CECITÀ – VIRGILIO SIENI

Quando si entra a teatro, solitamente, è prassi comune svolgere un certo tipo di rituale comportamentale: guardarsi un po’ intorno per cercare il proprio posto, poi scrutare qua e là tra la baraonda di persone alla ricerca di qualche faccia amica con cui scambiare una chiacchiera e infine entrare in maniera più o meno unanime in uno stato di chiara attesa, che coglie ognuno in modi inaspettati e diversi ma che pone quasi sempre le persone di fronte ad un sipario, nero e ben tirato. E a meno che non si abbia letto il libretto di sala o si abbia visto il trailer su YouTube, non ci si aspetta nulla. Il sipario nero ti conferma un non detto, lo sguardo comincia la sua esperienza teatrale in modalità neutra.  

Per lo spettacolo oggetto di questa recensione è funzionato tutto come sopra fino allo stato di caos disordinato che pervade la prima relazione dello stare a teatro in qualità di pubblico. Ebbene, qui l’ultimo stadio invece coglie di sorpresa: non c’è il sipario e non c’è nemmeno una scena viva. Davanti agli occhi dello spettatore un grande telo grigio, sottile, opaco, impercettibile eppure presente e attivo nel creare una sorta di annebbiamento che ci dice già molto.

È il 12 novembre e in scena al teatro Astra di Torino l’ultima replica della prima assoluta di Cecità, nuovo spettacolo di Virgilio Sieni che prende vita in una forma liberamente ispirata al celebre e omonimo romanzo di José Saramago del 1995.

Settanta minuti dilatati, capaci di condurre lo spettatore da uno stato di mancanza, della vista in questo caso, ad una condizione di esplorazione che ricomincia da capo, ovvero la disposizione di una ricognizione su ciò che siamo e sulla nostra umanità in quanto essere e in quanto sentire.

Tutto comincia con un forte suono ambientale, mentre da dietro il telo grigio una lieve luce che, composta da sempre più ampie fiamme bianche, comincia ad illuminare la scena. Il bagliore, fattosi blu, è accompagnato da un suono di campanelli proprio quando inizia ad intravedersi un corpo al di là del telo, che si avvicina a quest’ultimo fino a toccarlo con le mani e la testa. Questa creatura è lenta e il suo movimento è tanto evanescente, incostante quanto tattile e presente.

ph Andrea Macchia
ph Andrea Macchia

Da un corpo di profilo investito da una luce calda gialla ad un colore rosso e tre corpi, questi i primi cambi di una scena che muta costantemente, che non si fissa in nessuno stato.

Insieme ai corpi anche alcuni oggetti, un tavolo e una radio, una musica ambientale che diventa sempre più elettronica e i colori della luce, colori che cambiano più velocemente passando da verde a bianco a rosa. Un altro oggetto, un trolley, e la scena diventa arancione. Un altro oggetto ancora, una forbice.

Poi tutto scompare. Istanti di buio che, immersi nell’oscurità di una scena ritornata neutra per pochi secondi, ti ricordano che cos’è la totale cecità, anche se la sensazione non era poi così distante da quella provata poco prima.

ph Andrea Macchia

Infine il telo scompare, velocemente, e tutto si fa rosso.

Si intravede lentamente una nuova scena, che in realtà è sempre stata lì ma che fino a quel momento era offuscata perché dietro quella “patina” grigia con la quale avevamo iniziato a prendere confidenza. Vediamo ora i tre lati del palco coperti da teli bianchi così come il pavimento, sopra il quale stanno sei danzatori con numerosi oggetti di diverse forme, consistenze e dimensioni.

I corpi, per metà nudi e per metà con pantaloncini di colore neutro, si muovono soltanto a terra, rotolano, si sormontano l’uno sull’altro e si sorpassano. Si conoscono e si riconoscono. Stanno vicini, creano alleanze di movimento per indagare chi sono e cosa possono fare con quei corpi a loro disposizione.

Una danza urgente, che sul momento risulta stanca, pesante e trascinata, è in realtà una danza della scoperta e quindi un insieme di azioni di chi è principiante, alle prime armi con le proprie possibilità fisiche, motorie, psicologiche, relazionali.

Anche la voce comincia un viaggio di conoscenza e apprendimento attraverso un lungo microfono che viene fatto rimbalzare “sbadatamente” sulle pareti e per terra fino a giungere le bocche di quelle creature che assumono un po’ alla volta sembianze animali di volpe, di cavallo, di cervo. Si manifesta e si intreccia così la vita di questi emittenti della rivelazione, aspiranti apprendisti di un proprio io e di un proprio noi, nuovi, forse già visti e rivisti in una qualche forma, ma da fare e rifare da capo.

Si ritrova in questo spettacolo la grande sensibilità di Sieni verso il corpo e l’elemento tattile, che vengono esplorati insieme a tutta una sfera sensoriale messa in azione dal gesto, un gesto semplice e primordiale non abbellito ma che si fa abbellire dalla forza di una pluralità che si sposta nello e con lo spazio. Proprio lo spazio infatti gioca un ruolo molto importante diventando quello che Sieni definisce «una dimensione desolata e vuota» capace di dare luogo ad una ricerca su spazialità sempre nuove.

Quello spazio che sul finire dello spettacolo si fa carico di colori grazie agli indumenti colorati, ai numerosi sacchetti di plastica portati sulla scena, alle maschere degli animali indossate, poteva rimandare facilmente anche all’immagine di un parco giochi, un luogo per definizione sicuro dove poter imparare cose nuove insieme agli altri senza giudizio, ascoltando e facendosi ascoltare, guardando e lasciandosi guardare.

ph Andrea Macchia

Silvia Urbani

CREDITI

liberamente ispirato al romanzo Cecità di José Saramago

ideazione, coreografia, spazio Virgilio Sieni

interpreti Jari Boldrini, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Emanuel Santos, Lisa Mariani

musiche originali Fabrizio Cammarata

luci Andrea Narese, Virgilio Sieni

costumi Silvia Salvaggio

maschere Chiara Occhini

produzione Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni, TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro Metastasio di Prato

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *