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Una Monica al bacio

di Matteo Tamborrino

«Nacqui nei ’70 e giunsi in anni cupi,/ libero lo spirto mio com’è quello dei lupi./ Da subito in fattezze de masculo/ sentii smover, de drentro,/ l’intensa femminina forza,/ la scorza,/ ch’el tempo avrebbe trasmutato/ in delicata movenza,/ in gentile essenza de bambino/ che l’ambigua carta porta,/ ma ancor senza difesa,/ alfin non resta che la resa;/ lo pensiero dello sbaglio,/ il nascondiglio,/ la lacrima sul ciglio,/ al voler sentire che forte preme/ lo desiderio de svelar/ il sommovimento,/ lo stordimento, de scoprir la direzione/ c’agli altri par sbagliata» (da L. Fontana, Monica Bacio. Frammenti per un monologo)

Lorenzo Fontana/Monica Bacio
Lorenzo Fontana/Monica Bacio

Abbiamo sentito parlare spesso, negli ultimi mesi, di questa bionda squinternata Monica, e ora, finalmente, l’abbiamo conosciuta.

DSC7686-1024x682La creatura teatrale di Lorenzo Fontana  – ispirata a un personaggio del drammaturgo canadese Michel Marc Bouchard – è nata da un  articolato percorso creativo e ha avuto il suo  debutto  ufficiale al Teatro Astra di Torino: «Negli anni – spiega Fontana nelle note di regia – [Monica] è diventata il mio alter ego. Quando ho iniziato a scrivere questa storia, fortemente autobiografica, ho capito subito che mi serviva un tramite per raccontarla e mi è sembrato che la Bacio fosse lì apposta. Ho scritto il lamento di Monica perché credo che sia importante riconoscere il diritto di crescere diventando quello che sentiamo di essere davvero, nel modo più autentico possibile. Quando siamo piccoli c’è sempre qualcuno che pensa di sapere cosa sia giusto per noi, ma quello che è giusto per noi già lo sappiamo, abbiamo solo bisogno di essere accompagnati nel nostro viaggio di costruzione dell’identità».

Il lamento, ovvero le lacrime, di Monica Bacio è un esempio di ottima scrittura scenica.  Un prodotto, anzi no, un’opera preziosa, rara, vera. I versi accarezzano l’orecchio e giocano con la mente. È la potenza della lingua,  dell’italiano nella sua proteiforme beltà, da far andare in “brodo di giuggiole” file intere di letterati. Non è mai la parola stantìa e polverosa delle rappresentazioni da m(a)us(ol)eo. È la parola musicale di un teatro poetico, ma poetico per davvero. E non solo perché in rima.

Fontana_Manescalchi_JudicaOvviamente nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza un buon cast. In scena il collaudatissimo trio Fontana-Manescalchi-Judica Cordiglia. La pièce ripercorre varie fasi di crescita del protagonista, dall’infanzia all’età adulta, passando per l’adolescenza. Quadri che dipingono situazioni, emozioni, pensieri: la sfilata casalinga in tacchi alti, la partita di calcio, il giardinetto della foia, il bagno turco. La Creante/Manescalchi dà sostanza e azione ai Memoires di Monica/Fontana; a punzecchiare la narrazione intervengono la voce e le mani (e a un certo punto anche il corpo) di Giancarlo Judica Cordiglia, per lo più nei panni (o meglio nei volti) dei genitori.

Di fronte allo spettatore uno svettante cono fucsia adorno di toppe e finti seni, due cespugli, un pallone, una panchina, una parrucca luminescente. Il tutto racchiuso da un buio quasi onirico, da chiar di luna. Quella stessa Luna cacciatrice, con cerchietto e arco, che comparare all’inizio dello spettacolo. La scena, a dire il vero, ci coglie impreparati: forse – stando a quanto Monica aveva lasciato intendere su Internet – ci saremmo aspettati più kitsch, più esuberanza, più ostentazione. E invece no. Il gioco è sempre leggero, mai violento o invasivo. L’incanto delle ombre, poi, è particolarmente evocativo.  Si scherza sì, ma sempre con eleganza. E con il sottofondo di Mina. Non c’è mai la risata sguaiata da spogliatoio. Anche l’allegra falloforìa che a un certo punto invade il palco non è volgare. Perché dietro c’è sempre la storia di “Monica”, che non si piange addosso, ma ci aiuta a riflettere.

E quindi, Monica, tra una copertina di Vogue e il nuovo spot di Pasta Diluvio, continua a “lamentarti”!

