FRANKENSTEIN (A LOVE STORY) – MOTUS

Morte e vita, ignoranza e conoscenza, natura e uomo: il tema del doppio tipico del romanzo di Mary Shelley, ma più in generale del movimento del romanticismo, si trasforma in uno sturm und drang di riflessioni e interrogativi in questo spettacolo della compagnia dei Motus al teatro Astra per la ventottesima stagione del Festival delle colline Torinesi.

Il tema del doppio è ripreso anche dalla scenografia in cui si devono seguire due lingue: quella inglese del libro, in uno schermo posizionato sopra il palco, e naturalmente, quella parlata dagli attori per la maggior parte dello spettacolo, l’italiano. Il tema si ritrova anche all’interno del palco stesso, con due sezioni speculari composte da tende che vengono mosse a seconda delle esigenze della rappresentazione. Libro e palco si fondono in una simbiosi espressiva tale per cui senza schermo non si colgono alcune delle sfumature della lingua originale, e senza palco non se ne comprende appieno l’interpretazione scenica. La simbiosi e il parassitismo caratterizzano allo stesso modo i personaggi che inizialmente separati in Mary Shelley, Frankenstein e la Creatura, si fondono in un’unica entità che permette uno sguardo polimorfo sulla loro vita vissuta e psicologica.

La storia di Frankenstein è ormai a tutti gli effetti considerata un mito della modernità. La stessa autrice ne dà conferma col sottotitolo del romanzo originale: Il prometeo moderno, in inglese The Modern Prometheus. Esattamente come nel mito di Prometeo, cui non mancano riferimenti all’interno dello spettacolo, ritorna il tema della ύβρις, dal greco tracotanza e arroganza, legata nel contesto mitologico a colui che turba l’ordine naturale delle cose, oltrepassando i limiti della propria natura o offendendo gli dei che la regolano. In questo contesto, lo scienziato compie un atto di insolenza per desiderio di potere e conoscenza, stravolgendo le leggi della natura e violandone il grembo: analizzando, dissezionando, scavando nelle viscere di una carne ormai morta per scoprirne i segreti. Per sottolineare ulteriormente questa interpretazione non mancano riferimenti ad altri scritti considerati manifesti del romanticismo: nel caso dell’albatros per esempio si tratta di un riferimento all’opera in versi The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge, altro protagonista del movimento romantico.

Un altro concetto su cui si sofferma la rappresentazione è quello della simbiosi. Lo spettatore viene incitato ad entrare in connessione con una natura idilliaca e matrigna allo stesso tempo. Un ammonimento nei confronti dell’uomo che oggi ripete l’errore dello scienziato V. Frankenstein.

“Siamo simbionti su un pianeta simbionte”

Con questa affermazione il pubblico viene portato a riflettere su come l’uomo non sia altro che una parte di un tutto, e sul fatto che lui stesso sia composto da altri esseri viventi. Viene ripreso in questo modo un ideale ormai perso e che si spera oggi ritrovato, della società moderna di bellezza e simbiosi con la Natura.

In questo spettacolo, come nel libro, caratterizzato da una visione ciclica della vita il mostro nasce in una nuova vita data dalla morte di altre vite. Deve imparare nuovamente ogni aspetto della conoscenza come un bambino appena nato per sviluppare la propria intelligenza e per poter vivere nella società umana. La creatura si dimostra più umana dello scienziato che nel momento in cui inizia il suo lavoro trasferisce la sua umanità nel mostro che poi disconoscerà. Ancora più grave Frankenstein negherà alla sua creazione uno dei bisogni più primari dell’uomo: la socialità, avere altri esseri come lui con cui formare una comunità.

Altro argomento cui viene dato ampio spazio in questo spettacolo tempesta di riflessioni, è quello della diversità e della paura di ciò che non si conosce. Atteggiamento che si assume troppo spesso oggi nei confronti del profugo. In linea con il filo conduttore di questa edizione del festival, veniamo incoraggiati ad andare oltre alle apparenze di una maschera stereotipo ingannatrice che nasconde un essere umano esattamente come noi.  Come nel contesto della tragedia greca in cui l’attore nel momento in cui indossa la maschera è il personaggio, si crea un clima di ritualità riflessiva che porta il pubblico ad interrogarsi. Nota interessante è la reazione di alcuni spettatori che nel momento in cui il mostro si muove in modo più rozzo, con un comportamento lontano da quello originale del libro, sorridono. Uno spunto di riflessione su quanta strada sia ancora necessario fare per superare il velo invisibile del pregiudizio che ci divide da altre culture.

Sicuramente il lavoro denota una cura approfondita per i particolari e i riferimenti, con sfumature molto ricercate che possono sfuggire anche ad appassionati del romanzo e del genere. Lo spettacolo rappresenta un’ottima occasione per riflettere su tematiche politiche, culturali e scientifiche riattualizzandole, e allo stesso tempo, per approfondire le proprie conoscenze sulla letteratura romantica e sul testo di Mary Shelley.

Linda Steur

ideazione e regia di Daniela Nicolò & Enrico Casagrande
con Silvia Calderoni, Alexia Sarantopoulou, ed Enrico Casagrande
drammaturgia Ilenia Caleoadattamento e cura dei sottotitoli Daniela Nicolò
traduzione Ilaria Patano
assistenza alla regia Eduard Popescu
disegno luci Theo Longuemare
ambienti sonori Enrico Casagrande
fonica Martina Ciavatta
grafica Federico Magli
video Vladimir Bertozzi

produzione Francesca Raimondi
organizzazione e logistica Shaila Chenet e Matilde Morri
comunicazione Dea Vodopi

promozione  Ilaria Depari
distribuzione internazionale Lisa Gilardino
ufficio stampa comunicattive.it

una produzione Motus con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Festival delle Colline Torinesi, Kunstencentrum VIERNULVIER (BE) e Kampnagel (DE), residenze artistiche ospitate da AMAT, Santarcangelo Festival, Teatro Galli-Rimini, Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale”, Rimi-Imir (NO) e Berner Fachhochschule (CH), con il sostegno di MiC, Regione Emilia-Romagna. L’abito di Mary Shelley fu disegnato e indossato da Fiorenza Menni nello spettacolo “L’Idealista Magico”.

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