WHITE OUT – LA CONQUISTA DELL’INUTILE DI PIERGIORGIO MILANO

White Out è l’omaggio a tutti gli alpinisti che sono spariti, o che scelgono il rischio di sparire, nel bianco senza fine delle altezze. I conquistatori dell’inutile.”

Giovedì 31 marzo 2022 la stagione Palcoscenico Danza di TPE ha ospitato al Teatro Astra l’ultima data torinese, dopo un intenso percorso a tre anni dal debutto nazionale, di White Out – la conquista dell’inutile di Piergiorgio Milano. Ad accoglierlo il tutto esaurito in sala e un pubblico che attende frizzante l’inizio dello spettacolo. La scena, invece, all’opposto della platea, è vuota e silenziosa, ricoperta soltanto da un lieve strato di neve; un vuoto che sembra prepararsi, come a prendere la rincorsa, ad esplodere in tutta la sua affascinante forza solitaria. Durante i sessanta minuti seguenti, infatti, il pubblico verrà trasportato sulla vetta di una montagna a 7000 metri di altitudine. Non si vedrà davvero una montagna in scena, ma il freddo, il rumore del vento, una solitudine bianca e la paura, andranno ad abitare l’immensità di uno spazio senza coordinate precise, dove l’aspirazione a scalare una vetta sarà l’unico obiettivo certo. Quale sarà la forma – reale o immaginaria – di questa vetta, cambierà a seconda dello sguardo. Ma questo non è ciò che conta veramente, come non è fondamentale domandarsi chi resterà vivo, oppure no, al termine della spedizione. La lanterna che illumina questa storia di moltitudini sarà la determinazione che spinge l’uomo a tenere salda la fune, sospesa nel vuoto, per compiere gli ultimi passi di una parete invisibile, e giungere, infine, alla conquista della propria – inutile – vetta.

Nell’alpinismo con il termine white out si definisce la perdita totale di riferimenti spazio-temporali, e la conseguente impossibilità di avanzare o retrocedere. In un luogo dove il tempo si dilata e i contorni di ogni cosa sfumano nell’incerto, anche il grigiore del cielo si amalgama con la terra ricoperta di neve e, ritrovandosi in una pressante situazione di stallo, si è completamente persi in una tempesta contro la natura, o contro la società. Allora, che fare?

ph. Andrea Macchia

Una radio giunge in nostro soccorso con le sue hit rock e pop anni novanta, nel tentativo di scacciare le ombre che sorvolano la tenda in cui i giovani scalatori riposano, la notte prima della partenza. È sempre il momento più difficile questo – racconta la voce narrante –, poiché prima di iniziare una spedizione le ansie sembrano disfarsi in preoccupazioni che mano a mano diventano dense, e da vaghe allucinazioni si tramutano in “mostri” pronti a catturati e ad inghiottirti nell’oscurità. Ecco che allora anche un gioco, una scaramuccia nata tra chi vuole ascoltare e chi no la musica, si trasforma in una situazione in cui il piano della realtà si reclina. Dal sorriso scaturito da un momento di leggerezza tra compagni, qualcosa improvvisamente modifica il tempo del reale, anche se non immediatamente percepibile. I ritmi si sfalsano, le linee non coincidono più con il conosciuto – come un salto in un precipizio. Ci ritroviamo in una dimensione altra, onirica, dove tutto diventa possibile. È possibile mancare la comunicazione con l’altro, possibile essere attraversati o scaraventati all’indietro da forze simili a campi magnetici impazziti. È possibile essere salvati o condannati dall’istinto come dalle fragilità ancorate negli angoli della mente dell’uomo, e ogni cosa può mutarsi in un nero senza gravità in un solo attimo, a causa di un millimetro errato, una corda legata male, una mano aggrappata al punto sbagliato.

"Vi sono momenti nella vita in cui si ha la necessità di tirare le somme, di fare un inventario di se stessi, nel bene e nel male. Esistono circostanze in cui si vuole controllare se le proprie aspirazioni sono sempre uguali o in che misura sono cambiate. Perché l'esame possa giovare deve essere generale e impietoso, una valutazione difficile, che è a metà strada tra la cieca simpatia che si ha di se stessi e il disprezzo, tra la presunzione di essere utile a qualcuno e il timore sottile e doloroso di non esserlo." 
(Addio alpinismo (1965), Montagne di una vita, Walter Bonatti)
ph. Andrea Macchia

Lo spettacolo è costruito sulle traiettorie di assi in continuo movimento, in opposizione alla montagna e alla sua irremovibile verticalità, la quale, con “la sua linea retta, al confine tra cielo e terra, diventa riferimento delle vie aperte da chi scala, una condizione di altrove impossibile da percepire quando si è a terra.” Per riuscire a portare in scena questa condizione di altrove, il coreografo e performer Piergiorgio Milano sceglie di utilizzare un linguaggio dove la ricerca è focalizzata sull’incontro tra danza, circo e alpinismo, che insieme generano una nuova dimensione dalla grande carica visuale e poetica. Materiali, linee e colori appartengono ad un luogo che in modo molto chiaro lo spettatore percepisce, a partire dalla prima intensa attraversata che apre la scena, nel mezzo di una bufera.

