Il trovatore al Teatro Regio di Torino

Che per il pubblico italiano il nome di Giuseppe Verdi sia immediatamente riconosciuto come parte di un patrimonio condiviso di hit-parade mai tramontate, come le canzoni di Mina o Domenico Modugno, è qualcosa di talmente assimilato che spesso finiamo per dimenticarcene. Eppure, quante volte abbiamo sorpreso qualcuno (o ci siamo sorpresi) a canticchiare «La donna è mobile» o a fischiettare «Libiamo ne’ lieti calici»? Per non parlare delle pubblicità e delle parodie. Il fatto è che, se è vero che l’umanità intera piange ed ama con la voce di Verdi (come scrisse Gabriele D’Annunzio), noi italiani Verdi ce lo abbiamo nel sangue, che ci piaccia o no. Assecondando questa ereditaria affinità, il Teatro Regio di Torino ha voluto inaugurare la stagione 2018/2019 con Il trovatore, titolo che rappresenta nientemeno che la quintessenza del melodramma italiano, con tutto il suo corredo di grandi arie, passioni violente e trame inverosimili e intricatissime, ma rese vive e fulgide dalla musica. E particolarmente felice è stata, nel Trovatore, la vena musicale di Verdi nello scrivere tra le sue melodie più sinuose e accese, così perfette che sembrano sgorgare spontaneamente, e cesellate invece con precisione scultorea. Tanto che, sin dalla sua prima apparizione nel 1853, quest’opera fu accompagnata da un immediato e duraturo successo, così come anche dalla nomea di “melodramma nero” dovuta alla maggior parte delle scene che, nell’oscurità di una fortezza o nelle tenebre di un carcere, lo tingono di un colore singolarmente fosco, illuminato qua e là dal sinistro baluginare di fiamme, roghi e pire.

Quest’atmosfera cupa è stata splendidamente messa in scena da Paul Curran, in un allestimento che gioca sull’alternanza tra parti in ombra e luci fioche, con una scenografia inospitale e fredda, per la quale il regista dice di essersi ispirato ad Assassin’s Creed e a Game of Thrones, così come per la gestione dei rapporti tra i personaggi e i loro comportamenti. Alcune scelte sono riuscite molto efficaci, una su tutte l’apertura del terzo atto con due soldati a petto nudo che lottano nell’accampamento, circondati dai commilitoni che incoraggiano e tifano, tipo Barry Lyndon. Altre sono risultate, tuttavia, poco convincenti, come ad esempio un’Azucena che con uno scossone riesce, da sola, a scaraventare a terra ben cinque militari giovani e muscolosi. Ma sono sottigliezze che non intaccano la macchina scenica, simmetrica come la struttura dell’opera, e per giunta straordinariamente mobile, con scale che emergono dai lati del palco, pareti scorrevoli che rivelano bivacchi di zingari, porte che scompaiono e passerelle che le sostituiscono. Bene anche il trattamento delle masse corali, ora consistenti in lunghe file di soldati appiattite contro le pareti prima dell’agguato al convento, ora ridotte a poche, inquietanti sagome in processione, che intonano un «Miserere» reggendo un lume nella più completa oscurità. Questo grande movimento tutt’intorno ai quattro personaggi principali li ha isolati ancor di più nella loro statuaria tragicità.

Tra di loro, il migliore in campo è stato quello della zingara, interpretata da Anna Maria Chiuri con una voce agghiacciante e sensuale, ricca di sfumature, carica di oscuri presagi e antichi dolori concentrati in quel ‘mi vendica!’ in cui converge tutto il dramma, mentre, per quanto riguarda il title role, il Manrico di Diego Torre aveva un timbro vocale piuttosto scuro, molto buono nei momenti di malinconia raccolta, ma poco adatto là dove il canto richiedeva slanci acuti e squillanti. Leonora era interpretata da Rachel Willis-Sørensen, dotata una voce duttile, agile e drammatica, perfetta in praticamente tutta la parte, e sebbene si sia notata ogni tanto una mancanza di fiato nel concludere certe frasi, alla fine ha convinto la sicurezza e il sentimento che ha messo anche nelle cabalette più impervie. Il meno felice è stato, a mio avviso, Massimo Cavalletti nei panni del Conte di Luna: il suo canto ansimante, spezzato e singhiozzante, a volte addirittura urlato, era un po’ troppo lontano dall’ideale belcantistico di un nobile che, tormentato dal dolore di vivere senza essere amato, dà libero sfogo alla tragedia servendosi del potere di cui è detentore.

Ottima, efficace e funzionale nei tempi, l’orchestra condotta da Pinchas Steinberg, che ne ha estratto un suono corrusco e deciso, rivelatore di sonorità ruvide e minacciose, al servizio di un’opera capace, ancora oggi, di muovere alle lacrime un pubblico variegato come quello che ha riempito la sala del Regio il giorno della prova generale, plaudente pressoché all’unanimità.

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