LE ETIOPICHE – MATTIA CASON

Come può un personaggio storico come Alessandro Magno essere sia un tremendo sterminatore sia un estremo curioso interessato a ogni cultura che incontra nelle sue conquiste? Come è possibile oggi approdare ad una Europa Afroasiatica? Queste sono le domande che accompagnano lo spettatore uscito dalla sala dopo aver visto Le Etiopiche di Mattia Cason con l’assistenza alla regia di Alessandro Conte, presentato mercoledi 19 ottobre al Teatro Astra per la rassegna del Festival delle Colline Torinesi.

Mattia Cason si muove in scena con estrema razionalità. Egli sceglie di comunicare con il pubblico in molti modi tranne che con la lingua italiana. Questo principio di incomunicabilità diretta provoca due vie di attenzione percorribili, paragonabili a quelle di chi guarda un film sottotitolato: o si guarda l’attore recitare o si guarda la traduzione simultanea. Lo stesso Cason fa più ruoli in più lingue diverse tra di loro, come il persiano e il greco. Questo è il primo cortocircuito interiore offerto allo spettatore che ragiona sulla etimologia della parola “identità”, in una visione di realizzazione di una Europa Afroasiatica, vista dallo stesso Cason come necessità e permessa da una totale integrazione sociale di coloro che sono “extra-ordinari” dalla nostra cultura collettiva.

Lo spettacolo visto al teatro Astra non realizza però del tutto queste premesse. Lo fa solo in parte, presentando una “nebbia” di contenuti che dimostrano un grande lavoro preparativo senza però una visione argomentativa di fondo convincente, ragionando quindi costantemente al buio e ponendo molteplici ostacoli allo spettatore. Ciò che quindi si afferma nello spettacolo sono situazioni un po’ alla rinfusa che palesano piccoli errori di dettaglio qua e là. Ci sono due piani di attenzione: la presenza scenica attiva dell’attore, posizionato in primo piano, e la “presenza” cinematografica degli attori che vengono proiettati sul fondale, lasciati in video, senza una presenza vera, fisica. Ciò porta lo spettatore a dare molta più attenzione alla figura viva che si muove abilmente e agilmente in scena rispetto al secondo piano. Non a caso, gran parte dello spettacolo risulta un gioco, nel senso inglese di spettacolo, play, fino ad un punto ben specifico dove si crea una sorta di estasi interiore data dalla musica incalzante e una coreografia di grande impatto che trasforma quel momento in uno dei punti più riusciti dello spettacolo.

Il lavoro sembra frammentario e lo si può dividere in due parti: una molto godibile, piacevole, che narra le vicende di Alessandro Magno e di Memnone di Rodi, che trovano riscontro mitologico rispettivamente in Achille e Memnone Re di Persia e d’Etiopia, fino ad un punto di non ritorno dove il regista Mattia Cason dichiara l’impossibilità di andare avanti nella storia perché il racconto durerebbe troppo; la seconda invece prende una piega molto politica, basandosi su un ragionamento sui nazionalismi. In scena viene presentato per esempio Badoglio durante la conquista fascista dell’Etiopia oppure il racconto di due ebrei in campo di concentramento che parlano di una Europa libera, con l’aggiunta però di una crisi significativa, quasi metafisica: l’attore è nudo, si denuda dei suoi abiti come si denuda dell’idea del primo segmento quasi a voler dire che adesso non si parla di identità come soggetto collettivo, adesso si parla di Europa e di come questa debba diventare Afro-Asiatica. Nonostante se ne capisca il motivo, la nudità non appare però sempre del tutto giustificata.

Nel secondo frammento si sente l’emergere di un altro punto di vista più attivo e più politico, si sente la mano di Alessandro Conte che volutamente viaggia tra i limiti e nella contraddizione umana stimolando due posizioni rispetto all’idea di fondo dello spettacolo: chi ne vede la presunzione, chi l’ingenuità. Mattia Cason non fa altro che scontrarsi con questa contraddizione di fondo, sin dall’avvio dello spettacolo.

La contraddizione gioca sul confine di Realtà e Finzione, ma allora sorge una domanda spontanea. Come si può mostrare con un forte gesto politico questa contraddizione come unica forma di verità? La risposta dal testo non l’avremo mai, dallo spettacolo tanto meno, ma è normale se lo spettacolo nasce prettamente “come un pretesto per parlare di Europa” con il pubblico. Insomma, arriva allo spettatore un progetto che non decolla appieno, uno spettacolo che pare ancora abbozzato o in prova, che vuole approdare ad una idea importante che però si concretizza in qualcosa che non convince a pieno perché c’è forse troppo in poco: troppo contenuto in poco tempo, troppa retorica senza un punto pratico, troppa contraddizione che diventa una sorta di dimostrazione per assurdo che la stessa idea, per quanto bella e condivisibile, non è altro che utopia irrealizzabile. Infine un dialogo con il pubblico, che non troverà mai un approdo reale, non troverà quella antitesi hegeliana che porterà alla sintesi, rischiando di fermarsi soltanto a raccogliere il consenso degli spettatori .

Roberto Iacuzio

Ideazione, drammaturgia, coreografia e regia Mattia Cason
Creazione e interpreti Mattia Cason, Alessandro Conte, Rada Ko-vačević, Tamás Tuza, Carolina Alessandra Valentini
Con la partecipazione in video di Sirak, Berhanu, Dawit (rifugiati africani), Odysseas Manidakis (giocatore di Bouzuki), Nabi Aslam, Armin Hamdard, Arshaz Khan, Ayal Khan, Faisal Khan, Naveed Khan, Ramin Khan, Sulaiman Kharoti, Hamyoon Nabiza-da (Mama), Sharif (soldati di Alessandro), Shashe Capra, Arse-ma Amare Hagos, Tarik Ranieri (combattenti della resistenza etiope), Alessandro Conte (Ibn Arabi), Paolo Cacioppo, Alessandro Conte, Luca Vallata (AlKhidr)
Disegno luci Aleksander Plut
Assistente alla regia Alessandro Conte
Video Mattia Cason
Produzione EN-KNAP Produzioni, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG
Con il sostegno di Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin

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