I RIFIUTI, LA CITTA’ E LA MORTE – GIOVANNI ORTOLEVA; LE ETIOPICHE – MATTIA CASON

Discriminazione e inclusione

Al Teatro Astra, per il Festival delle Colline Torinesi, due spettacoli hanno portato in scena la tematica della discriminazione e della guerra. Se il primo (I rifiuti, la città e la morte) ha una visione pessimista sull’argomento, il secondo (Le Etiopiche) rappresenta un’idea ottimista al punto da risultare quasi utopica.

Gli spettacoli

La prima proposta, I rifiuti, la città e la morte, parte dal testo più censurato di Fassbinder scritto nel 1975 e messo in scena da Giovanni Ortoleva. Questo spettacolo presenta una comunità intrisa di disprezzo e pregiudizio in cui ogni membro, concentrandosi su se stesso e sui beni materiali, rappresenta la corruzione del genere umano evidenziando stereotipi come la prostituta dei bassifondi di Francoforte che per disperazione finirà per diventarne martire. La freddezza di questa società malata è resa dalla staticità mortuaria, non solo data dalla recitazione magistrale degli attori, ma anche da tutta la scenografia che la circonda e incentra l’azione scenica quasi interamente sulla parola. Lo spettatore è chiamato a farsi censore attraverso le continue sollecitazioni stimolate dal personaggio Piccolo Principe, con un ruolo allo stesso tempo interno ed esterno alla narrazione, che ci ricorda costantemente che siamo in un teatro. La voluta freddezza dello spettacolo trasmette perfettamente il fulcro della tematica dell’intolleranza e del fastidio provato nei confronti dell’altro che in questo caso particolare è impersonificato dagli “scarti” della società e da coloro che non ne rispettano le regole apparentemente marmoree e incontestabili come gli omosessuali, le persone affette da deformità genetiche, le prostitute, le donne abusate da padri e mariti violenti e pronti ad abbandonarle una volta ottenuto l’oggetto del loro desiderio. Alcune battute dello spettacolo sono la sintesi del profilo e della bassezza dei personaggi che contrastano con la sacralità delle preghiere spesso udite durante la rappresentazione: “Chi ama ha perso i suoi diritti“, “Dato che mi ama mi picchia“, ” Posso permettermi solo due donne“, “Voler far bene è far male“, “Disprezzo frutta tal quattrini e fa dormire senza coscienza sporca“, “Non è un peso uccidere ebrei per uno che la pensa come me“, “Cimici se la città non imparerà a godersele“… tutte affermazioni che trasmettono l’idea che il disprezzo, l’oppressione e la discriminazione sempre ci saranno e non si potrà fare nulla per estirparli e a questo punto tanto vale, citando lo spettacolo, godersele queste “cimici”.

Per contrasto alla violenta fredda staticità del primo, il secondo spettacolo, Le Etiopiche, messo in scena dal danzatore ed etnologo Mattia Cason è incentrato sulla danza e il movimento. L’opera, attraverso un utilizzo multiculturale dei linguaggi, presenta un manifesto per un’Europa afroasiatica. Come nel primo spettacolo, anche qui ci sono continui riferimenti alla realtà dei nostri giorni: primo fra tutti il fenomeno dei migranti da molti percepiti come fastidiosi invasori. Tematica cruciale nello spettacolo di “invasori e conquistatori” è appunto la guerra. L’opera fa leva sulla biografia di Alessandro Magno, eroe a cui viene fatto costante riferimento senza limitarsi a vederlo come un guerriero spietato, ma osservandolo anche dal suo lato aperto e curioso nei confronti dell’alterità dei popoli che conquista, al punto da esserne egli stesso conquistato. Tuttavia lo stesso Cason definisce quest’opera come un pretesto per aprire un dibattito con il pubblico e raccogliere delle proposte per concretizzare l’idea di un’Europa afroasiatica. Quando si tratta di ottenere questo tipo di dialogo con il pubblico, la forma troppo intellettuale, colta e ridondante porta lo spettatore a non comprendere e a distrarsi da quello che è l’obbiettivo finale. Perdendosi nel caos dei diversi codici teatrali utilizzati, l’interruzione dell’illusione scenica, usata per preparare alla discussione finale, finisce per cadere in secondo piano e perdere di significato agli occhi dello spettatore. L’opera propone simboli religiosi come quello dell’uomo vestito di un mantello con cappuccio verde, riferimento alla figura di San Giorgio in chiave islamica, servendosi della radice della parola persiana usata per indicare il colore verde, emblema dei discendenti di Maometto. Queste metafore finiscono per non trovare un riscontro comprensibile per il background culturale della maggior parte del pubblico a cui si rivolge.

Nei due spettacoli analizzati possiamo vedere modi completamente diversi di guardare alla stessa tematica. Entrambe le rappresentazioni si dimostrano interessanti ed innovative, affrontando con coraggio e in chiave sperimentale le tematiche della discriminazione, inclusione e parità fra i popoli. Si tratta di argomenti estremamente sensibili e difficili e, nonostante la riuscita finale dei due spettacoli sia differente, non si può far altro che apprezzarne l’intento.

Linda Steur

I rifiuti, la città e la morte

di Rainer Werrner Fassbinder
traduzione Roberto Menin
regia Giovanni Ortoleva
scene e costumi Marta Solari
realizzazione costumi Daniela De Blasio
sarte Rossana Cavallo, Rocio Orihuela
movimenti di scena Leda Kreider
musica Pietro Guarracino
disegno Luci Andrea Torazza
fonica Massimo Calcagno
costruzioni Giovanni Coppola
assistente alla regia  Gabriele Anzaldi
assistente volontaria Federica Balletto

Produzione Fondazione Luzzati Teatro della Tosse
coproduzione Theaterdiscounter
in collaborazione con Barletti /Waas e ITZ  – Berlin
si ringrazia Goethe Institut Genua

con  Marco Cacciola, Andrea Delfino, Paolo Musio, Nika Perrone, Camilla Semino Favro, Edoardo Sorgente, Werner Waas

Le Etiopiche

ideazione, coreografia e regia Mattia Cason
creazione e interpreti Mattia Cason, Katja Kolarič, Rada Kovačević, Tamás Tuza, Carolina Alessandra Valentini
assistente alla regia Alessandro Conte
drammaturgia Mattia Cason
disegno luci Aleksander Plut
video Mattia Cason

una produzione EN-KNAP Produzioni /CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, con il sostegno di Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin

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