna di come lei e il marito Lee, hanno superato la crisi, ma viene dopo poco interrotta da un altro personaggio, Arthur Roberson, magnate di Wall Street, che la crisi del ’29, lui se l’aspettava e aveva cercato di mettere in guardia più persone possibili.
Hanna, ci spiega dopo questo antefatto che viaggeremo avanti e indietro nel tempo. Continua la lettura di Sogno Americano – Ex di Shakespeare

Pinocchio dei balocchi – Progetto LART

Il progetto MaldiPalco realizzato da Tangram Teatro si pone come obiettivo quello di creare uno spazio dove giovani attori possano esibirsi accanto a volti noti del teatro italiano (nell’edizione del 2017 appena conclusa possiamo citare i nomi di Saverio La Ruina, Mariangela Gualtieri e Ilaria Drago). Un’importante occasione che vede tra i tanti protagonisti anche i giovanissimi di LART – Laboratorio Avanzato Ricerca Teatrale – allievi di Silvia Battaglio, che nei giorni 24, 25 e 26 ottobre hanno portato in scena Pinocchio dei balocchi liberamente ispirato al Pinocchio di Collodi.

Lo spazio è organizzato in modo semplice ed essenziale, in perfetto stile Silvia Battaglio che cura la regia: qualche sedia disposta ai lati e sul fondo del palcoscenico delimitano un centro lasciato vuoto per permettere i movimenti degli attori, che rimarranno sempre in scena. Pochi oggetti sono affidati direttamente ai personaggi: una fisarmonica per Lucignolo, un libricino dove il Grillo Parlante tenta di scrivere le sue poesie, un piccolo burattino di legno appeso al collo di Pinocchio, le immancabili monete d’oro e un ramo appena fiorito come bacchetta della bella Fata. Il racconto è suddiviso in scene che incominciano e terminano con un buio, come la divisione per capitoli di un libro. È un meccanismo tanto semplice quanto funzionale, reso ancora più efficace dal duplice effetto che restituisce a chi guarda: vediamo tanti quadri ben definiti e autonomi che però si incastrano e si amalgamano tra di loro, momenti singoli che ci presentano i personaggi con le loro vicende ma che con il loro susseguirsi danno vita alla storia.

Un inizio interessante ci sorprende quando la sala e il palco sono ancora immersi nel buio: gli otto attori arrivano dalla platea, ciascuno dotato di un cappellino di carta colorato, si dispongono al centro del palco a formare un cerchio con le spalle rivolte verso il pubblico e cominciano a parlare. Il vociare è fitto e un po’ confusionario come quando ci si trova in una stanza affollata e le persone parlano tra di loro contemporaneamente, ogni tanto si distingue qualche frase. Poi il cerchio si apre e troviamo seduto al centro Pinocchio dall’aria un po’ spaesata. Subito viene avvicinato da Mangiafuoco e dalla Fata, pronti a prendersi cura di lui a patto che rispetti tre regole fondamentali: non dire mai bugie, andare a scuola e prendere la medicina. Solo così potrà diventare un adulto sano e responsabile. Ma questi due strani personaggi che si improvvisano genitori non sembrano molto affiatati e non sembrano voler collaborare per il bene di Pinocchio, ci ricordano piuttosto una delle tante famiglie dove mamma e papà sono in perenne conflitto e si contendono l’amore dei figli. Ed è in questo clima di rivalità e di tensione tipici del mondo degli adulti che Pinocchio comincia il suo viaggio per diventare grande, un viaggio già di per sé difficile reso ancora più arduo dai vari incontri che si presentano sul suo cammino, molti dei quali restano fedeli alla fiaba che tutti noi conosciamo. Pinocchio vorrebbe andare a scuola ma viene attratto dal richiamo irresistibile della musica del teatrino dei burattini di Mangiafuoco, e cerca disperatamente le quattro monete d’oro di cui ha bisogno per poter entrare a vedere lo spettacolo. Poi, stanco per aver corso troppo, si rifiuta di prendere la medicina perché troppo amara. La Fata cerca di convincerlo porgendogli prima due caramelle per rendere l’intruglio più dolce ma il burattino si rifiuta ancora, così decide di lasciarlo solo e gli dice che se continuerà con quell’atteggiamento presto farà una brutta fine. Subito dopo infatti, gli fa visita la Morte in persona: Pinocchio si spaventa tantissimo e alla fine decide di bere la tanto odiata medicina. Non può mancare un altro famoso incontro, quello con il Gatto e la Volpe, i due astuti ladri che con la promessa di far moltiplicare le sue monete d’oro lo derubano di tutto e lo abbandonano mentre ridono di lui.

