MISERICORDIA

All’inizio vi è solo un flebile ticchettio; alla fine, il suono sincopato di una banda di paese. Nel mezzo, la storia del giovane Arturo, figlio settimino della prostituta Lucia, nato a seguito delle botte con cui l’uomo che l’aveva messa incinta ha ucciso sua madre, e che le amiche-sodali Bettina, Anna e Nuzza hanno deciso di accudire e crescere, pur nella miseria di un appartamento desolato, un tugurio che non basterebbe per una persona, dove per sopravvivere devono vendere il loro corpo alle fameliche voglie degli uomini di passaggio.

Il ticchettio è quello dei ferri da maglia: le tre donne sferruzzano, con Arturo (il bravissimo Simone Zambelli), affetto da un ritardo mentale dovuto alla sua nascita traumatica, che dondola a quel ritmo, poi si alza, danza, sublimando con il movimento sinuoso del corpo, la malattia, in uno stupore incantato che non ha bisogno di parole. E’ naturale pensare quelle donne come le tre Moire, le filatrici cui anche gli déi dovevano sottostare, che filano la vita, la misurano e, infine, ne decidono la lunghezza: e quello cui stiamo per assistere è il momento del taglio, della separazione, ma non è la morte ciò che attende Arturo, nel teatro di Emma Dante tutto si fa continua metamorfosi e trasformazione e la separazione che le tre donne hanno architettato da Arturo non è un abbandono, una fine, un lutto, piuttosto un’alba che miracolosamente disperde in colori delicati una notte nerissima.

Foto © Masiar Pasquali

Si ride, nel nuovo spettacolo dell’artista siciliana: nelle diatribe tra le tre donne, con Anna (Leonarda Saffi) coalizzata con Nuzza (Manuela Lo Sicco) contro Bettina (Italia Carroccio), per i soldi, per il cibo che sparisce dal frigorifero, per come viene vestito Arturo: i dialetti – pugliese, siciliano – si impastano in un ritmo ora rapidissimo ora più lento, inframmezzato dai movimenti di Arturo, che come una molla dondola e si muove per tutto il palco.

Ci si commuove: al racconto di Anna della morte di Lucia, alla delicatezza con cui le tre donne gli porgono il cuscino mentre, sonnambulo, danza e rischia continuamente di cadere a testa in giù; o agli sguardi infantili di Arturo, che porta il nome della stella più luminosa e del protagonista del romanzo di Elsa Morante, ma che ha anche i movimenti legnosi di un Pinocchio che parrebbe dover rimanere immutabile per sempre: e che Pinocchio sia una fonte del lavoro della Dante è testimoniato dal padre di Arturo, che di nome fa Geppetto ed è falegname, come per la musica del Pinocchio della versione televisiva di Comencini nel mentre Arturo getta per aria i suoi balocchi, presi da un sacco nero di plastica.

Foto © Masiar Pasquali

Torna, come in molti altri spettacoli della Dante, il momento della vestizione: è un momento-chiave, di autentica metamorfosi perché ora Arturo, così hanno deciso le donne, deve andare via, deve seguire la banda del paese che sta passando e lo porterà in un nuovo posto, dove avrà una stanza propria, un proprio letto, un vero riscaldamento; e allora che si vesta da bambino giudizioso, calzoncini, camicia bianca, scarpe; e come nelle fiabe, dovrà portarsi dietro degli oggetti magici, che lo preservino e lo salvino: le tre donne gli riempiono la valigia di oggetti inutili e necessari (un carillon, il cuscino della culla) – inutili se il viaggio fosse soltanto reale, ma necessari per quello simbolico che sta per intraprendere Arturo: sono ricordi, gocce di memoria salvate a stento da un passato durissimo e arido. E poi i soldi, quelli guadagnati dalle donne vendendosi, come mostra la scena più disturbante, dove è messo in scena il peggior immaginario maschile che le vede mortificare il proprio corpo, dato in pasto a un mondo che, per comodità, per proprio vergognoso tornaconto così le preferisce rappresentare – volgari e colpevoli e quindi punibili.

E poi arriva la banda, con Arturo che ne imita i suoni, il rollio tumultuoso del tamburo, le grida delle trombe:  e Arturo si siede e aspetta, saluta le donne proferendo l’unica parola dello spettacolo “mamma”, rivolta a tutte e tre le donne che a loro volta lo incoraggiano imitando anch’esse i suoni della banda e i suoi strumenti:  e infine, senza che ferisca, il buio che ci separa.

Pur nella brevità di questo spettacolo, Emma Dante celebra ancora una volta il corpo dei suoi attori, esaltandolo in una partitura calibrata di gesti e movimenti, forzandolo a raggiungere picchi di fatica e gioia apparentemente inaccessibili: nella semplicità di una scena povera (quattro sedie e decine di oggetti e vestiti tutti raccolti attorno alle sedute) e di luci che in alcuni momenti gettano ombre lunghe sulle pareti circostanti, come in un magico carosello, si compie nuovamente il rito del teatro, quello che attinge al mistero intangibile delle cose pur succhiandone con forza dalle sua ossa doloranti il midollo.

E’ per lui, per Arturo, che si svela il senso del titolo dello spettacolo, quel sentire con il cuore (parola contenuta in misericordia) che porta alla compassione, che non è patetismo né pietismo, ma condivisione di sentimenti e sensazioni: per Elena Stancanelli, che nel libretto di scena commenta lo spettacolo e il suo rapporto con la regista, Arturo è un piccolo angelo e gli angeli, scrive, “non servono a niente, tranne a farci ricordare la bellezza.”

Gabriele Cardini

Piccolo Teatro Grassi
dal 14 gennaio al 16 febbraio 2020
Misericordia
scritto e diretto da Emma Dante
luci Cristian Zucaro
con Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco, Leonarda Saffi, Simone Zambelli
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo

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