IL LAMENTO, OVVERO LE LACRIME, DI MONICA BACIO-
(Prima Nazionale – 16/6/2016, Teatro Astra – Torino)
di Lorenzo Fontana
regia Lorenzo Fontana
con Olivia Manescalchi, Giancarlo Judica Cordiglia e Lorenzo Fontana
scene Paolo Bertuzzi
costumi Viola Verra
light designer Cristian Zucaro
sound designer Luca Vicinelli
direzione tecnica Alberto Giolitti
presentato in collaborazione con Fondazione Teatro Piemonte Europa nell’ambito di Scene d’Europa

Acqua di colonia

Giornali, radio, televisione, social network, politica, libri di scuola… Perché nessuno parla del colonialismo? Perché fin dall’inizio venne dimenticato? Sono proprio queste domande che i due attori Elvira Frosini e Daniele Timpano si sono posti quando due anni fa hanno ideato lo spettacolo Acqua di colonia. Uno spettacolo in cui sono riusciti a portare in scena un momento importante della storia italiana che, al contrario di come viene ricordato (ammesso che sia conosciuto), ebbe inizio sin dal 1882, e non si riduce quindi solamente ai cinque anni dell’Impero Fascista. Una storia banalizzata, schernita, nascosta e camuffata il più possibile per poi essere dimenticata. E così, come gli attori all’inizio dello spettacolo hanno fatto con il pubblico, anch’io chiedo a voi: “Qualcuno si ricorda qualcosa sul colonialismo? Qualcuno ricorda di averlo mai studiato a scuola?” Se la memoria vacilla possiamo allora affidarci alla lettura di libri, magari testi scolastici. Sapete cosa troveremmo? Nulla. Vuoto. Silenzio. Completo silenzio. Quel silenzio di chi sa e non dice, di chi ha subìto e non ha potuto gridare. Orecchie troppo sorde per udire voci ormai troppo consumate, strappate da chi non voleva che si udissero. E a questo punto, perché interessarsi? Perché scavare a fondo? Ormai le nuove generazioni non si sentono più responsabili di nulla. “Tanto erano altri tempi, non eravamo noi, chi se ne importa. È acqua passata, acqua di colonia, cosa c’entra col presente?”
Siamo attorniati da etichette già pronte, schemi di pensiero già formulati per noi, stereotipi già confezionati, dalla pubblicità alla politica, tutti ci bersagliano e noi non ce ne rendiamo conto.

I due attori, con il loro spettacolo alle Lavanderie a Vapore, di cui ho avuto l’occasione di essere spettatrice solo alla prima parte, si sono presentati al pubblico come chi deve mettere in scena un lavoro e si chiede da dove partire. Iniziano così a cercare di capire cosa sia stato il “colonialismo”, ma la disinformazione risulta un ostacolo molto difficile da superare. Cercano risposte nei filosofi, nei pensatori degli ultimi due secoli, ma hanno grandi delusioni. Allora tentano un’altra tecnica: l’immedesimazione, di se stessi e del pubblico, nella condizione di carnefici di altri uomini. Provano ad immaginare di doversi sbarazzare di alcuni peluche vecchi dell’infanzia, di immaginarli lì sul pavimento morti e di prenderli ad uno ad uno e, guardandoli, buttarli in un sacco nero dell’immondizia. Immaginare tutto il sangue sparso. Ma era necessario, andava fatto, era ormai roba vecchia, già passata.
Naturalmente il rimando alla situazione attuale dell’immigrazione, alle condizioni degli immigrati, sulla nostra consapevolezza e sul nostro dovere di agire, era spontaneo e loro non se lo sono fatti mancare.
E infatti, dopo aver provato a domandarsi come avrebbero potuto fare per capire, spiegare il colonialismo e la sua rimozione, giungono alla conclusione che è inutile preoccuparsi. Tanto vale rilassarsi, “Ora possiamo andare anche noi al mare, ma non sul fondo..!”.
Alessandra Botta

Di Daniele Timpano e Elvira Frosini

Regia: Daniele Timpano e Elvira Frosini

interpretazione: Daniele Timpano e Elvira Frosini

consulenza: Igiaba Scego

aiuto regia e drammaturgia: Francesca Blancato

scene e costumi: Alessandra Muschella e Daniela De Blasio

disegno luci: Omar Scala

progetto grafico: Antonello Santarelli e Valentina Pastorino

con la partecipazione di Suad Omar

produzione: Elvira Frosini e Daniele Timpano

 

 

 

Verità nascosta da una farfalla

Ieri è andato in scena 1983 BUTTERFLY, spettacolo della “Piccola Compagnia della Magnolia” in prima assoluta al Festival delle colline.

Il lavoro narra la storia di Bernard Boursicot e Shi Pei Pu, persone realmente vissute, in maniera molto intima, raccontando e mettendo in scena pagine del diario di Boursicot.

Un giovane contabile francese, in viaggio per lavoro nella Pechino del 1962 incontra un cantante d’opera, Shi Pei Pu, che si è appena esibito nella “Madame Butterfly”. Nonostante si dica che i cinesi odino la Butterfly come opera perché vi ritrovano l’oppressione dell’uomo occidentale sulla donna orientale, Bernard trova che in Shi ci sia qualcosa di speciale.
Tra i due nasce un sentimento, Shi gli racconta che in realtà è una donna, avranno un figlio insieme. Andranno a vivere in Francia tutti e tre.
Bernard inizierà a passare documenti francesi alla Cina per poter proteggre la sua famiglia.
Qualcosa smuove l’apparente felicità che c’è in questa sorta di famiglia. Un’accusa di controspionaggio. Una rivelazione che sconvolge tutto.