Ma Pinocchio non cede alla tentazione di seguire il Gatto e la Volpe per pura avidità o interesse personale: quando chiude gli occhi e stringe forte i pugni dopo aver sotterrato le monete e aver detto la formula magica, pensa solo al suo babbo e a quanto sarebbe stato fiero di lui. Pensa alla bella casa che si sarebbero potuti finalmente comprare e a tutto il buon cibo che non avevano mai avuto. Anche quando entra nel teatrino di Mangiafuoco invece di andare a scuola non ha pensieri cattivi, vuole semplicemente giocare e divertirsi come tutti i bambini hanno diritto di fare. Pinocchio è famoso per essere un birbante e un combinaguai, ma in realtà quello che vediamo è un burattino simpatico e ingenuo che ci fa molta tenerezza, circondato com’è da personaggi che gli dicono cosa deve e non deve fare, personaggi che lo riempiono di consigli ed avvertimenti che però lui non riesce a seguire.

Insieme a questi episodi famigliari troviamo poi una serie di invenzioni originali, che fanno di questo spettacolo una riscrittura interessante e singolare. Scopriamo che la Fata e il Grillo Parlante sono sorella e fratello, pronti a difendersi l’un l’altro contro le accuse e le beffe di Lucignolo, per il quale la Fata prova un’evidente attrazione. A sua volta, la Fata è oggetto del desiderio di Mangiafuoco, che tempo prima l’aveva presa a lavorare nel suo teatrino proprio perché infatuato di lei. I rapporti tra i personaggi non sono gli unici elementi di novità, ma quello che ci colpisce realmente è la costruzione dei personaggi stessi, una costruzione profonda, molto interessante e diversa dal solito. Il Grillo Parlante, figlio di un nobile, oltre che dispensare saggi consigli è anche un poeta, o meglio cerca disperatamente di diventarlo, ma proprio non riesce e scrivere niente di originale. Lucignolo lo schernisce per questo, lo sfida a fargli ascoltare qualcosa che ha scritto di suo pugno, e quando il Grillo esordisce con un “tanto gentile e tanto onesta pare”, il ragazzo scoppia in una risata dicendo che tutti conoscono quel sonetto e che sicuramente non è stato il Grillo a comporlo. Il Grillo si difende come può, poi confessa tutta la sua frustrazione e la sua solitudine: chi, dei tanti personaggi presenti in quella storia, lo ha mai amato sul serio? Come potrebbe mai scrivere delle poesie se non ha nessuno che gli stia a cuore e a cui poter dedicare la sua arte? Solo sua sorella, la Fata, sembra interessarsi a lui. Ma anche lei nasconde un doloroso segreto, e anche questa volta è Lucignolo che la punzecchia fino a farla confessare. “Fai una magia”, la sfida, “una magia che faccia accadere un cambiamento vero”. Ma la Fata non è capace, non sa fare le magie, anche se nella magia crede fermamente. E che cosa sa fare questa Fata, se non è in grado di compiere incantesimi? “Sa affascinare, sa ammaliare, sa ballare, sa baciare, sa accarezzare”, canta senza scrupoli Lucignolo, mentre lei si stringe in un angolo, offesa e mortificata, e lentamente spezza con le dita il ramo appena fiorito che ha per bacchetta. Arriva Mangiafuoco, che la muove e la fa danzare come fosse una bambola inerme, poi la prende dolcemente tra le braccia e la culla, raccontandole di come la prima volta che l’aveva conosciuta, subito l’avesse desiderata tutta per sé. “Ora è tempo dello spettacolo”, le dice mentre le asciuga una lacrima, “devi farti bella”.   

Ed è così che vediamo personaggi che nell’immaginario comune si identificano come positivi e forti diventare inaspettatamente insicuri, pieni di paure e di segreti che li tormentano. Personaggi spesso visti come negativi e privi di sentimenti, invece, si riscoprono sorprendentemente belli e nobili, a modo loro. E noi? Noi non dobbiamo far altro che aprire un po’ la mente e il cuore per far spazio a questi piccoli cambiamenti e accogliere prospettive nuove.

Sono questi personaggi così complessi e così fragili che ci commuovono, che rendono umano e vero questo racconto incantato. Personaggi che disegnano un quadro curato e ben definito, un insieme omogeneo fatto di tante piccole caratteristiche differenti. Ognuno ha la propria personalità, il proprio modo di camminare, di parlare, di porsi in relazione con gli altri, il tutto inserito in una cornice che sa di magia ma anche di tanta realtà: la storia di Pinocchio, burattino che voleva diventare un bambino vero e poi un adulto responsabile, ma che non sapeva bene come fare.

Eleonora Monticone

fotografie di Roberta Savian

 

Pinocchio dei balocchi

Riscrittura liberamente ispirata a “Pinocchio” di Carlo Collodi

Regia, coreografie e drammaturgia di Silvia Battaglio

Progetto LART: Alessandra Minchillo, Giulia Madau, Greta Fanelli, Francesca Gallo, Lorenzo Paladini, Luca Molinari, Luca Manero, Federico Rinaudi

Produzione Biancateatro/Progetto LART

in collaborazione con Tangram Teatro, Fondazione Sandretto Rebaudengo e liceo scientifico Ettore Majorana

“IL PREDICATORE” E “POLVERE” AL TANGRAM TEATRO

Si  è concluso domenica 22 ottobre il concorso teatrale “Mal di palco 2017”  svoltosi presso il Tangram Teatro.

