FINE PENA ORA – TEDACA’

L’uomo per natura non compie mai azioni giuste o azioni sbagliate quindi ciò che spiega le sue azioni è il contesto in cui è inserito. Questa è la storia di Salvatore ed Elvio. La storia di un uomo, il primo, nato in un contesto sociale degradato, privo di una cultura inclusiva per i giovani dove la criminalità organizzata crea un secondo Stato, nascosto, tra la gente. Salvatore è un criminale, un ergastolano, condannato nel maxiprocesso al Clan dei Catanesi dell’85 dal magistrato Elvio Fassone. Quello che vediamo in scena è la rappresentazione di uno scambio epistolare, durato più di 30 anni, tra Salvatore e Elvio, recitati magistralmente da Salvatore D’Onofrio e Giuseppe Nitti. Notevole il lavoro di adattamento attuato da Simone Schinocca, regista dello spettacolo, che pone al centro dello spettacolo il rapporto umano tra Salvatore ed Elvio.

La cella per l’uomo o la gabbia per la bestia è rappresentata in scena con delle funi di varie lunghezza che scendono dall’alto, creando un doppio mondo: uno all’interno della pena, nel carcere, uno all’esterno, carico di speranze e voglia di cambiare. L’uso delle funi per quanto irrealistico in un’ottica di riferimento stretto al carcere è una scelta che introduce al tema dell’iconografia cristiana attraverso la figura di Rosi, che districa i nodi alle funi, richiamando la figura del Madonna nel dipinto del Settecento Virgen Maria Knotenlöserin, Ma i richiami all’iconografia cristiana sono molteplici. Infatti, fin da subito in scena si palesa un uomo, Salvatore, rannicchiato su uno sgabello sul quale lo schema delle luci crea una croce bianca che richiama una relazione diretta con la figura di Cristo, confermata da frasi e movimenti che rimandano alla morte di Cristo, come il tentato suicidio che lo vede raffigurato sdraiato per terra nella medesima posizione della crocifissione, e la pena che l’ergastolano pensa di provare analoga a quella di Cristo, con l’unica differenza che se Cristo fu innocente, l’ergastolano Salvatore non lo è. L’iconologia di questa immagine è forte, tanto che il dialogo che segue dopo il tentato suicidio porta ad un “mi scusi” che delinea maggiormente il carattere penitente del colpevole Salvatore, che rimane e rimarrà colpevole dei fatti che ha compiuto, trasferendo in Elvio il sentimento di responsabilità della vita dell’ergastolano.
L’elemento comico è un altro filo conduttore nel lavoro di Schinocca. Seguono infatti nel testo momenti quasi stereotipati dove viviamo la redenzione di Salvatore che prova, forte della sua quinta elementare appena acquisita, a scrivere al Presidente, così viene chiamato Elvio da Salvatore, commettendo errori significativi nella grammatica e nella scrittura e rimanendo distante da quel linguaggio forbito tipico di magistrati, avvocati o giudici. Lo spirito comico nella rappresentazione è la base dell’amicizia, del sentimento di rispetto, della relazione umana che provano i due protagonisti. Per Salvatore però non c’è solo Elvio, emerge passo dopo passo anche la figura di Rosi, la moglie, che lo accompagna nel viaggio dello sconto della pena, un’ora ogni quindici giorni, fin quando presa dal senso di consapevolezza che la affligge lascia il marito Salvatore per avere un futuro migliore.

Ma qual è la differenza tra Salvatore ed Elvio, o meglio come mai Salvatore ed Elvio fanno lavori diversi e hanno storie diverse? Ecco, per la risposta a questo quesito riprendo ciò che dice Salvatore sia nel libro che in scena “Glielo chiedo perché le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”. La differenza sta quindi nel mondo, nel contesto in cui si nasce e si cresce, sia a livello di possibilità economica e sociale sia nella cultura di integrazione giovanile, quasi assente se non a contatto con realtà criminali in alcune zone italiane, sia al Nord che al Sud. C’è inoltre nel lavoro di Schinocca un riferimento al tema dell’educazione come qualcosa che potrebbe far fuoriuscire la vita di Salvatore dall’orbita della criminalità.
L’uso delle funi nel corso dello spettacolo ha bisogno di un approfondimento a sé. Queste si ritrovano infatti in tre momenti chiave: il primo è quando Rosi dà a Salvatore una fune piena di nodi, con cui contare i giorni, un’invenzione di Schinocca, poiché nel libro al posto della fune di Rosi vi erano, come sistema per il conteggio dei giorni, dei chicchi di riso, decisamente poco scenici nel teatro; il secondo è quando Rosi scioglie i nodi della “inferriata principale” mentre parla con Salvatore; il terzo è quando Salvatore preso da un momento di enorme sconforto ci si aggrappa. I tre momenti hanno come comune denominatore un richiamo al forte sentimento della Speranza; questa infatti è la chiave della vita di Salvatore, che segue un sistema carcerario che non lo rieducherà, per via dell’ergastolo, ma che gli dà motivo di sperare in un futuro migliore, anche sotto il consiglio di una figura paterna, non reale, come Elvio.
La fine dello spettacolo recupera il sogno onirico di Salvatore, accompagnando il pubblico passo dopo passo, permettendo l’immedesimazione e creando nello spettatore un buco nello stomaco dovuto alla rassegnazione di un uomo che prova ad emergere nel mare delle colpe, ma che trova proprio in chi lo ha condannato, in colui che ha deciso il suo destino da ergastolano, l’unica figura che gli è compagna.

Roberto Iacuzio

di Elvio Fassone
Adattamento e regia Simone Schinocca
Con Salvatore D’Onofrio, Giuseppe Nitti e Costanza Maria Frola
Assistente alla regia Valentina Aicardi
Scenografia e light design Sara Brigatti e Florinda Lombardi
Costumi Agostino Porchietto

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