Portrait à danser – Ritratti coreografici per sei danzatori e un violista

Dal 4 all’11 agosto a Finale Ligure ha luogo la quinta edizione del Festival {te}che, un’offerta di danza, arti visive, videodanza, musica e teatro nei suggestivi chiostri di Santa Caterina, all’interno del centro storico di Finalborgo. Vi abbiamo preso parte la sera di domenica 5, per vedere lo spettacolo Portrait à danser di Giovanni Di Cicco e Giuseppe Francese, un lungo e complesso lavoro di danza che si articola in cinque momenti. I sei danzatori della compagnia DEOS – danse ensemble opera studio si sono alternati sul palco secondo ordini e insiemi di volta in volta diversi seguendo l’esecuzione dal vivo di cinque brani per viola sola, suonati dallo stesso Francese e coreografati per l’occasione da Di Cicco: 54 minuti di coreografia senza sosta.

Tema fondamentale della creazione è il lavoro fisico, scritto sul corpo e per il corpo di ogni interprete, con alta fedeltà alla scrittura musicale. Una partitura coreografica che mira a muovere e a smuovere la compagnia stessa verso terreni nuovi, diversi da quelli in cui è solito operare l’ensemble, ma rispettando le soggettività e le possibilità dei singoli danzatori e dei loro corpi. Spogliata di qualsivoglia simbologia la scena è sobria, nessuna scenografia è presente tolti i due leggii dai quali Francese legge la sua musica e un grande telo rettangolare riflettente che verso la fine dello spettacolo Noemi Valente srotolerà sul palco per danzarci sopra. I costumi, disegnati da Pasquale Napolitano, seguono la linea minimale: prevalenti i bianchi e i neri, con qualche accenno di colore qua e là. Il movimento come la scena, il visibile come l’udibile, riportano costantemente lo spettatore al silenzio e alla sobrietà dalla quale sono emersi.

Al modernismo musicale dei cinque brani, tutti appartenenti al repertorio novecentesco, eccezion fatta per il primo di questi, una recentissima composizione che Marco Lombardi ha scritto appositamente per il violista Francese (il cui titolo, Portrait, ha ispirato il nome del lavoro coreutico), Giovanni Di Cicco ha risposto con una coreografia rigorosa che vuole, nonostante le difficoltà tecniche, andare a tempo col pentagramma, seguire quanto più fedelmente possibile quella pulsante e talvolta schizofrenica metrica novecentesca, vero e proprio incubo di tanta coreografia contemporanea. Si sa, scrivere danza sulla musica sinfonica del Novecento non è un mestiere facile. Particolarmente per una compagnia dell’opera, abituata a lavorare con un forse più rassicurante repertorio ottocentesco. Fra Hindemith, Penderecki, Stravinsky e Reger, la viola di Giuseppe Francese offre ben pochi appigli per una scrittura di danza solida e facile da riconoscere. Tuttavia continuità delle azioni fisiche e movimento spezzato si incontrano, si bilanciano, si supportano.

Uno spettacolo che si colloca all’incrocio di quelli che la critica definisce secondo e terzo paesaggio della danza (che sono poi, volgarmente, danza moderna e danza contemporanea), nella misura in cui, raccogliendo la sfida del più ostico modernismo musicale, lo restituisce allo spettatore in una commistione piuttosto coerente di linguaggi: un rigoroso formalismo, che non lascia spazio a niente di improvvisato, reso con una qualità del movimento che riconosciamo tuttavia come fortemente contemporanea. Abituati dalla danza astratta del terzo paesaggio, che smonta le “antiche” questioni formali di metrica e ritmo e che difficilmente rispetta la musica (quando già si ricorda di rispettare il sistema-teatro), gli appassionati di Tersicore rischiano di sottovalutare la fatica e il sudore che un lavoro del genere ha richiesto per essere realizzato. La comprensione richiede lentezza.

Niente di ermetico insomma, niente di concettuale, o di anti-teatrale. Portrai à danser danza il modernismo e non vuole mettere in discussione alcun codice moderno (moda questa tutta post-moderna, ma che puntualmente non porta a nessun linguaggio veramente diverso da quello che nega). Celebra invece il valore della coreografia, in una danza martellante, lunga, difficile, e tuttavia silenziosa. Senza uscire dal linguaggio della danza lo cavalca, scavalcando molti dei consueti narcisismi che intaccano il settore. Un lavoro faticoso e faticato, giustamente riconosciuto dagli applausi del pubblico, che speriamo di poter rivedere ancora, magari sui palchi di altri festival di danza.

 

Foto di Michael Palamà

 

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