Il piccolo palcoscenico ha visto protagoniste le ultime due attrici finaliste : Sarah Nicolucci  con Il predicatore e Marzia Gallo con Polvere.

Sarah, 30 anni, attende il suo pubblico camminando avanti e indietro sul palcoscenico e marcando il passo sul pavimento, quasi come se avesse dovuto  da lì a poco “mangiare” lo spettatore, ed è quello che metaforicamente avviene.

L’attrice interpreta un ruolo molto distante dalla sua personalità. Qui è una predicatrice, che con fare a tratti virulento e a tratti seducente  evoca l’importanza di Dio già dalla tenera età. Il suo sottolineare questa importanza è un crescendo quasi diabolico, la sua intensità penetra nei cervelli delle persone più fragili, perché è lì che i predicatori possono creare il loro nido.

Il testo, propostole dall’autore Giacomo Sette, entusiasma subito Sarah che da sempre si definisce agnostica e vede questa opportunità come una grossa sfida per se stessa che vince straordinariamente e che porta con tutta la sua energia in scena: “Un testo del genere ha rappresentato per me la legge del contrappasso” dice sorridendo Sarah, che già da piccola nutriva forti dubbi concernenti l’esistenza di un Dio “Con  – Il predicatore-  ho esplorato alcuni aspetti da me sempre rinnegati.”

Ma quella che Sarah mette in scena è una sorta di degenerazione religiosa. Parla della fede evangelica, che gode nel mondo e in particolar modo negli Stati Uniti di un enorme potere, specialmente a livello politico, ed è da questi dati di fatto che l’attrice costruisce un personaggio simile ad un sergente delle SS nella postura e nell’intonazione.  Il  suo predicatore ha una  personalità forte che colpisce il cuore degli uomini come con una freccia e subito dopo li accarezza con un canto  simile a quello di una sirena, è dolce, culla le anime per poi esplodere in un urlo prolungato che viene pronunciato al microfono, per farlo penetrare acutamente nei corpi sgombri.  Insomma, un canto che provoca e che restituisce l’unica risposta in grado di stare in piedi : Dio.  Con queste oscillazioni la giovane attrice offre una performance degna di nota. Ogni muscolo in scena è contratto  mentre diffonde il suo messaggio e persino lo spettatore in ultima fila può scorgere le vene in ebollizione. Il predicatore ha svolto il suo compito decorosamente  ed esce di scena pronunciando due parole, forse non previste dallo spettacolo : “Sono stanca.”

Polvere di Marzia Gallo e Giacomo Segreto è uno spettacolo toccante che soffia sull’anima.  Il monologo è tratto dal romanzo di Beatrice Masini Se è una bambina e illustra la drammatica separazione tra una madre e sua figlia.

Marzia, con questo testo, torna indietro nel passato e rivive una seconda infanzia:” Ci sono degli elementi che mi legano a questa bambina, anche se abbiamo vissuto esperienze completamente diverse. Ci sono cose in cui mi sono riconosciuta ma a posteriori”. Così l’attrice racconta il lungo lavoro dedicato alla creazione di questo personaggio  semplice ma con un’anima articolata, l’anima di chi ha sofferto e cerca di non pesare questa sofferenza.

Lo spettacolo vede pochi oggetti di scena che vengono riutilizzati più volte.  Al centro, in proscenio, un mucchio di gessetti rotti sottotitolano la scena : la polvere che creano è molto simile alla polvere che quel maledetto giorno ha portato via la madre alla bambina, un boato, mura che crollano e crolla anche la l’interiorità stabile della piccola che da quel giorno si ritroverà con un vuoto irreparabile.

Tra il pubblico, molti sono gli occhi lucidi, alcuni timidamente cercano di soffiarsi il naso senza rompere quella magica energia che fluttuava tra una sedia e l’altra.  A commuovere è sicuramente il testo ricco di drammatica verità, ma è anche la capacità di Marzia di tenere i presenti con il fiato sospeso. Lei, con l’aria di una vera bambina, a tratti vivace e a tratti malinconica è riuscita con la sua trasparenza ad emozionarsi e emozionare : “ Questo è uno spettacolo dove abbiamo messo il cuore, cercavamo una storia semplice e universale che arrivasse all’anima”.

E con questa spontanea dolcezza l’attrice ha regalato alla platea una sensazione morbida ma allo stesso tempo profonda, ci ha raccontato una storia, la storia che da tempo sognava di portare sul palcoscenico, e l’ha fatto con una naturalezza coinvolgente.