Lo spettacolo è realizzato da due soli attori.
I due si scambiano i ruoli di sesso, Davide Giglio interpreta Shi, Giorgia Cerutti interpreta Bernard. Devo ammettere che magnolia foto repertorio 1per la prima parte dello spettacolo la cosa mi ha turbato. Mi chiedevo il perchè di questa scelta. Ma, a un certo punto, sono le stesse parole del diario di Bernard a spiegarci che la sessualità non ha importanza. A fronte di ciò, ritengo che gli attori abbiano giocato molto bene su questo aspetto e abbiano saputo sfruttarla per una resa scenica ancora più di impatto.
Non ho apprezzato molto però l’uso dei microfoni. Mi sembra che servissero puramente per amplificare la voce e non per creare effetti particolari. E’ vero, i due attori hanno camuffato la voce per tutta la durata dello spettacolo, però sono ancor dell’idea che in teatro la parola debba arrivare senza mezzi intermediari.
Altro protagonista è lo schermo : stretto e a tutta altezza, ci mostra i fatti, ci porta da un luogo all’altro, da un anno all’altro, permettendo così alla compagnia di usare una scena molto essenziale e pulita. Un pavimento bianco, un bancone rosso, sei candele : tre a un capo del bancone e tre dalla parte opposta.
La storia di per sé è molto cruda, ma racchiude un non so che di poetico. Negli anni passati era già stata portata alla luce e i protagonisti resi immortali da un film . Ma grazie al teatro si è potuto rinnovare questa poesia e libertà delle proprie scelte che porta a un destino triste e infelice.

Elisa Mina

 

di Giorgia Cerruti
regia Giorgia Cerruti

assistente alla regia Cleonice Fecit
con Davide Giglio e Giorgia Cerruti
scene e luci Lucio Diana
costumi Gaia Paciello – atelier Pcm
musiche Giorgia Cerruti – Cleonice Fecit
organizzazione Giulia Randone

produzione Piccola Compagnia della Magnolia, Festival delle Colline Torinesi

Anteprima Killing Desdemona

16/06/2016

Ieri pomeriggio (il 16 giugno) ho avuto la possibilità di assistere alla prova generale di Killing Desdemona, presentato al Festival delle colline in Anteprima Nazionale della compagnia BALLETTO CIVILE.
Lo spettacolo ideato da Michela Lucenti e Maurizio Camilli, con musica dal vivo Jochen arbeit è bellissimo.
Premettiamo che “prova” non è mimimamente sembrata, gli attori e i ballerini sono stati all’altezza di una vera e propria replica.

Il lavoro racconta la vicenda dell’ Otello tentando di sottolineare in maniera ancora più marcata la posizione e l’amore di Desdemona. La compagnia ha un uso molto suggestivo dei microfoni grazie ai quali si riescono a creare effetti nuovi, frusciiBALLETTO CIVILE_7, echi lontani e canti che ci trasportano in un altro mondo.
Molto forti e toccanti sono le coreografie di tutti i personaggi che col corpo danno vita alle vere parole del testo: quelle non dette. Ciò accade fin da subito, con Desdemona e il Moro, che entrano in questa sorta di danza mentre cinti l’uno all’altra si amano, e poi anche con gli scontri comici tra Iago e Cassio, tra Otello e Iago, che ci mostrano la vera forza di questa storia di gelosia, amore e rabbia.

Per la rappresentazione di oggi la compagnia ha gia il tutto esaurito.
Non mi resta che augurarvi, cari lettori : buono spettacolo…

KILLING DESDEMONA
Ideazione Michela Lucenti e Maurizio Camilli
Regia e Coreografia Michela Lucenti
Musica originale eseguita dal vivo Jochen Arbeit (Einstürzende Neubauten)
Interpretato e creato da : Fabio Bergalio, Maurizio Camilli, Andrea Capaldi, Ambra Chiarello, Michela Lucenti, Demian Troiano, Natalia Vallebona
Scene e costumi Chiara Defant
Realizzazione scene Alessandro Ratti

Produzione Balletto Civile, Festival delle Colline Torinesi, Ravello Festival, Neukoellner Oper Berlin, Compagnia Gli Scarti
con il sostegno di Mare Culturale Urbano , CTB Centro Teatrale Bresciano , Festival Resistere e Creare, Centro Dialma Ruggiero-FuoriLuogo

Elisa Mina

Jerusalem: la pièce di piombo (fuso)

di Matteo Tamborrino

“Il Consiglio di sicurezza […] esorta le parti israeliana e palestinese e i loro leader a cooperare[…]. Decide di continuare a seguire con grande attenzione la questione” (da Risoluzione ONU n. 1397/2002). Questione. È un termine che raggela, soffoca, come piombo fuso. Che scende dritto nei polmoni.

