Il Cielo non è un fondale – FDCT

Soli come nei sogni, così si apre Il cielo non è un fondale, che inizia proprio da un sogno, a sua volta generato da una canzone dall’omonimo titolo. In questo modo spontaneo e naturale inizia il lavoro dell’attore: sognare ad occhi aperti e lasciarsi trasportare dagli eventi. Un sogno che piano piano diventa collettivo, collocato in una scenografia scarna, dove l’unico elemento è un termosifone bianco, posto a lato della scena. In questa situazione onirica Antonio ci racconta di aver sognato Daria nei panni di una barbona e, pur avendola riconosciuta, l’ha ignorata. Da questo sogno si instaurano a catena tanti racconti sconnessi  ma legati da qualche particolare che permette il passaggio da una storia all’altra. Gli attori si interrompono nei loro racconti e tra una pausa e l’altra riprendono parola, tutto apparentemente sconnesso ma con un senso come all’interno di un sogno. Tutti i racconti hanno un tema che li collega tra loro, la paura di essere esclusi. Questo sentimento lo si percepisce molto bene, dato dalla frenesia di occupare la scena con le parole, di diventare protagonista a costo di interrompere le storie altrui e rubando la scena. Fin da subito gli attori ci chiedono di chiudere gli occhi quando sarà il momento e di tenerli chiusi finchè loro non ci diranno di riaprirli. Subito rimaniamo interdetti da questa cosa, chiunque va a teatro per vedere uno spettacolo, ma dopo aver capito il gioco che ci hanno proposto e mostrato le carte della situazione paradossale in cui ci troviamo, diventa così naturale che ad ogni cambio scena lo si fa quasi da soli. Chiudendo gli occhi riusciamo, noi spettatori, a calarci in una dimensione particolare che grazie all’ausilio delle musiche ci porta in un luogo sospeso tra sogno e realtà.

Quattro protagonisti, ognuno con la paura di essere dimenticato, proprio come accade coi sogni, una volta svegli, ciascuno spinto da questa paura invade i racconti altrui, con canzoni, riempiendo lo spazio di azione, il tutto con una fluidità estrema, e solo le riprese di Antonio diventano il tormentone comico dell’atto unico. A dare una forma e un corpo alla drammaturgia sono le canzoni presenti nello spettacolo. Una soprattutto, La domenica di Giovanni Truppi, che si smebra nei dialoghi degli attori, si trasforma nell’impossibilità di trasformare la vita quotidiana in qualcosa di astratto. Anche perché come dice alla fine la canzone “va a finire sempre che la domenica la gente litiga”.
Un unico atto drammatico privo di trama e privo di un finale vero e proprio, che lascia il pubblico  sbigottito tanto che non capiamo, se non dopo alcuni minuti di silenzio e di scena vuota, che il nostro sogno è finito.

Elisa Mina

 

di Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
regia Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
con Francesco Alberici, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini
testo su Jack London Attilio Scarpellini
canzoni Lucio Dalla, Mina, Giovanni Truppi, Georg Friedrich Händel, Lucio Battisti
assistente alla regia Davide Grillo
disegno luci Gianni Staropoli e Giulia Pastore
costumi Metella Raboni
costruzione delle scene Atelier du Théâtre de Vidy
direzione tecnica Giulia Pastore
accompagnamento, distribuzione internazionale Francesca Corona
organizzazione Anna Damiani

Produzione Sardegna Teatro, Teatro Metastasio di Prato, Emilia Romagna Teatro Fondazione
Coproduzione A.D., Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris,
Romaeuropa Festival, Théâtre Vidy-Lausanne, Sao Luiz – Teatro Municipal de Lisboa,
Festival Terres de Paroles, théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse
Sostegno Teatro di Roma
Collaborazione Laboratori Permanenti /Residenza Sansepolcro, Carrozzerie | n.o.t
/Residenza Produttiva Roma, fivizzano 27 / nuova script ass. cult. Roma

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