 

Fiorella Carpino

Masculu e fìammina

Inverno, piccolo paese calabro: Peppino va a fare visita alla tomba della madre in un freddo giorno di neve. Si scusa per essere in ritardo, ma una delle tante comari del paese lo ha trattenuto con le solite chiacchiere. Si mette a pulire dolcemente l’immagine della vecchina che non c’è più, mentre le chiede come vanno le cose lassù in cielo. Ma è veramente azzurro come si vede dalla terra, o una volta saliti là sopra cambia colore? E Gesù Cristo e la Madonna, come sono in realtà? Ed è vero quello che si dice sulla famosa porta del Paradiso, dove una volta arrivati ci si trova davanti San Pietro con le sue chiavi e la lista degli ammessi? “Tu sì. Tu no. Tu aspetta un attimo”. Poi comincia a raccontarle di quello che succede in paese. Chiacchiera spensierato come si fa davanti a un amico che non si vede da tempo, chiacchiera e sorride di tutte quelle piccole cose che sono sempre le stesse. Sembra tranquillo e sereno, ma il suo racconto si fa sempre più incerto, sempre più scarno, come se qualcos’altro riempisse i suoi pensieri. Non dobbiamo aspettare molto. Scopriamo quasi subito cosa lo tormenta da tutta una vita, quel segreto che si porta dentro da sempre e che ora è pronto a confessare: è questa la vera ragione che lo ha portato a far visita alla madre, poterle finalmente dire ciò che non aveva avuto il coraggio di dirle quando era ancora in vita. Peppino è omosessuale, come dice lui “nu masculu ch’i piacciono i masculi”, “o masculu e fìammina” come diceva la mamma. Ma quella definizione non è mai piaciuta a Peppino. “Nu masculu ch’i piacciono i masculi” è un maschio a cui piacciono i maschi, ma sempre maschio rimane, di femmina non c’è proprio niente. Non gli piace nessuna delle tante parole che si utilizzano per definire chi è come lui, in particolare la parola diverso. “Diverso da chi?” si domanda. “Perché non siamo tutti diversi l’uno dall’altro?” Peppino rivela così a sua madre il grande peso che si porta dentro da sempre, fin da quando era solo un bambino e guardava incantato il ragazzo biondo suo vicino di ombrellone mentre giocava sulla spiaggia, d’estate, o quando ammirava di nascosto le gambe dei suoi compagni di scuola durante l’ora di educazione fisica. Non erano le ragazze o le maestre a fargli nascere della fantasie, ma i suoi compagni di scuola. Pensando a loro si toccava nei momenti di intimità, e poi si guardava allo specchio, disperato e pieno di vergogna, confessando a se stesso: “sono un ricchione”. Quella era la parola più gettonata dai suoi compaesani per definire gli omosessuali. All’epoca, quando era un ragazzino, ricorda Peppino, di omosessuale dichiarato ce n’era solo uno, e ogni volta che usciva per strada era sempre accompagnato dal solito coro che riecheggiava in tutto il paese: “Ricchiù! Ricchiù!”. A ogni incrocio di ogni via, per cinquecento metri e più, a ogni singolo incrocio il gruppo lo aspettava e intonava un “Ricchiù! Ricchiù!” come se fosse una specie di Rosario: per ogni grano, si recitava un “Ricchiù!”. Sono ricordi accompagnati da sorrisi amari quelli che Peppino condivide con la foto sorridente e silenziosa della madre, una madre che non aveva mai chiesto niente, non aveva mai accennato alla questione, ma che sapeva, che probabilmente aveva intuito tutto del figlio. E il figlio sapeva che la madre era a conoscenza della sua situazione. Quella donna non aveva mai fatto una domanda al riguardo, ma lo aveva silenziosamente rispettato per tutto il corso della sua vita. E non è una questione di istruzione, è rispetto, dice Peppino, perché la madre lo aveva rispettato e per farlo le era bastata la terza elementare. Per questo Peppino la ringrazia, per quel rispetto intimo e profondo che gli aveva sempre riservato, quella madre che durante un Natale, quando davanti alla tavola imbandita il figlio se ne stava in silenzio e non toccava cibo, si chiedeva chi era quel “cornuto” che lo riduceva così.

Masculu e Fìammina, con Saverio La Ruina. Foto ©Masiar Pasquali

Tante sono le persone e i momenti che hanno fatto parte della sua vita e che ora vivono nei suoi ricordi, molti di questi collegati tra loro da un sottile filo rosso: la perdita di un amore. La perdita della madre, che vive proprio davanti ai nostri occhi. La perdita di Angelo, il suo primo grande amore, “Angelo di nome e di fatto” come ricorda Peppino, il primo ragazzo che gli aveva fatto pensare che due uomini potessero veramente stare insieme. Ma la verità, gli diceva Angelo, è che due uomini che stanno insieme sono e saranno sempre due ricchioni. La perdita di Alfredo, incontrato in gioventù nella fantastica Riccione. Alfredo che aveva amato intensamente e che aveva perso in un modo così doloroso e insensato da non sembrare quasi possibile, ucciso da una specie di spedizione punitiva contro chi, come loro, viveva un amore proibito, diverso. Un piccolo spiraglio di luce illumina la sua triste storia quando riceve una telefonata da parte della sorella di Alfredo, che lo invita a far visita a lei a alla sua famiglia a Treviso. Peppino viene accolto con calore dai famigliari dell’uomo che ha amato e perso, ma quando, tornato in Calabria, spedisce loro una lettera raccontando la storia d’amore che avevano condiviso, vede sparire anche quella famiglia che sembrava aver capito e accettato.