Ruth Rosenthal in scena
Ruth Rosenthal in scena

Jerusalem Cast Lead (premio giuria come miglior performance all’Impatience Festival di Parigi nel 2011) è il battesimo torinese di Winter Family, duo di musica sperimentale franco-isrealiano nato dodici anni fa dall’incontro artistico tra Ruth Rosenthal e Xavier Klaine, fucina di molti spettacoli di teatro documentario, sempre proposti in spazi non convenzionali. Dopo aver fatto il giro del mondo – dall’Europa in Israele, dal Giappone in Canada – Ruth & Xavier approdano sul palco dell’Astra, con il loro “rotacistico” agitprop dai toni rochi.

Lo spa901504_518678041528409_1330654207_ozio scenico, albino, somiglia a un foglio piegato: due facce perpendicolari, con la metà verticale che – all’occasione – si trasforma in grande schermo, atto a resuscitare grandi celebrazioni di massa, canti melanconici e danze folkloristiche di un passato ancora prossimo. Figure virtuali a cui l’ombra della performer puntualmente si mescola. Quello che si coglie non è però un candore puro, immacolato, rasserenante, bensì un bianco freddo, livido, da obitorio (su cui giocano perfettamente le luci, ora abbaglianti, ora più fioche).

Quattro casse, qualche microfono, una Coca e un tramezzino. E poi file ossessive di bandiere, stelle ciano incastonate in un manto interrotto di tallèd. La Rosenthal ha un vestito scuro, casalingo, di quelli che si vedono nei documentari sulla Seconda Guerra Mondiale, mosso da un’indecifrabile fantasia; e poi trecce da bambina; e scarpe da ginnastica con la suola violetta. Questa la cromia della pièce: una “limpidezza sporca” che nasconde mostri di piombo. I mostri della storia. Il timbro sonoro è penetrante, fende i timpani; i movimenti sono geometrici, perlustrano tutto lo spazio disponibile. La protagonista si barrica sempre più dietro fragili mura simboliche. È davvero una sintesi allucinata nella sua cruda realtà, oppressiva e mai dispersiva.

Ma che cosa c’è, dentro? «In occasione dell’anniversario della formazione dello stato di Israele e della riunificazione di Gerusalemme nel 2008 – racconta il programma di sala – i Winter Family incidono a Gerusalemme il brano Jerusalem Sindrome per la radio France Culture. Ruth Rosenthal e Xavier Klaine decidono di sviluppare e approfondire questo lavoro e di creare una performance di teatro documentario: così nasce Jerusalem Cast Lead. Fra il 2009 e il 2010 Ruth e Xavier documentano le cerimonie commemorative nazionali nelle scuole, nei quartieri, in un gran numero di luoghi simbolici di Israele. In scena la stessa Ruth guiderà il pubblico in un viaggio nella società israeliana attraverso suoni, immagini e testi che celebrano il dolore, la memoria e il coraggio. I simboli di questi elementi permeano la vita quotidiana degli israeliani, che ne sono sopraffatti, quasi, come recita il sottotitolo, come vivessero sotto una dittatura emotiva».

Con codici volu541916_684599334936278_965661395_ntamente semplificatori, Winter Family cammina, o meglio saltella, sul filo sottile che separa il sionismo collettivo, fatto di tradizioni comunitarie e pillole di memoria storica (prima fra tutte la shoah, che si materializza in cinque candele che si specchiano), dagli atti esecrandi di una società che viene smascherata, senza retorica ma anche senza pietà, nelle sue manipolazioni. Si tratta di una vera cecità visiva e cognitiva. “Gli insegnanti – ripeto parafrasando – ci portavano a vedere i kibbutz. Ci dicevano soltanto che una volta avevano nomi arabi. Noi non indaghiamo oltre”.

Due elenchi risuonano nelle orecchie degli spettatori: la sequela dei bambini sterminati nei lager da un parte, i prénoms dolceamari delle operazioni militari israeliane dall’altra: Colonna di nuvola, Arca di Noè, Grappoli della collera, Piombo fuso. Oferet Yetsukah. Cast Lead. Le scritte e i sopratitoli, che leggiamo con foga e con un po’ di alienazione (per via della scomoda posizione dei due schermi), non ci possono lasciare impassibili. L’animo – alla fine – è un po’più scuro, meditabondo. Plumbeo.

 

JERUSALEM CAST LEAD. HALLUCINATORY TRIP IN AN EMOTIONAL DICTATORSHIP
di Rosenthal & Klaine
regia Rosenthal & Klaine
idea originale, registrazione, regia e progettazione Winter Family (Rosenthal & Klaine)
con Ruth Rosenthal
suono e video Xavier Klaine
disegno luci e direzione tecnica Julienne Rochereau
tecnico del suono Sébastien Tondo
voci Marilee Scott & Brian Gempp
collaborazione artistica Yael Perlman
produzione Winter Family e ESPAL du Mans
residenza creativa Ferme du Buisson e Fonderie au Mans
versione francese con sopratitoli in italiano
traduzione a cura di VIE Festival Modena

Reality: i diari di Janina Turek

Cosa darei ogni tanto per essere morta, anche solo per cinque minuti”

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Una donna e un uomo inscenano una morte, provandola e riprovandola, cercando di renderla più “realistica” possibile, badando tuttavia a dettagli plateali quali una ciocca di capelli sul volto o la posa che assume un corpo privo di vita una volta caduto a terra. Da questo studio incomincia la storia di Janina Turek, partendo proprio dalla sua morte, avvenuta all’età di 80 anni a causa di un infarto, per le strade di Cracovia.

