ALL THE GOOD – JAN LAUWERS | NEEDCOMPANY

Everybody knows that the naked man and woman are shiny artefact oh the past

“(…) Brexit, Trump, Erdoğan, the abuse of our planet, the terror of an expansive economy, the loss of solidarity – those have to be dealt with politically. But the poetry of arts has to provide for the humanity.”

All the good è un’immagine estremamente complicata‘.
Le parole conclusive dell’opera di Jan Lauwers restituiscono in una rapida pennellata la quantità di materia vivente presente in scena.

Che cos’è l’amore – e quali sono le storie d’amore – in un presente in cui tutto sembra sgretolarsi e passare oltre? Qual è il nostro rapporto con la morte oggi, non soltanto onnipresente, ma anche spettacolarizzata se non banalizzata? Lauwers invita gli spettatori a sedersi a casa con la sua ‘famiglia’, apre le porte del loro atelier, mostra le sue incapacità, si dichiara immediatamente fallace, rendendo il pubblico partecipe dei suoi dubbi, mostrandogli la sua verità. Parla in qualità di regista, ma anche di padre e marito, racconta alcuni aneddoti della vita delle persone in scena. Lo fa anche sorridere, con un umorismo decisamente europeo. Ma le questioni che pone non sono assolutamente leggere, e subito si avverte la sensazione di poter cogliere soltanto una piccola parte di questo enorme quadro vivente in movimento. Gli occhi si spostano avidamente da una parte all’altra, da una lingua all’altra, cercando di catturare un’espressione su un volto, i colori, gli oggetti, la musica; ma tutto si trasforma e sembra non esserci il tempo necessario per carpire ogni cosa: “(…) works of art are not lonely, they are what the viewer has missed. What all the living and dead missed when they looked too quickly. Did not dare look alone, because ‘all the good’ is so much.”

ph. Maarten Vanden Abeele

Tra le novità della 26esima edizione del Festival delle Colline Torinesi c’è quella di ospitare un paese, e quest’anno è stato scelto il Belgio: da qui arriva Jan Lauwers Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia 2014, e tutti i membri della Needcompany. Dopo aver presentato uno ad uno i componenti dello spettacolo, al termine del prologo il regista annuncia che si assisterà ad una giornata della vita di questa grande famiglia allargata: è il 25 marzo 2016, giorno in cui Romy – figlia di Jan e Grace Ellen Barkey, coreografa e co-fondatrice della compagnia – ritorna da lungo viaggio in Cina, tre giorni dopo gli attacchi all’aeroporto di Zavantem e alla stazione metro di Maelbeek a Bruxelles.

In un mondo pieno di problematiche e in cui la perdita della speranza e lo spaesamento si fanno via via più tangibili, cosa resta della dell’umanità? Dov’è la bellezza, dove il bene? Ognuno di noi ha una storia da raccontare, e nessun altro può farlo al posto nostro. Ecco perché, ad esempio, non ci è dato sapere di più sulla vita di Mahmoud, “the man whose story we can’t tell”, uno degli ultimi due soffiatori di vetro di Hebron, West Bank. Ad un Palestinese non è concesso di prendere un volo da Tel Aviv: se vuole viaggiare, non solo deve passare almeno sei posti di blocco, ma in più deve pagare delle tangenti per superare tre frontiere – Palestinese, Israeliana e della Giordania – impiegando almeno tre giorni di viaggio solo per raggiungere l’aeroporto.
Quindi Mahmoud non c’è. Ci sono, però, circa 800 inutili oggetti di vetro soffiato, simili a vasi, creati da lui per la compagnia, a ciascuno dei quali sembra sia stato dato un nome. Sono fragili, bellissimi e, appunto – come dicono gli stessi protagonisti – inutili, e durante lo spettacolo qualcuno si rompe, cadendo, come lacrime. Le lacrime sono il dolore senza tempo, e compaiono anche sul volto di Maria, la sofferenza di tutte le madri per i loro figli torturati, nella Deposizione di Roger Van Der Weyden. Che cos’è la sofferenza? Cosa si prova ad uccidere un uomo? Hai mai avuto davvero paura di qualcosa?

The Descent from the Cross – Rogier Van Der Weyden
“ (…) Cristo sulla croce è la prima immagine che vediamo da bambini in chiesa. La religione cristiana cattolica, a differenza di tutte le altre, tende proprio a mostrare il dolore, e quindi allena alla visione del sentimento, nel caso specifico di quello della sofferenza.” Jan Lauwers 

Questi alcuni degli interrogativi che vengono posti durante lo spettacolo; l’immagine gioca un ruolo significativo, manifestandosi non solo attraverso le istantanee create dai corpi degli attori, ma anche mediante l’utilizzo dei nuovi media, oltre ai già citati dipinti e ad alcuni momenti di duetti e danze corali. Tutto è sapientemente orchestrato e ben inscritto nell’azione narrativa, nulla è superfluo. La danza è il linguaggio scelto per alcuni passaggi estremamente suggestivi ed evocativi: la transizione da una scena di sesso fra Elik e Romy all’incubo del soldato, con rimandi estetici all’atto sacrificale, il quale a sua volta si trasforma nuovamente, portandoci in un museo home-made nel quale il corpo dell’uomo è paragonato – nonché filmato per gioco – ad una scultura del Medioevo; oppure il delicato passaggio dalla Guernica di Picasso al quadro coreografico intitolato ‘animali esausti che respirano rapidamente‘.


