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Trad-attori parricidi: il Natale in casa Latella

Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli; quando sono fedeli non sono belle (Carl Bertrand)


di Matteo Tamborrino

ph: Brunella Giolivo
Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Lino Masella (Nennillo) – ph: Brunella Giolivo

Questo estemporaneo avvio dedicato alle belles infidèles, ci permette in realtà di riflettere su quanto imprescindibile sia il nesso tra traduttologia, filologia e cultura teatrale. Si tratta di una relazione a tre che travalica le mere contingenze della messinscena  (per capirci, l’annosa questione: “Quale edizione del testo scelgo? Come lo traduco o rappresento?”), e che riguarda invece (e soprattutto) una condivisione di metodo, di approccio teorico e dunque di spirito.

Ripartiamo perciò da qui, dallo spirito. Da quella che i filosofi chiamano essenza. Siri Nergaard, docente di Lingua e letteratura norvegese all’Università di Firenze e di Teoria della traduzione presso la Scuola di studi superiori dell’Università di Bologna, ha pubblicato ormai 23 anni fa un’illuminante antologia dal titolo La teoria della traduzione nella storia (seguita poi dal volume, sempre edito per Bompiani, Teorie contemporanee della traduzione), che ripercorre – da Cicerone a Derrida – i maggiori contributi in merito alla questione della “trasposizione di codici e linguaggi”, un tema da cui registi e attori non possono prescindere.

Lettera o spirito? Erompiamo così dalla selva di richiami accademici e giungiamo lesti a ciò che più ci compete. Natale in casa Cupiello, per la regia di Antonio Latella, calca il palco del Teatro Carignano  – con il suo nutritissimo e meritevole ensemble di interpreti – tra il 10 e il 22 gennaio, destando – come prevedibile – reazioni alterne. Come costruire una relazione ottimale con un pubblico che, almeno in parte, si turba al solo pensiero di veder “stravolto” (sull’opinabilità poi di tale assunto torneremo) il divin Eduardo? «Non possiamo adeguarci supinamente alla domanda» è la risposta perentoria di Francesco Villano. «Noi dobbiamo imitare l’essenza di Eduardo, non scimmiottarne la forma attorica. Dobbiamo insomma trovare nuove forme per rendere viva, ancora viva, la sua natura di rivoluzionario, la sua parola d’autore». È il rispetto per lo spirito dunque la legge che governa la traduzione e la trad-azione (nel senso di trasposizione teatrale) di un classico, specie se si tratta di un attore-regista-autore come era l’erede di Scarpetta.

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Tormentato fu il lavoro di Eduardo su questo dramma, riscritto e meditato a partire dal 1931, anno di debutto con i fratelli nella compagnia del Teatro Umoristico, fino alla fine degli anni ‘70, con propaggini radiofoniche e televisive. Parimente tormentata risulta la cornice scenografica all’interno della quale si articola questo pregevole lavoro, che sembra contaminare l’umbratile genio pittorico di Bosch, Caravaggio e Füssli,. Dalla cieca fissità iniziale degli attori, esposti in proscenio e gravati da un’ingombrante cometa di vaporosità simile a un enorme corallo dorato, l’azione esplode poi in un trionfo bestiale di fisicità, tra il gioviale e l’effimero. Ad avvolgere l’intero allestimento, una luce funerea, un coacervo baroccheggiante di tensione geometrica e sensualità animalesca. La scena in cui Ninuccia/Valentina Acca viene rimbalzata come un testimone tra Nicola/Francesco Villano e Vittorio/Giuseppe Lanino racchiude in sé tale dialettica.

Francesco Villano è Nicola
Francesco Villano è Nicola

In un universo contraddittorio che alterna carnalità e mistica, cartapesta e simboli, in cui la tradizione è profanata in maniera irrevocabile, diventando mortifera consuetudine, Nicola è il più outsider di tutti: «Quello di Nicolino è un mondo frustrante, fatto di denaro e bottoni», spiega Villano parlando del proprio personaggio. «Il suo disagio nasce dal non riuscire a esprimere dei sentimenti, che pure egli prova. Non è cattivo, ma non conosce altri linguaggi. È questa situazione di umiliazione a condurlo poi verso il grido finale. Verrà infatti estromesso dai riti dei Cupiello». Villano è dunque un villain atipico: «Quella di Antonio è una regia “orizzontale”: ci offre degli spunti, dei suggerimenti sulla genesi dei nostri caratteri. Poi tocca a noi. Nel mio caso, sapevo di dover dar voce a un uomo innamorato sì, ma che in fondo non ha alcuno strumento per esprimerlo». È il vate del mercimonio, è il Buffalmacco che compra i capponi: «Parla di cibo, sempre: vuol comprarsi la benevolenza della famiglia».

Tradurre è tradire. Tradire (tradĕre) è consegnare. Offrire cioè in una lingua d’arrivo un certo contenuto, che possa sortire un effetto paragonabile all’originale in un pubblico diverso (per idioma e cultura) rispetto a quello per il quale l’opera era stata pensata. Tradurre è dunque l’utopia esperantista, la capacità di saper parlare a tutti, in una “lingua ideale” (cfr. Cicerone, Libellus de optimo genere oratorum), e in ogni tempo. Per rendere immortali delle parole, dei valori, e non le persone che se ne fanno temporanei vettori. Eduardo fu un Grand’attore, ma ora è tempo di farlo Grand’autore, di prender coscienza della sua dipartita (e, con lui, dei suoi mugolii, dei suoi silenzi, della sua inimitabile e inimitata maschera facciale).