Subito le lancette del tempo vengono spostate indietro, nel febbraio 1943, poco dopo Continua la lettura di Reality: i diari di Janina Turek

PPP: LE PAROLE SONO ATTENTATI

PPP ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE: questo il titolo dello spettacolo con cui il duo Ricci/Forte sceglie di omaggiare Pier Paolo Pasolini nel quarantesimo anniversario della sua scomparsa.

Data la ricorrenza, questa scelta non può che rappresentare una scommessa. Innanzitutto perchè il rischio di cadere nel vuoto memorialismo e negli stereotipi è elevato. In secondo luogo perchè si tratta di celebrare un artista dalla personalità poliedrica che ha fatto dell’eclettismo il tratto distintivo della sua attività intellettuale.

I due giovani autori-registi, forti della loro idea di teatro, non si sono lasciati intimorire dalle circostanze e hanno cercato un approccio diverso che segna una frattura decisiva rispetto ai lavori che in questi decenni si sono succeduti attorno all’universo pasoliniano.

Il coraggio di questa scelta si evince dal non aver optato per l’allestimento di un’opera teatrale scritta dallo stesso Pasolini, ma nell’aver capito che l’eredità di questo artista è un pozzo di domande a cui dobbiamo ancora delle risposte.

Ecco allora che Pasolini in questo spettacolo non diventa il mito da celebrare, ma la guida di un viaggio, un’intima esperienza di scoperta che attori e spettatori compiono indistintamente.

Proprio per questo si rivela interessantissimo il lavoro fatto da Ricci/Forte per la stesura del testo. La tessitura drammatica, lungi dall’essere un catalogo di citazioni letterarie e cinematografiche, alterna momenti di riflessione a scene giocate sull’impatto sensoriale. Nei primi, è la parola a prevalere, nei secondi la comunicazione è tutta affidata a suono e movimento. La trama è assente: non vengono qui ripercorse né le vicende umane, né quelle intellettuali di Pasolini. Lo spettacolo apre una serie di focus tematici su questioni centrali dell’opera pasoliniana che ancora oggi si pongono con tutta la loro bruciante attualità.  È lo sguardo all’indietro che Pier Paolo fa prima di sciogliersi nel ventre liquido del mare di Ostia.

I protagonisti sono un uomo e cinque donne dalla differente provenienza geografica che dialogano ed interagiscono tra loro in un’atmosfera distorta, dai tratti allucinatori. La loro identità non è mai dichiarata. Non c’è Pier Paolo. C’è un uomo che di fronte alla sua macchina da scrivere non accetta di avere un foglio bianco, mentre riecheggiano irrisorie le note di The Show Must Go On. Ci sono delle donne che orbitano attorno a lui, lo interrogano, lo deridono, lo cercano. Non ci sono personaggi, ma un’unica tensione riflessa in sei corpi diversi, tutti accompagnati dalle loro ombre di dubbio.

L’allestimento scenografico consiste in un ammasso di pneumatici, elemento imprescindibile dello spettacolo, che richiamo la tragica fine che l’artista trovò sul lido di Ostia nel novembre 1975. Toccante la scena finale che rievoca l’accaduto con forti accenti lirici.

fine

Ne deriva un’opera dalla struttura frammentaria, aperta, di cui è difficile rendere conto. Un’esperienza forte che richiama in causa tutti quei nodi contraddittori che Pasolini non è riuscito a sciogliere e che ancora non cessano  di tormentarci.

Uno fra tutti il rapporto tra intellettuale e realtà: due universi distinti che si scontrano e si fanno violenza reciproca.

L’artista è qui “un santo, uno stronzo, un idiota”. Perennemente in bilico tra il possesso del proprio io e l’essere posseduto dal mondo. Inevitabilmente destinato a soccombere di fronte alla natura refrattaria del reale e agli uomini che masticano e sputano la poesia nella convinzione di averla compresa.

Ad essere rappresentato è il dramma di un Pasolini, confinato fuori dalla Storia, in eterna lotta tra un mitico ritorno alle origini e uno sguardo lucido e profetico sul futuro.

Questa disillusione simboleggia sì la condizione propria dell’intellettuale, ma richiama anche il disagio personale dei due registi che hanno dovuto abbandonare l’Italia per vedere realizzata la loro vocazione artistica.

Uno spettacolo che dunque ci invita a riflettere su quale possa essere il senso di fare cultura in un paese inginocchiato, in cui il conformismo ci illude di essere liberi.

