Trilogia del tavolino

Una comica e amara bellezza

Il teatro comincia quando si esce dalla sala.
Emblema della loro poetica e del tipo di teatro che da molti anni propongono, Claudio Morganti e Rita Frongia lo scrivono arrivando dritti al punto, in uno dei loro manifesti provocatori. Trasformare delle semplici parole in fatti è un’impresa ardua, che quasi mai ha riscontri. Eppure la Trilogia del tavolino di Rita Frongia ci riesce.

La ventiquattresima edizione del Festival delle Colline Torinesi ci ha portati per l’occasione al Cubo Teatro, uno spazio raccolto, dove l’energia degli spettatori si mescola a quella degli attori, generando un flusso di forze irrefrenabile. Durante le pause che scandiscono gli spettacoli, il pubblico si ritrova, ironicamente e inconsapevolmente, attorno ad un tavolino, esattamente come gli attori che ha appena visto in scena. In un luogo conviviale, in cui si scambiano parole e impressioni e i bicchieri tintinnano sbadati, i pensieri si arrovellano attorno ad un’unica certezza: quel brusio di voci nasconde un silenzio tombale. È il silenzio di chi, ormai disilluso, si prefigurava di uscire dal teatro con delle risposte confezionate sottobraccio, e non credeva fosse ancora possibile uscirne più confusi di come ci si era entrati. Un silenzio smarrito, tra l’ebbrezza di essere stati smentiti e la paura che si tornerà a casa con un grande fardello. I pensieri si trascineranno, nello sforzo totalmente umano di dare un senso a ciò a cui si è assistito, consapevoli del fallimento e della stessa banale inutilità del tentativo.

Gli spettacoli che compongono la trilogia sono frutto dell’invenzione di Rita Frongia, drammaturga e regista di tutte e tre le messe in scena, con l’eccezione della prima, diretta da Claudio Morganti. La vita ha un dente d’oro, La vecchia e Gin Gin – di cosa si parla quando si parla potrebbero essere visti separatamente, ma gli elementi che li accomunano sono probabilmente più significativi delle loro indipendenze. Banalmente, un tavolino, che accoglie due attori/folli emarginati, alle prese con un gioco enigmatico; la parziale oscurità, smorzata da luci espressive e fonti luminose non convenzionalmente teatrali; la presenza, non sempre così chiara, di un cadavere; la comicità, che si mescola a tratti di improvvisazione e ritmi di linguaggio e corpo, sopperendo inosservata alla totale assenza di musica.

L’attore attraversa il tempo in presenza di uno spettatore. Sembra perfetta questa citazione di Claudio Morganti per descrivere la sensazione provata durante la visione della trilogia. La regia, che sembra quasi inesistente (e, forse, chi leggerà sa che non è affatto una critica negativa), fa perdere agli spettatori la cognizione del tempo e dello spazio, proiettandoli in una dimensione sospesa, modulata dal ritmo. Ed è proprio il ritmo una delle principali chiavi di lettura degli spettacoli. In Gin Gin si presenta di difficile approccio: sfiora inizialmente la forzatura, spegnendosi poi lentamente con l’intercalare di luci e pause. Sicuramente un effetto studiato, ma non sempre pienamente riuscito nel suo intento di sincopare la melodia. In La vita ha un dente d’oro, invece, le sue declinazioni sono più esplicite e compiute. Un ritmo estremamente musicale, che prende vita dalla cassa di risonanza del corpo dell’attore, che si fa strumento, in grado di intonare note mute. Fin dall’inizio, infatti, il moto dei corpi/strumenti dei due uomini, che mescolano e si scambiano le carte con velocità crescente, spostando allo stesso tempo un bicchiere e una bottiglia, crea una sorta di danza che sembra fine a se stessa. Il gioco non è quello che i due uomini sembrano apprestarsi a iniziare, ma l’attesa stessa di quella partita a carte, che capiamo fin da subito non avrà mai un principio. Il ritmo continua ad essere sostenuto dagli scambi dialogici e dai lazzi portati in scena, che per la maggior parte del tempo risultano privi di senso e impossibili da comprendere anche agli attori stessi. Il linguaggio, mimico e verbale, si destruttura all’estremo per tutta la durata dello spettacolo, alternando momenti concisi, che portano la voce quasi all’esasperazione, a momenti ricchi di un silenzio spesso più rumoroso del rumore che lo ha preceduto. Solo quando, infine, il corpo dell’attore muore, inizia a suonare una chitarra, rimasta oggetto tacito sul fondo della scena per tutto il tempo. Contrapponendosi all’armoniosa melodia del corpo umano, le sei corde generano una non-musica, assordante riecheggiare di rumori in feedback. Come le corde tese, il linguaggio di cui vibra lo spettacolo è quello della fisicità: del silenzio, del suono e dell’ingombrante presenza corporea dell’attore.
Il suggerimento che ci viene dato dallo stesso Morganti è che per meglio sentire a volte è necessario socchiudere gli occhi, se non addirittura chiuderli del tutto. Mai come in La vita ha un dente d’oro questo strano consiglio andrebbe seguito alla lettera: solo chiudendo gli occhi, anche per pochi istanti, si riveleranno sensi nascosti, impossibili da udire altrimenti.