Il Peppino di Saverio La Ruina è un uomo semplice, modesto, molto gradevole e pacato. I suoi ricordi, frutto di una vita costellata di piccole e grandi battaglie private e non, si trasformano in storie leggere, ricche di una nostalgia delicata, la nostalgia delle cose belle che non ci sono più, la nostalgia di ciò che poteva essere e che non è stato. Le sue parole sono cariche di un peso importante che però percepiamo come lieve e delicato, perché sono parole che non colpiscono duramente, ma che accarezzano chi ascolta. Sono parole gentili ed eleganti, caratterizzate da un’inflessione dialettale che ci trasporta in una terra così bella e piena di contraddizioni, una terra del sud alla quale Peppino è molto affezionato ma che descrive con grande amarezza. Amara è anche la consapevolezza di quest’uomo, una consapevolezza che sfiora la rassegnazione. Arrivato a questo punto della sua vita, dice di non trovarsi poi così male a stare da solo. Qualche vicino pensa che sia single, altri che sia vedovo, alcuni dichiarano addirittura di aver visto sua moglie. Peppino sorride quando racconta di queste persone che costruiscono attorno alla sua figura ogni sorta di situazione possibile, spinti dall’irrefrenabile impulso di collocarlo in una qualche categoria umana. Se va bene a loro, allora va bene anche lui.

Un racconto commovente, a tratti molto ironico, spensierato e colorato, a tratti silenzioso, sofferto, fatto di violenze subite e taciute e di una profonda solitudine. Una racconto che finisce nel modo più dolce possibile: Peppino, seduto accanto alla tomba della madre, scrive su un vecchio scontrino trovato in tasca: “Svegliatemi in un mondo più gentile”. E mentre gioca con la neve con un sorriso quasi infantile, noi lo vediamo scivolare nel buio che cala in sala, e ci auguriamo la stessa cosa per quest’uomo che ci ha raccontato una vita intera, ma anche per noi.

Eleonora Monticone

Masculu e fìammina

di e con Saverio La Ruina

musiche originali Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia Cecilia Foti
scene Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo
disegno luci Dario De Luca e Mario Giordano
audio e luci Mario Giordano
organizzazione Settimio Pisano

Spettacolo realizzato in collaborazione con la Fondazione Piemonte dal Vivo

Tangram Teatro, MaldiPalco 2017

Il Cantico dei Cantici di Virgilio Sieni

Attribuito a Salomone, terzo re d’Israele, il Cantico dei cantici è un testo biblico suddiviso in otto capitoli che ragiona sulle tematiche amorose offrendosi a numerose possibilità interpretative. In tale gioco esegetico si è recentemente cimentato Virgilio Sieni, coreografo di punta della danza contemporanea italiana, ispiratosi al cantico per una delle ultime produzioni della sua compagnia. Lo abbiamo visto all’Auditorium Melotti, all’interno del complesso architettonico che ospita il Mart, a Rovereto, dove la solenne modernità progettistica di Mario Botta entra in dialettica con il silenzio primitivo evocato dalla coreografia di Sieni. Il celebre autore fiorentino, infatti, sembra aver conservato del testo sacro gli aspetti morali più alti, in una lettura dei valori di ascolto e di comunione mai trattata in modo esageratamente astratto. Umano e umanesimo si confrontano tra palcoscenico e teoria della danza.

Lo spettacolo colpisce per l’indiscutibile livello di qualità al quale la Compagnia Virgilio Sieni può permettersi di operare. La scenografia è scarna ma efficace: un grande disco dorato, appositamente realizzato da artigiani toscani, fa da tappeto ai sei danzatori, vestiti di soli pantaloni grigio-azzurri, calzatura francescana, il torso è nudo. La musica, eseguita dal vivo dall’autore (il contrabbassista Daniele Roccato, già punto di forza di molti spettacoli del coreografo fiorentino) è minimale ma estremamente presente. Austera, perpetua, sembra dialogare in tempo reale con gli interpreti della compagnia. Le luci creano uno spazio d’azione tanto devozionale quanto maestoso, in un’atmosfera ieratica dove si fondono l’aurora e il crepuscolo. È soprattutto nella qualità del movimento però, che la firma di Sieni si distingue maggiormente e si conferma come suo tratto più caratteristico: uno stile asciutto, quasi freddo, dove niente è lasciato al caso. La scrittura coreografica è rapida e lineare, fatta di gesti, ancora prima che di danza, che si susseguono fluidi, precisi, articolati, mai barocchi. Le masse muscolari si fanno leggere, sospese in una differente gravità, accogliendo nel proprio territorio il corpo dell’altro senza apparentemente mutare stato. Un’estetica impeccabile che, mentre attinge dall’iconografia pittorica medievale, ridisegna quella della danza contemporanea all’italiana.