Non a caso l’omologazione è un altro dei temi tanto cari a Pasolini. Di grande impatto la scena in cui la conformazione ai dettami della società consumistica è rappresentata come ricerca ossessiva e nevrotica di un piacere inappagante.

Ineludibile infine il confronto con i temi della trasgressione e della sessualità: forza vitale primaria, pura dimensione corporea. L’uomo preda degli istinti animali è emblematicamente rappresentato dalle maschere da maiale indossate dalle attrici.

maiali

Ricci e Forte propongono un teatro coraggioso e nuovo che inevitabilmente non può raccogliere l’unanimità dei consensi, ma che indubbiamente può ritenere di aver vinto la propria scommessa in un terreno tanto scivoloso quanto quello pasoliniano.

Cecilia Nicolotti

PPP ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE

omaggio a Pier Paolo Pasolini

di ricci/forte
regia Stefano Ricci

con Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Giuseppe Sartori, Catarina Vieira
drammaturgia ricci/forte
movimenti Francesco Manetti
scene Francesco Ghisu
costumi Gianluca Falaschi
ambiente sonoro Andrea Cera
direzione tecnica Alfredo Sebastiano
assistente regia Ramona Genna

produzione ricci/forte
coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Festival delle Colline Torinesi

PPP. ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE omaggio a Pier Paolo Pasolini

Carignano mezzo pieno, in scena una montagna di pneumatici bianchi

Un uomo entra e urla al pubblico parole forti, di impatto, quasi aggressive.  Viene raggiunto da cinque donne che iniziano una coreografia fatta di movimenti nevrotci e ripetitivi su una musica rock e martellante.

Questo il primo quadro dello spettacolo firmato Ricci/Forte andato in scena la sera del 10 giugno al Teatro Carignano in occasione del Festival delle Colline Torinesi.

“Ci interessa che il pubblico, uscito da teatro, trovi la forza di svegliarsi, addrizzare la schiena, rimboccarsi le maniche e cambiare questa situazione drammatica che nemmeno Pasolini poteva immaginare sarebbe arrivata così presto così a fondo”

Ecco alcune parole rilasciatemi durante l’intervista con Stefano Ricci. Un’ occasione per riflettere sul senso del teatro oggi e sul senso di mettere in scena la parte poetica di un intellettuale così profetico e allo stesso tempo così frainteso e mistificato.

Sul palco si alternano scene scritte  e dirette con grande maestria dai registi, interpretate con forza e precisione dai performer. Vediamo il circo con personaggi assurdi e contemporanei, la danza con coreografie potenti e spettacolari , la video-art con fondali colorati a creare l’atmosfera e frasi proiettate semplici e d’impatto.

Il tutto legato dal filo rosso della poetica pasoliniana più profonda.

Si parte dalla letteratura, un romanzo: Petrolio. Testamento filosofico dello scrittore che ci porta a esplorare il suo universo. Attenzione però.. non si parla mai della sua vita o dei vari scandali che gli sono stati affibbiati, bensì della sua vocazione etica e di denuncia sulla società contemporanea, borghese e consumistica.

“Noi viviamo all’estero -prosegue Ricci- e ogni volta che torniamo in Italia sbattiamo contro questa realtà  opprimente e stagnante. Vogliamo con questo spettacolo segnare una svolta rispetto a tutto quello che si è detto e messo in scena su Pasolini ma soprattutto rappresentare la crisi che viviamo noi (artisti italiani del nostro tempo) davanti questa perdita di valori e dignità”

Parole forti e sentite che ho metabolizzato in un paio di giorni come studente di spettacolo e aspirante artista.

Intanto in scena ascoltiamo generi di musica che vanno dall’ elettronica più attuale  alle canzoni nazional-popolari italiane. Siamo colpiti dall’alternanza di dialoghi e  monologhi ironici,stranianti, provocanti.

Quadri con una forza comunicativa fenomenale fatti di allusultimo inventario-2ioni sessuali mai volgari, slogan contemporanei riprodotti all’infinito, climax emotivi da capogiro.

C’è spazio anche per alcune delle interviste registrate tratte da Comizi d’amore , altra opera dell’eclettico intellettuale che tutti dovrebbero conoscere.

Ecco, una critica negativa che mi viene in mente è relativa alla poca comprensibilità di alcune scene per un pubblico non così addetto ai lavori.

Conclusa la recita e dopo svariati minuti di applausi, tutti gli artisti coinvolti (performer e registi) sono stati disponibili nel rispondere alle domande della “Mezz’ora con…” , formula che permette al pubblico di confrontarsi e fare domande ai teatranti.

Vi lascio con quello che Ricci mi ha detto rispetto al rapporto con il festival di cui sono ospiti:

“Con il Festival delle Colline c’è un rapporto di amicizia e stima che dura da anni, come con tutti i partner che ci sostengono e condividono con noi l’esperienza di veder messo in scena uno spettacolo che è frutto di un lavoro comune e partecipato, nonchè sudato e modificato col tempo.”