“Cominciamo da capo tutto” è il loop disarmante che inquieta gli attori. L’Eduardo promiscuo, l’Eduardo attore s’intende, è morto il 31 ottobre 1984. Dal 1° novembre, rifarlo fu impossibile. Non si tratta di arte, ma di biologia. E se non è ancora morto va almeno debellato, consegnato alla storia (che Amleto, Edipo o anche solo il timido Pietro Rosi ce ne diano la forza!). E in tale “inattuabilità del lutto” ha avuto di certo un ruolo fondamentale (sembra assurdo dirlo) l’enorme quantità di materiale audiovisivo a nostra disposizione. Che ha continuato a renderlo vivo ai nostri occhi. Perfino Carlo Cecchi, che pure mastica De Filippo ad ogni sua nuova prova teatrale, ha saputo recuperarlo concretamente non  prima del Sik Sik del 2000.

È l’altro Eduardo, quello dei copioni, a dover diventare classico, tradizione, “presepio”. Come?

Annibale Pavone è parte del Coro
Annibale Pavone è parte del Coro che – al pari di una tragedia greca – segue lo sviluppo dell’azione

Il testo è rispettato con estrema fedeltà dal regista, ma – per così dire – sovra-costruito. «Da diverso tempo – racconta Annibale Pavone, direttore artistico e parte del coro – Latella conduce uno strenuo lavoro sui testi. Nel caso di Cupiello ha scelto di scavare in profondità, fino al non-detto, penetrando nelle tonicità della scrittura e nelle didascalie» (sempre così abbondanti, peraltro, nei testi dell’autore, il che denota una sua particolare cura nei confronti dell’attore). «Dopo le prime letture, ha definito quella partitura che avete potuto ascoltare», così straniante, così brechtiana: gli accenti gravi, acuti e circonflessi flettono gli attori, nel corso del primo atto, come se fossero tesi da un filo invisibile, intenti a giocare a “sacco pieno-sacco vuoto”. Nel frattempo, il protagonista redige un impercettibile brogliaccio. La fatica e la concentrazione degli attori raggiungono anche gli spettatori più lontani: «I primi quaranta minuti – continua Pavone – prevedono solo movimenti minimi e solo da parte di chi si è già tolto la benda. Per gli altri è un lungo lavoro d’ascolto, che non ammette distrazioni. La cecità ci confonde, ma ciò che deve essere esibito è in primis il testo di Eduardo». È come un’enorme mente, che silenziosa e buia, legge. Altri ostacoli si avvertono poi sul cammino: gli animali del presepe portati a zonzo per il palco (e che diventano opprimenti doppi), o il carretto funebre spinto dall’eccellente Concetta di Monica Piseddu.

Che cosa significa tuttavia confrontarsi con un mostro sacro? L’abbiamo chiesto a Francesco Manetti, l’efficace pater familias in giacca albina (che interpreta però anche la parte dello scrittore in fieri): «Credo che Latella si sia rivolto a me perché ho la fortuna di non avere nulla in comune con l’Eduardo attore. Per età, per provenienza (io sono fiorentino), per storia artistica e biografica. Mi sono approcciato a Luca Cupiello come ad un qualsiasi altro personaggio, ‘come se fosse – e cito Latella – un Checov’. L’intento di Antonio era di creare un padre fuori luogo, incapace di gestire quella famiglia. C’è stata poi da parte sua una richiesta precisa: che il napoletano fosse letto e non detto. Il che sarebbe invece venuto automatico dopo mesi di repliche». Ma d’altronde, compito degli attori non è illudere, “camuffare”. Sul tema, interviene di nuovo Villano: «Il teatro post-drammatico non lascia spazio all’immedesimazione. Il teatro è un gioco: un po’ lo fai, un po’ lo racconti, ma bisogna essere onesti con il pubblico, senza ingannarlo». L’attore persiste, insomma, sulla superficie del personaggio.

Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti
Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti

Checché se ne dica, comunque lo si voglia definire, il Natale latelliano – come già l’Arlecchino –  rappresenta una svolta notevoledeo gratias – in questa impasse storico-teatrale di inizio millennio, che troppo spesso si avventura su sentieri manieristici. E di tale neo-manierismo (dal gelo del 1985 in avanti) lo spettacolo in questione è acme e nemesi. Un Cupiello dunque filologicamente deferente. Non stravolto, né calpestato. Semplicemente ri-formato. Ne tradisce (qui intendi “sovverte”) l’estetica, ma ne tradisce (“consegna”) il senso. Perché solo con una “bella  (eccezion fatta per alcune lungaggini finali) infedele” questo testo può finalmente essere attraversato, capito e restituito alla propria grandezza (parafraso qui Manetti): «Per accettare un’eredità bisogna preventivamente constatare che il padre sia morto».

Plauso (non di rito) a tutti gli interpreti, “artefici magici” di un esempio incantevole di attore-testimone-interlocutore-restitutore. Di un attore, insomma, traduttore. Trad-attori.

Gli insoddisfatti si diano pace.

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
drammaturgia Linda Dalisi
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino
luci Simone De Angelis
musiche Franco Visioli
prodotto da Teatro di Roma – Teatro Nazionale