Il ritmo cadenzato contraddice meravigliosamente quello che è forse uno dei temi più evidenti della trilogia e già in parte menzionato: l’attesa. L’attesa esistenziale e universale che l’impasse della vita, da cui tutti ci sentiamo oppressi, porti prima o poi ad un esito nuovo. L’indugio cerca di essere riempito da una conversazione che non ha fondamenta, decomponendosi inesorabilmente in lunghi silenzi pieni di angoscia e amarezza. Il paragone con Samuel Beckett è inevitabile: attesa, mutilazione, silenzio. Inutile domandarsi in quale luogo stiano agendo questi uomini sfumati, ai limiti della follia e dell’emarginazione. Essi semplicemente non agiscono. Attendono e mutano. Parlano una lingua sempre più incomprensibile. E poi è il silenzio.

A voler trovare un altro filo rosso che leghi gli spettacoli della trilogia, si potrebbe parlare di un crescendo di stereotipi. Da quello manifestatamente esibito di La vita ha un dente d’oro, a quello più pungente di Gin Gin.

In La vita ha un dente d’oro lo scacco della finzione è portato ai suoi limiti estremi, grazie ad un riuscitissimo gioco di specchi metateatrali. Nell’istante in cui ci si sente più prossimi alla comprensione, e quasi ci si sta per abbandonare placidamente alla confortevole immedesimazione, viene improvvisamente meno il terreno su cui si poggia e la finzione si disvela con la violenza di un getto di acqua gelida. L’attore Pennacchia fa lo stereotipo dell’ubriaco, lo punzecchia il suo compagno di scena Gianluca Stetur. I due iniziano a recitare, quindi, la parte di loro stessi, ed in fondo si capisce che, per tutto il tempo, sono sempre stati attori alle prese con la profonda ed inarrivabile stupidità di cui sanno farsi carico, per dirla con le parole del regista.

L’ultima messa in scena, Gin Gin, è invece una chiacchiera fra due sorelle, tra affetti e increspature. È quella che ci presenta i personaggi più canonicamente compiuti, più facilmente inquadrabili e definibili in un contesto e in un tempo. La singolarità della caratterizzazione è proprio ciò che in un rovesciamento rende ancora più destabilizzante lo stereotipo, che si presenta in tutto il suo fondo di verità amaro come il Gin. Due donne semplici, che discutono con leggerezza di argomenti complessi, e ridono di battute denigranti sulla donna, non comprendendone il vero significato nella loro confortante ingenuità. E il pubblico ride di gusto con loro, perché in fondo spesso vorremmo tutti conservare quell’occhio spaesato sul mondo. Eppure questa presunta consolazione è un’infima bugiarda ed anche le due donne, nella loro genuina ignoranza, si trovano di fronte al buio della vita, alle prese con il loro personale cadavere.

L’arduo e impossibile gioco che il teatro si prefigge è resuscitare una specie di cadavere, dice Morganti, riferendosi ad un “teatro” che purtroppo spesso è imbalsamato, immobile, sterile. Nei suoi testi, Rita Frongia il cadavere ce lo mette per davvero, lo esplicita davanti ai nostri occhi, declinandolo in tutte le sue possibili apparizioni: un cadavere al presente, un cadavere al futuro ed un cadavere in penombra. Chi è il morto?

Tra le rughe degli spettacoli, fra giochi e lingue mistiche, si nasconde una sottile linea improvvisativa. Un’improvvisazione che, per citare Davide Sparti, caro a Morganti, non consiste nel produrre opere ma nel generare inizi. Siamo davanti ad un teatro in costante ricerca: i gesti e le conversazioni improvvisati risultano riconoscibili al pubblico, ma perfettamente coerenti e armoniosi con il resto dello spettacolo. Intrigante è proprio com-partecipare alla prova d’attore e al rischio intrapreso nello sconfinare nel non-conosciuto, nel tentativo di dar vita a forze nuove.

La seduzione del campo di forze è scompaginante e persino estenuante: dopo una maratona in un’unica sera di tre spettacoli di tale intensità si risulta quasi svigoriti. L’incontenibile gioia stanca che si prova nel riconoscere di aver preso parte a questa nascita unica smuove al punto tale da voler vedere e rivedere gli spettacoli, per sorprendersi di volta in volta dei nuovi ritmi che potranno gemmare. È il famoso Quadrato nero di Malevič, citato negli spettacoli: quel buco nero densissimo che attrae con forza incontrastabile nella sua curvatura spazio-temporale senza via di scampo.

Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara.La celebre frase di Rimbaud, rivisitata da Frongia e Morganti in La vita ha un dente d’oro, si è dispiegata davanti agli occhi del pubblico, diventando metafora degli spettacoli. La bellezza della finzione a cui si è assistito, in tutta la sua concreta realtà, la vera bellezza, non può che essere amara, come l’artifizio di un dente d’oro, come la vecchia dei tarocchi che è simbolo di morte, come un brindisi che fa “gin-gin”.

Ada Turco e Alice Del Mutolo

LA VITA HA UN DENTE D’ORO

di Rita Frongia
regia Claudio Morganti

con Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur

LA VECCHIA

di Rita Frongia
regia Rita Frongia

con Marco Manchisi e Stefano Vercelli

GIN GIN – DI COSA SI PARLA QUANDO SI PARLA

di Rita Frongia
regia Rita Frongia

con Angela Antonini Meri Bracalente      

co-produzione Esecutivi per lo spettacolo/Artisti Drama
con il sostegno di Regione Toscana/Armunia/TeatroDueMondi

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