Il finale lascia un boato nello spettatore il quale, se anche non coglie appieno i possibili riferimenti citazionisti e non possiede i corretti strumenti interpretativi relativi alla danza, dimentica la necessità di tale comprensione per una buona ora di coinvolgimento artistico, dove la sensualità diventa percepibile dall’intelletto. Spiace la mancanza di pubblico e l’apparente distacco di quest’ultimo, forse abituato ad una lettura critica che se funziona con l’arte museale non è detto che si possa adottare anche con quella orchestica.

Coerente con una poetica della povertà, del cenobitico e del sacrale, il Cantico dei cantici si fa portavoce di un “manifesto religioso” più che politico, reso linguisticamente democratico da una sintassi fatta di rinunce e cedevolezze motorie, scritta sul e col corpo. Una poetica che Sieni percorre da anni attraverso i diversi orizzonti produttivi: dai lavori per la Compagnia Virgilio Sieni a quelli per le comunità, dai “cammini popolari” ai soli, all’improvvisazione coreografica.

L’opera manifesta la sua «confluenza di poemi mesopotamici», stando alle parole di Sieni, dove «si odora di origine». Essa rievoca per sussurri e sensazioni quella mezzaluna fertile, culla dell’umanità e della sacralità. Tra Babilonia e Gerusalemme la danza di Sieni graffia la tradizione religiosa proprio a partire dalla rievocazione fedele di quella stessa tradizione che, democraticamente, va ad infrangere. Una tale definitiva, consapevole e rispettosa rottura si rivela forse l’unica via di riappropriazione cultuale in un’epoca connotata da forti sentimenti irreligiosi ed irreparabili lacerazioni tra contemporaneità e consapevolezza storica.

Tobia Rossetti

Un’introduzione alla danza contemporanea – Introdans fra van Manen, Childs, Kylián e Duato

Fonderie Limone di Moncalieri gremite per la sesta serata di Torino Danza. È olandese la storica compagnia Introdans che per l’occasione presenta quattro spettacoli del suo repertorio, creati da alcuni tra i più celebri coreografi viventi, ben distribuiti sul territorio europeo e non: Hans van Manen, Lucinda Childs, Jiří Kylián e Nacho Duato, provenienti, nell’ordine, da Olanda, Stati Uniti, Repubblica Ceca e Spagna. La ricca proposta si dimostra una degna introduzione alla danza contemporanea, come vuole il nome della compagnia, fondata negli anni Settanta con l’arduo intento di diffondere l’arte tersicorea nei Paesi Bassi ad un pubblico il più vasto possibile. Nella serata torinese infatti, Introdans porta in scena una fetta della più grande coreografia degli ultimi vent’anni del Novecento, eccezion fatta per il pezzo di Lucinda Childs che la celebre artista newyorchese ha creato solo due anni fa appositamente per la Introdans, ma che esteticamente e ideologicamente si integra alla perfezione con le altre tre proposte del programma.

Ad aprire la scena è Polish Pieces, un variopinto ed eccentrico balletto di Hans van Manen scritto su musica di Górecki nel 1995. Una dozzina di danzatori vestiti di lycra dai colori sgargianti ed una coreografia dinamica ed esuberante: queste le connotate di uno spettacolo astratto, nel senso proprio dell’astrattismo pittorico cui sembra farsi portavoce, e che ha i toni di un cartone animato ma il ritmo di una competizione sportiva. Forme bellissime si fanno e si disfano attraverso l’anatomia dei corpi perfettamente disegnata dai costumi attillati e non vogliono aggiungere altro al piacere della geometria e al divertimento dei colori.

Decisamente più contemporary nell’estetica (ma forse non nell’intenzione) è il secondo pezzo, Canto Ostinato, che Lucinda Childs ha recentemente ideato sulla omonima composizione del musicista olandese Simenon ten Holt. I giochi di luce che formano la scenografia sono costituiti da linee luminose che si incrociano parallele sul fondale. I danzatori, vestiti in bianco, si dichiarano più neutri rispetto alla gaiezza cromatica del brano precedente. La coreografia, fatta di simmetrie ripetitive ed ossessive, ammicca a certo minimalismo compositivo tutto americano, ribadendo la provenienza della coreografa. Al di là di queste suggestioni, che analizzate singolarmente sembrerebbero prese in prestito dalla danza contemporanea, lo stile coreografico è tuttavia insolitamente rigoroso, quasi accademico, potremmo dire moderno. I quattro ballerini, due uomini e due donne, si muovono all’interno di una costruzione modulare effettivamente ostinata, come da titolo, che si spegne in una leggera dissolvenza finale.

