STABAT MATER – LIV FERRACCHIATI

“Mamma! quanto è buono il prosciutto”

Stabat Mater (Premio Hystrio Nuove Scritture di Scena 2017) racconta la storia di un trentenne scrittore che vive al maschile in un corpo dalle sembianze femminili che cerca di liberarsi della presenza della madre ma dentro di sé non vuole.

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Il lavoro fa parte di una trilogia sull’identità scritta da Liv Ferracchiati ora edita dalla casa editrice CuePress. Una trilogia dedicata alla ricerca sull’identità di genere creata con la compagnia The Baby Walk. La trilogia (Peter Pan guarda sotto le gonne –  Stabat Mater Un Eschimese in Amazzonia) pone all’attenzione dello spettatore le storie, i sentimenti, le vite di personaggi diversi alle prese con la propria vita e la sua natura interiore ed esteriore. 

Stabat Mater è una preghiera del XIII Secolo attribuita a Jacopone da Todi.  Liv ne prende solo a prestito il nome, la figura della Madre e la tematica del dolore per trasferirla sul tempo presente. Non c’è nulla di riferimento al cristianesimo, anzi il paganesimo qui la fa da padrone.

C’è la madre seduta che assiste alle incertezze del figlio  (che fa lo scrittore) e viene ripresa da una videocamera frontale per apparire su uno schermo bianco in maniera che lo spettatore possa essere partecipe alle sue emozioni. C’è la ragazza dello scrittore, innamorata, decisa, che ha un ruolo da giocatrice del sesso. C’è la psicologa che indaga sui suoi perturbamenti e cerca di fargli confessare il complesso di Edipo, sfrutta le sue debolezze per fargli aprire le porte dell’amore. Poi c’è lui, lo scrittore che vuole avere un’anima da donna ma si sente ancora insicuro del suo essere e non riesce a finire il sue ennesimo romanzo.

In questa drammaturgia dove ognuno piace all’altra e all’altro si va con una narrazione fatta di parole forti, di parole che concretizzano l’atto sessuale (forse di troppi ok), di crisi esistenziali, di sesso implicito e di un veloce botta e riposta tra la madre e il figlio.

Le domande marzulliane della psicologa che rivolge ai due innamorati rendono la piece leggera. Il monologo del prosciutto inteso come alimento sessuale che ironizza sulle indecisioni dello scrittore nel fare sesso col la sua ragazza può essere letto come un momento di autoironia. Tra i dialoghi si sente anche una certa presenza delle battute alla Woody Allen quando girava i primi films (qui omaggiati). Introspezione, autoanalisi, indifferenza, insicurezza, vivacità nascosta, ironia sono qui come là.

Brave le attrici, essenziale la cura scenotecnica, luci frontali e amovibili, musica di sottofondo stile fado portoghese. 

Ok – anzi non ok. Forse vedere la seconda parte di una trilogia senza la prima e la terza toglie interesse per l’operazione. Lo straniamento non aiuta il coinvolgimento emotivo dello spettatore.

LUIGI RINALDI

CREDITS

Drammaturgia e Regia Liv Ferracchiati

con (in ordine alfabetico) Liv Ferracchiati, Francesca Gatto, Chiara Leoncini, Livia Rossi

Aiuto Regia Piera Mungiguerra

Scene Giuseppe Stellato

Costumi Laura Dondi

Luci Emiliano Austeri

Suono Spallarossa

Centro Teatrale Mamimò

In collaborazione con Marche Teatro, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

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