E chi non fa questo mestiere difficilmente può capire questa magia. Mi permetto di aggiungere io.

Buon teatro a tutti!

 

di RICCI/FORTE
regia Stefano Ricci

con Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Giuseppe Sartori, Catarina Vieira
produzione RICCI/FORTE
coproduzione  CSS TEATRO STABILE DI INNOVAZIONE DEL FVG, FESTIVAL DELLE COLLINE TORINESI

in scena al Teatro Carignano

 

VANJA 10 YEARS AFTER

Come non invecchiare? Ricordare, rivivere, reinterpretare? Occuparsi di qualche cosa? Un pianoforte, due poltrone, una lampada, un divano consunto, una chitarra acustica con il suo amplificatore, un charleston, qualche pianta: un luogo indefinito nel quale Zio Vanja, Sonja e Astrov si trovano a vivere dieci anni dopo la partenza di Elena e Serebrijakov. Si ritrovano o, meglio, sembrano perdersi nel ricordo della vicenda čechoviana. Tentano di leggere il passato, di proiettarsi nell’avvenire, lasciando il loro messaggio. Continua la lettura di VANJA 10 YEARS AFTER

MDLSX: un viaggio oltre i confini del corpo, oltre i generi, OLTRE!

” Sono nata due volte: la prima volta femmina e la seconda maschio.”

Silvia Calderoni,  attrice della compagnia “Motus”, in MDLSX si mostra capace di manovrare qualunque strumento al proprio servizio.

Sul palco interpreta la figura del Cyborg in veste di vj-dj, avvalendosi di strumenti tecnologici come microfoni che filtrano, a seconda della tipologia, in modo diverso la sua voce; un traktor che le permette di accompagnare la sua performance con numerose tracce musicali significative; un Go Pro usato per filmarsi in alcuni momenti dello spettacolo; un video-proiettore che a volte proiettava su una parte del fondale del Palco, le immagini registrate dal Go Pro, mentre altre volte trasmetteva video di brandelli autobiografici.

Motus: MDLSX (http://www.bunker.si/slo/motus-mdlsx-italija), Stara mestna elektrarna, 27.8.2015

Ho appena definito il personaggio della Calderoni come Cyborg, tralasciando però di spiegare chi e che cosa sia il Cyborg.

Dunque, questa figura è allo stesso tempo uomo e macchina, è un individuo non sessuato, né maschio né femmina, collocato oltre le categorie che noi abitualmente usiamo per interpretare il mondo.

Il Cyborg è arrivato a comprendere che i confini determinati dal sesso, dal colore della pelle, dalla nazionalità sono costruzioni culturali e imposizioni della società.

Inoltre è consapevole di come e quanto la scienza sia penetrata nel quotidiano e abbia trasformato la nostra vita, influenzando soprattutto la concezione del corpo, che non è più inalterabile e intoccabile, ma diventa manipolabile e campo di sperimentazione; pensiamo ad esempio all’ utilizzo delle lenti a contatto oppure all’ aggiunta di protesi.

Quindi, se il corpo può essere “gestito”, viene smentita l’ idea che vede esso come, esclusivamente, sede di naturalità.

Ecco che andare oltre le categorie e oltre i confini sociali significa superare i dualismi (maschio-femmina, naturale-artificiale, bianco-nero, corpo- mente) e semplicemente essere e riflettere sé stessi.

Silvia Calderoni affronta per un’ ora e mezza un viaggio-performance, raccontandoci con parole, canzoni, video, azioni simboliche, spesso forti e spiazzanti, la storia di un individuo Cyborg: una bambina nata femmina che si abbandonerà al flusso del cambiamento, per lei necessario e inevitabile, e rinascerà una seconda volta.

Sul palco il tavolo con la strumentazione della Cyborg Donna.

Un grande telo triangolare a terra.

Sullo sfondo una circonferenza sporgente dove viene proiettato un filmato di un ricordo dell’ infanzia della nostra protagonista: lei da bambina che canta al microfono.

È particolarmente stonata, il pubblico in sala ride.

Ecco che entra in scena dalla platea Silvia Calderoni, raggiunge il palco, afferra una bomboletta e inizia a spruzzarsi i capelli, muovendosi nevroticamente  (per quasi tutta la performance manterrà un atteggiamento nevrotico, con gesti agitati e compulsivi e scatti continui).

Fa partire la prima traccia musicale e inizia a raccontare…

MDLSX © Ilenia Caleo DSC07986

Così come la nostra attrice è stata diretta e “cruda”, spesso spiazzante, nell’ esporci la storia, lo sarò anche io riassumendovela.

Nel 1960 nacque una bambina dai lineamenti del viso particolarmente maschili.

Crescendo il suo fisico era sempre meno femminile, il seno non compariva, il suo petto era simile a una tavola da Surf, si ritrovò perciò rinchiusa in un corpo avente un unico elemento che la identificava come appartenente alla categoria genetica “donna”: la vagina.