Come viene brevemente raccontato di un uomo che non può essere fisicamente presente in scena, allo stesso modo Maarten Seghers, compositore della musica, interpreta invece l’uomo senza identità, oltre a quello di una volpe. L’identità è uno dei temi cari all’artista fiammingo il quale, in molti lavori, anziché cercare di rafforzare l’affermazione di sé mediata da una rigida identità ben fissata, tenta al contrario di distruggerla continuamente. Per lui, essa non costituisce l’ultima ancora di salvezza o la forma di dignità di un uomo, come molti possono credere. Questa è una immagine falsa, afferma Lauwers, che per di più può diventare pericolosa se manipolata da forze nazionaliste, che la tramutano in elemento utile a fini distruttivi o violenti. In All the good ciò che innesca la discussione è, infatti, un uomo che in nome dell’identità ha ucciso, sotto il simulacro di una bandiera. Elik Niv, soldato Israeliano e veterano di guerra, ha combattuto quattro anni in Libano contro Hezbollah e, in seguito ad un grave incidente, e dopo una lunga riabilitazione, è diventato danzatore. Elik e Romy si incontrano casualmente in un vicolo in Cina, mentre la ragazza sta vomitando, a causa del sangue di serpente appena bevuto. Questa è la storia d’amore che lo spettacolo vuole raccontare, ma è soltanto una delle storie d’amore possibili. E non è facile accogliere nella propria casa qualcuno di cui non comprendiamo le esperienze. Tutto si mescola, tutto si intreccia nuovamente.

ph. Need Phile Deprez

Da L’origine du monde di Gustave Coubert fino alla Deposizione di Roger Van Der Weyden, passando dalle Pinturas Negras di Goya e dalle opere d’arte incarnate da Elik, la foto della vagina di Romy, volando a Bruxelles per la Magnolia liliiflora nel giardino di casa Lauwers, o in Palestina con l’immagine di Mahmud che soffia il vetro e le case distrutte dal conflitto; la forza dei dipinti di Artemisia Gentileschi e, ancora, le meravigliose maschere degli animali interpretati dai musicisti. Tutto concorre alla creazione materica e viva di un uomo che vuole capire cosa c’è dietro e dentro un’ opera d’arte, essendo essa stessa qualcosa che non fa parte del tutto, ma qualcosa di più grande, che si colloca al di sopra del resto.

Jan Lauwers mantiene lo spettatore su un confine sottile, pronto e spingerlo ora da una parte ora dall’altra. Gioca a costruire e poi distruggere costantemente tante microstorie: a volte apre le porta di una stanza per far intravedere allo spettatore cosa c’è dentro, poi la richiude affermando che non è possibile raccontare tutte le storie, e lo riconduce in modo disinvolto sul suo tracciato. Porta in scena dei frammenti di vita reale di queste persone, intrecciandole certo con alcune invenzioni, sotto il peso del passato e la pretesa del futuro. Eppure, scrivendo di loro egli va sotto la loro pelle, e offre la sua verità. La sua verità non è quella dello spettatore.
Van Der Weyden comprese di doversi mettere a servizio di qualcosa di molto più grande di lui e della sua identità, per penetrare nella verità della materia; capì che lui stesso, in quanto creatore del dipinto, doveva divenire insignificante, miserabile. Questo farsi da parte in silenzio è probabilmente richiesto anche a chi osserva, il quale, come all’autore, non resta che posare attentamente gli occhi su questo enorme errore chiamato storia. “The history of tragic humanity.”


Valentina Bosio

Testo, direzione, scena: Jan Lauwers
Musica: Maarten Seghers
Interpreti: Grace Ellen Barkey, Romy Louise Lauwers, Victor Lauwers, Jan Lauwers, Inge Van Bruystegem, Benoît Gob, Elik Niv, Yonier Camilo Mejia, Jules Beckman, Simon Lenski, Maarten Seghers, George van Dam.
Costumi: Lot Lemm
Drammaturgia: Elke Janssens
Disegni luci: Ken Hioco, Jan Lauwers
Suono: Ditten Lerooij
Direttrice di produzione: Marjolein Demey
Direttore tecnico: Ken Hioco
Maschere: Lot Lemm, Benoît Gob
Assistente del direttore tecnico: Tijs Michiels
Assistente di palcoscenico: Nina Lopez Le Galliard
Tecnici di tournée: Saul Mombaerts, Bram Geldhof, Dries D’Hondt, Jannes Dierynck
Assistente ai costumi: Lieve Meeussen
Produzione: Needcompany
In partnership con: RIJEKA 2020 Llc. nell’ambito di Rijeka 2020 – European Capital of Culture, Croatian National Theatre “Ivan pl. Zajc”.
Coproduzione: Ruhrtriennale, Festival Reims Scènes d’Europe, Concertgebouw Brugge, La Colline Paris.
Copresentazione: Zürcher Theater Spektakel, Teatro Central de Sevilla, Kaaitheater Brussel, Toneelhuis Antwerpen, Malta festival Poznań, NTGent Tax Shelter financing Fund nv, Melissa Thomas, Christel Simons.
Con il supporto di: Belgian Federal Government’s Tax Shelter and the Flemish authorities.

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