Più dichiaratamente drammatico è il Kylián del terzo balletto, Songs of a Wayfarer, che l’autore compone ispirato dai toni solenni dei Lieder di Mahler nel 1982 per il Nederlands Dans Theater. Cinque struggenti passi a due si incrociano in un ambiente agreste, oscuro e bucolico, dove lo stile coreutico raggiunge i picchi più lirici (ricordiamo che la coreografia è anche la più anziana fra le quattro proposte) ed esalta romanticamente i caratteri della coppia uomo-donna.

Chiude la serata Nacho Duato con il quarto ed ultimo pezzo, Rassemblement, il più lungo in durata ed il più ricco di contenuti drammaturgici. Un alto numero di ballerini racconta la storia dello schiavismo africano tout court evocando suggestioni che parlano di terre lontane. Immaginifico ed esotico, questo balletto del 1990 coniuga la cultura occidentale con quella dell’Africa attraverso alcuni escamotage visivi e contenutistici che, se oggi si rivelano facili cliché, negli anni Novanta erano ancora semanticamente innovativi (il danzatore di colore didascalicamente frustato da due guardie, i canti rituali intonati in una lingua a noi sconosciuta, i richiami coreografici a danze, movenze e gestualità marcatamente africane ecc.). Un inno a quel territorio di comunione culturale in cui comunità diverse possano incontrarsi, che commuove a tal punto la platea da far passare quasi inosservata la timida caduta di una danzatrice. Lo spettacolo di Duato è quello abitato dal ritmo più serrato e coinvolgente: le sequenze più evocative e toccanti si trovano qui e si scoprono alla fine della serata, cogliendo sapientemente il pubblico di sorpresa. Gli applausi sono fragorosi e partecipati.

In quasi mezzo secolo la Introdans, oggi diretta da Roel Voorintholt, dimostra di aver rispettato il suo obiettivo, riuscendo a diffondere su larga scala la danza di alto livello, veicolandone in modo efficace e riconoscente i significati. Un’introduzione alla danza contemporanea che presenta quattro spettacoli appartenenti a quello stile e quel particolare contesto produttivo precedente il sistema contemporaneo e che anticipa e apre la strada alla danza di oggi, definibile contemporanea in senso più stretto. Un invito alla comprensione di ciò che è adesso la coreografia, che di essa omaggia la grandezza e la coralità, attraverso una compagnia di alto calibro, e un repertorio che, preso per singoli frammenti drammaturgici, a tratti ancora incanta come fuori dal tempo. Tre classici e una novità, già anch’essa a suo modo classica, che convincono della riscoperta dei valori coreografici, di contro a certo già démodé concettualismo coreico. Un’introduzione alla danza europea (e non) che Torino può andar fiera di ospitare e diffondere, oggi, in Italia e che non a caso il pubblico ha dimostrato di apprezzare calorosamente.

«Il futuro è costruire su quanto di buono è stato fatto nel passato. Ci vedo un compito per i media, ma anche per i governi» dice Hans van Manen provocando le nuove generazioni di intellettuali, ancor prima che di danzatori, a farsi adeguatamente carico del passato, delle tradizioni e dei valori che la danza ha veicolato. L’invito, esplicitamente rivolto al vecchio continente, è, in questo momento storico, quello di saper leggere ed integrare i vecchi valori e, a partire da questi, fondarne di nuovi. Senza illudersi di poter applicare i paradigmi contemporanei alla storia del passato. Per farsi protagonisti del proprio tempo e non soltanto spettatori.

 

 

 

 

Tobia Rossetti

Stanze/Qolalka: siamo diversi?

Martedì 20 giugno, in occasione del Festival delle Colline Torinesi, va in scena alle Fonderie Limone lo spettacolo diretto da Massimiliano e Gianluca De Serio Stanze/Qolalka.

Lo ammetto: quando sono entrato in teatro e ho visto due leggii senza alcuna scenografia se non un paio di sedie, un cassone e due teli bianchi ho avuto paura. Temevo di risentire la classica storia sul quanto siamo cattivi e poco accoglienti noi occidentali nei confronti dei fratelli africani in un’accozzaglia di letture e video utili solo all’autocelebrazione di un’idea.

E invece? Invece i Fratelli De Serio hanno dato vitae spazio a storie forti e coinvolgenti raccontate da due immigrati e ora mediatori 

culturali di nome Abdullahi e Suad che, pur non essendo attori, hanno portato in scena ciò che molti grandi professionisti (o presunti tali) italiani non riescono a trasmettere: la verità.

Sì, perché Abdul e Suad sono anche autori dello spettacolo e, per poco più di un’ora, hanno raccontato cosa è realmente la Somalia e di cosa tratta la loro cultura: tra poesia, religione, guerre, morti e un’instabilità politica tristemente nota a molti paesi africani.