Durante l’ adolescenza foltissimi cespugli di peli iniziarono a crescerle in modo spropositato. Silvia interpreta questo momento della vita della Protagonista avvalendosi di peli mostruosamente lunghi, che infila nella manica della maglietta e sotto i pantaloni, facendoli fuoriuscire all’ altezza delle ascelle e del pube.

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Prende il sopravvento sulla Ragazza-Maschio la paura dello specchio, che la induce a riflettere sulla propria identità, a cercare risposte a domande scaturite dal confronto del proprio corpo con quello delle altre adolescenti che avveniva, ad esempio, nello spogliatoio di Hockey; ma soprattutto, dal fatto di essere consapevole che il suo corpo, i suoi cromosomi, insomma la sua “malattia” fosse oggetto di studio di un dottore.

Un giorno si ritrova davanti alla sua cartella clinica, la apre, la legge, prende l’ enciclopedia, cerca la definizione della sua malattia, nella descrizione viene indicato un rimando a un’ altra patologia, da quest’ ultima un’ altro collegamento, un’ altro termine, sfoglia, legge e si ritrova vittima di un effetto domino di definizioni che lei omologa e traduce con un solo termine:

<<MOSTRO. MOSTRO. MOSTRO. SONO UN MOSTROOOO! MI VEDONO COME UN MOSTRO!!>>.

 

Il momento del cambiamento necessario è arrivato.

Decide di partire, prende la valigia e si avvia verso la sua RI-nascita: lei, individuo nata femmina, rinasce maschio diventando LUI.

Si apre una nuova parentesi della sua vita che resta pur sempre infelice.

Ora indossa una coda da sirena e vende il suo corpo, “sballato” perso.

Prima di ricevere i clienti fuma numerose canne e beve acqua, che non era solo acqua, come se fosse solo acqua, arrivando a percepire sempre meno il cliente e tuffandosi nella piscina dello sballo, dove, illusoriamente i pensieri che vuole evitare, annegano.

<< Una volta ero talmente sballato che feci una cosa che non avevo mai fatto: mi sono buttato nella vasca e ho aperto gli occhi sotto acqua e ho visto i visi dei clienti. >> .

Si accendono le luci in sala gradualmente. Silenzio. Qualche minuto di sospensione, la Calderoni ferma sul palco, come se lo spettacolo fosse concluso. Ho avuto quasi l’ impressione che l’ intento di quella situazione fosse proprio quella di portare il pubblico a guardarsi.

Riprende la storia…

Una “sfortunata” sera arriva la polizia al locale, le viene data la possibilità di chiamare un famigliare e lui decide di chiamare suo fratello.

Insieme, fratello e FRATELLO tornano a casa, arrivati suo padre apre la porta e….

<< Papà io sono sempre stato così>>.

Frase accompagnata dalla proiezione di un filmato che mostra una piccola festicciola famigliare, dove padre e figlia/figlio ballano e cantano serenamente.

Il padre, il fratello e il personaggio interpretato da Silvia, tutti quanti sono andati oltre, oltre le imposizioni sociali, oltre le categorie che altro non sono che costruzioni culturali, oltre i dualismi, oltre il genere maschile o femminile.

Lo spettacolo affronta in modo particolare, comunicando sia attraverso la parola, il gesto e la musica, un tema non facilmente accessibile e che richiede profonde riflessioni.

Silvia Calderoni si immerge in una performance piuttosto spiazzante, sparisce dietro il personaggio da lei interpretato, si mostra disinibita e “pronta” nelle scene di nudo dove strofina violentemente le sue parti pubiche, si trasforma insieme all’ individuo Cyborg.

Le luci, l’ atmosfera della struttura delle Lavanderie a Vapore, la voce della Calderoni e le tracce musicali accompagnano lo spettatore nel viaggio oltre i confini e oltre le categorie, fornendogli numerosi input significativi per iniziare a riflettere su un tema a cui probabilmente non han mai dedicato molta attenzione: l’ identità è un genere?

Ammetto che la comprensione dello spettacolo non è stata immediata, ma frutto di una riflessione e di una rielaborazione della performance vista e ascoltata.

Lo spettacolo mi ha spinta a provare a ragionare sull’ individuo Cyborg, ho cercato informazioni riguardo argomenti di cui prima ignoravo l’ esistenza.

Insomma MDLSX è uno di quegli spettacoli che, seguito con attenzione, e allo stesso tempo lasciandosi trasportare dal viaggio che ti propone e tendente all’ OLTRE, ti colpisce, fa scattare qualcosa in te e improvvisamente ti ritrovi travolto da una cascata di domande: con il fiato sospeso inizi a ragionare alla ricerca di risposte!

 

di Daniela Nicolò e Silvia Calderoni
regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

drammaturgia Daniela Nicolò e Silvia Calderoni
suoni Enrico Casagrande
in collaborazione con Paolo Panella e Damiano Bagli
luci e video Alessio Spirli

produzione Motus

in scena alle Lavanderie a Vapore