In questa storia oggetti come moschettoni, rinvii, funi e imbraghi, ed altri elementi compongono un quadro in cui si scivola costantemente in un gioco altalenante di specchi e illusioni. La partitura coreografica è creata da gesti sradicati dal loro contesto reale, che mutano il loro significato originario ma, al contempo, evocano il mondo preciso da cui provengono: quello dell’alpinismo e dell’arrampicata, appunto, che si portano dietro sfide e aspirazioni. Ad accompagnare lo spettatore, invece, sono gli appunti di viaggio di uno degli scalatori; ma lo spaesamento e la condizione di perdita del senso del tempo coinvolgono anche chi osserva dalla platea, e pure la parola tende, infine, a cadere in un abisso offuscato. Quello su cui il pubblico è chiamato a riflettere è la preziosa, tanto quanto rischiosa, instabilità delle azioni umane: è il disequilibrio, la precarietà priva di certezze, a generare movimento; come a dire che la questione non è tanto il dove si è diretti, ma la volontà che spinge a muoversi con decisione verso quel qualcosa.

ph. Andrea Macchia

In White Out il corpo e, in particolare, il movimento acrobatico, divengono i mezzi con cui restituire al pubblico l’esperienza fisica della fatica, dove il sacrificio e la negoziazione con la propria e altrui forza – in montagna come nella vita di tutti i giorni – sono interlocutori costanti con cui si è costretti a dialogare per potersi confrontare, non soltanto con i propri limiti. La danza è la trama comune su cui poter sviluppare organicamente tutte le possibilità derivate dalle competenze tecniche circensi, sempre a servizio del materiale narrativo, dove la ricerca coreografica ha coinvolto anche l’individualità propria ad ogni performer. Oltre a questi aspetti, particolare risulta essere la trasformazione che il coreografo compie di gesti e azioni appartenenti a quel terzo elemento che nulla ha a che vedere con la scena teatrale; per cui, anche l’impiego di una paio di sci si tramuta in partitura poetica danzata, che porta nuovamente lo spettatore in una dimensione al crocevia tra realtà e immaginazione.

Se è vero che la montagna rappresenta, da sempre, la metafora (forse, oramai, anche bistrattata per certi versi) per eccellenza utilizzata per riflettere sulle sfide dell’uomo – costretto ad affrontare ostacoli, prendere decisioni difficili e scontrarsi con la determinazione per continuare il percorso intrapreso – è interessante osservare anche un altro aspetto di White Out legato a questo tema. Piergiorgio Milano spiega, in un’intervista, che “l’ambizione più alta di questo spettacolo è trasformare l’alpinismo in un linguaggio artistico.” Quello che a mio parere colpisce particolarmente, oltre all’ambizione di cui parla il coreografo, in grado sicuramente di evocare immagini visionarie, è un discorso presente fin dal titolo: la conquista dell’inutile. Il pubblico può rispecchiarsi in ciò che vede in scena o essere colpito dalle immagini oppure toccato dalle emozioni smosse dallo spettacolo, ma questo inutile a cui aspirare ha un peso che si fa sentire fin dall’inizio. Significativa è, infatti, l’ultima salita di uno dei protagonisti di questa storia comune, che scala una parete invisibile dove è l’immaginazione dello spettatore a vedere ciò che vuole. Perché – sempre secondo le parole dello stesso Milano – forse in cima alla montagna non c’è niente che già non possediamo in noi, e altrettanto guardando verso il basso; dunque, perché scalare? Non esiste una risposta esatta o univoca a questa domanda. Quello che White Out suggerisce, però, è che questo inutile a cui ogni essere umano tende sia un’inutile essenziale. Aldilà del vasto e complesso discorso legato al senso delle azioni umane, e alla loro utilità, a ognuno di noi sarà istintivamente apparsa un’immagine – o un’idea – nella mente leggendo la parola essenziale: bene, quella è la nostra vetta. Allora buon viaggio, scalatori di ogni tempo.

Valentina Bosio

Creazione, direzione e coregografia Piergiorgio Milano
Performer Javier Varela Carrera, Luca Torrenzieri, Piergiorgio Milano
Design luci Bruno Teusch
Sound design Federico Dal Pozzo
Soundtrack Piergiorgio Milano
Costumi Raphaël Lamy, Simona Randazzo, Piergiorgio Milano
Scenografia Piergiorgio Milano
Con il grande aiuto di Florent Hamon, Claudio Stellato
Grazie a Francesco Sgro, Matias Kruger
Produzione Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Malraux Scène Nationale Chambéry Savoie / con il progetto Corpo Links Cluster sostenuto da Pc Interreg Va – Italia-Francia (Alcotra 2014-2020), Les Halles de Schaerbeek, Fondazione I Teatri Reggio Emilia, Flic – Reale Società Ginnastica di Torino, Teatro La Caduta / residenze Flic – Residenza Surreale, ERT/Teatro Nazionale, Teatro Asioli di Correggio, La Corte Ospitale, Teatro Frida, Dinamico Festival, Garage29, Festival Moncirco/ con il supporto di Maison De La Culture Famenne-Ardenne, La Cocof, Théâtre Marni, Feas – Fédérations Des Théâtres / con il grande e speciale supporto di Fondazione Compagnia di San Paolo – Bando «Ora! Produzioni di Cultura Contemporanea» / diffusione per l’Italia Aps Gelsomina

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