L’arte vivere di noi stessi. Su “Onirico. Il fiume dell’oblio”

Augusto Boal diceva che il teatro è l’arte di vedere noi stessi, un modo per rientrare in contatto con il nostro corpo, i nostri stati d’animo e ogni aspetto mentale o fisico che ci compone. Un’esperienza umana intima, ma anche difficile e, in alcuni casi, dolorosa. Un’esperienza che, grazie alla compagnia teatrale  “Stalker Teatro”, le donne della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno hanno deciso di vivere. Attraverso un laboratorio, all’aiuto di volontari e attori, il loro percorso le ha portate all’allestimento dello spettacolo Onirico. Niente palco, platea o professionalità attoriale, solo la sincerità degli sguardi, la voglia di rinascere e riemergere dal loro passato.
Lo spettatore entra nel “teatro” appena mette piede al di là di un cancello alto nove metri, per poi essere perquisito dalle guardie. L’atmosfera di leggera oppressione lo accompagna fino alla sala con le protagoniste della serata. Il nero lo inghiotta e a sorpresa si ritrova in un fiume blu circondato da sedie, un fiume in cui attori e attrici sono immersi. Lo spettacolo inizia dopo che tutti hanno preso posto, una musica leggera rilassa lo spettatore e i corpi iniziano a galleggiare. Il fiume Lete della mitologia greca  bagna e leviga,  cancellando la memoria del passato opprimente, restituendo la possibilità di sognare, quel mondo onirico che la realtà del carcere inevitabilmente strappa.  Ed ecco che i corpi si animano, iniziano a vivere di nuovo, producono piccole bolle che brillano alla poca luce, si scontrano, si abbracciano, rimpossessandosi della propria umanità. Qualche volta,  frasi delle detenute vengono lette, testimonianze di quel luogo, di quella voglia di immergersi e ritornare pulite. Chi guarda, a quel punto, però, è caduto con loro in quelle acque, non si ricorda più in che luogo sia o chi siano le persone che ha davanti, vede solo donne, con la sofferenza negli occhi, che appanna il loro possibile futuro.
La trasparenza e il coraggio con cui tutto questo viene trasmesso è disarmante e ti ritrovi come loro un corpo morto, trascinato, bisognoso di speranza, di altra acqua per continuare. Quella forza viene data alle donne non più dal fiume ma dai loro cari, dai figli, che le rivestono di rosso, facendole tornare indietro. Lo spazio scenico si anima di voci, risa, urla, di adulti bambini che giocano a prendersi.

E’ la svolta definitiva, il punto in cui il seme del rimorso è stato espulso per lasciar spazio a quello dello della forza vitale.  Il carcere si trasforma così in uno studio musicale, dove situazioni scomode si tramutano in possibili canzoni, cantate in coro, tra le luci di lanterne colorate danzanti. L’apice viene raggiunto allo sbucare di piccole campanelle. Ogni donna o volontario del laboratorio ne ha una e raggruppandosi al centro le innalzano facendole suonare, come un brindisi all’immensa impresa compiuta dal corpo e dalla memoria. Sciogliendosi il cerchio si scioglie anche la sottile barriera con lo spettatore. Piccoli segreti, pensieri o semplici saluti gli vengono sussurrati all’orecchio, preceduti dal risveglio della campanella, senza vergogna, paura o imbarazzo, con l’invito finale di ballare con loro. Ed è proprio con una ballo che lo spettacolo si chiude, con il fiume traboccante di sorrisi e le sedie vuote.
Questa serata è stata la dimostrazione che per far teatro non servono attori professionisti o grandi palcoscenici ma la forza di vivere in ogni momento dell’azione, di saper cogliere cosa i nostri istinti più profondi ci sussurrano alla mente, lasciando andare corpo, voce e sguardo, lasciando che i sentimenti e le sensazioni prendano le briglie dei nostri movimenti.
I volontari e, in primo luogo, le detenute, le donne che si sono spogliate delle loro maschere passate, hanno regalato allo spettatore un inno alla vita, frammenti di sogni e della forza che un solo essere può sprigionare.

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