La messinscena, come ho già accennato ironicamente, è essenziale: è evidente come in questo spettacolo giochi un ruolo da protagonista l’uso sapiente delle retroproiezioni dei Fratelli De Serio, non a caso – ottimi – registi cinematografici. I teli bianchi sono infatti mobili e vengono spostati dai due attori per creare delle stanze ogni volta differenti, arricchite da immagini, parole e sottotitoli, in un’alternanza di idiomi tra somalo e italiano, i quali finiscono per fondersi in un’unica lingua nella parte iniziale dello spettacolo, in cui le parole italiane vengono simpaticamente ”somalizzate” (ad esempio ”insalata” diviene ”ihynsalatah”) per aiutare il pubblico a prendere confidenza con una lingua, così come una cultura, apparentemente tanto diversa dalla nostra.

La domanda che ci si pone è: siamo veramente tanto diversi? La risposta non è importante, siamo esseri umani entrambi. Ma è innegabile che vi siano delle disuguaglianze tra il popolo italiano e quello somalo: ciò che salta immediatamente agli occhi è l’intensità dell’aspetto religioso. Questo è infatti molto presente nelle vite dei somali che continuamente durante lo spettacolo si rivolgono a Dio.

Inevitabile una riflessione sul testo, seppur buono, della rappresentazione: non c’è stata la volontà di spingersi ancora più in là di quanto si sia fatto per muovere delle accuse e portare delle testimonianze su quello che per la Somalia era ed è un vero e proprio ”cancro” che la divora dall’interno: lo jihadismo. Ho avvertito una necessità di dover mostrare solo il lato buono della cultura somala (cosa peraltro legittima) senza volersi mai addentrare nei fantasmi che hanno costretto centinaia di migliaia di persone a scappare per cercare un posto in cui vivere in sicurezza, lontani dalle bombe e dalla violenza gratuita delle minoranze belligeranti.

Esclusi Suad e Abdullahi, tutti gli attori siedono tra il pubblico e il senso di insieme tra platea e palco è palpabile, vista anche la scelta di luci che potrebbe risultare poco rischiosa ma anche funzionale allo spettacolo: il palco è sempre molto illuminato con un piazzato e, questa scelta, aiuta la distruzione della quarta parete come voluto anche per gli attori, i quali si rivolgono direttamente al pubblico e non recitano: raccontano.

I rimandi e le critiche al fascismo sono moltissimi. Un momento di fortissimo impatto emotivo è stata la stanza (o scena che dir si voglia) in cui si ricorda dei saccheggi e delle violenze perpetuati dagli italiani ai danni del popolo somalo negli anni del colonialismo. Quest’ultima mi è parsa una fondamentale chiave di lettura dello spettacolo: chi siamo noi per giudicare chi fugge da una guerra? Chi siamo noi per ostacolare chi cerca una terra diversa da quella che hanno calpestato per la prima volta? Dov’è finita la nostra umanità? La realtà è che una parte importante del nostro paese è composta da persone egoiste e attente a cercare un capro espiatorio che permetta loro di vivere felice. E’ stata quindi ottima la scelta degli autori e dei fratelli De Serio di sbattere in faccia la realtà a chi era in platea, di dire chiaramente le cose come stanno: ci lamentiamo di chi non ha niente e cerca qualcosa da noi ma, noi, che qualcosa lo avevamo, da loro ci siamo andati comunque. E il nostro aiuto non era richiesto.

Lo spettacolo si divide in tre momenti fortemente emozionanti: il racconto di un ragazzo somalo che, tramite un video, descrive la terrificante violazione dei diritti umani subita in un carcere libico; la testimonianza di una mamma come Suad dell’uso della poesia, la quale è fortemente presente nella cultura somala; il racconto di Abdullahi sul perché ha scelto di mettersi su un barcone e rischiare la vita e su quali sono i passaggi, le esperienze, i rischi concreti di chi sceglie di intraprendere questo pericolosissimo viaggio.

Molto interessante l’uso della tecnologia in tutto lo spettacolo, specialmente se abbinata alla tradizione somala: una volta le poesie (che, come già descritto, sono parte integrante della loro cultura) venivano tramandate oralmente, mentre ora i principali canali di diffusione sono Whatsapp, Viber, Facebook e Youtube. Questi ultimi, come testimonia Abdullahi, sono anche fondamentali nell’aiuto all’integrazione dei nuovi arrivati, i quali possono mettersi in contatto prima della partenza con chi ha già subito il calvario che li aspetta.

Abdullahi, infatti, racconta di come l’occidente sia visto come una terra promessa dai profughi africani ma, per una persona come lui che ce l’ha fatta, altre cento non riescono ad integrarsi e a trovare un motivo per vivere.

La colpa? Questo non ci è dato saperlo. Stanze/Qolalka è una straordinaria fonte di riflessione su quello che vuol dire integrarsi e sul come spiegare una cultura in modo fresco e a tratti brillante, oltre che emotivo e drammatico. L’auspicio è che la ricerca dei fratelli De Serio non si fermi qui e che si porti avanti questo progetto anche su altre culture apparentemente, e forse effettivamente, tanto lontane dalle  nostre.

Luca Vincent Pecora