INTERVISTA A METTE INGVARTSEN

The Dancing Public

Venerdì 29 e sabato 30 ottobre 2022 alla 27esima edizione del Festival delle colline torinesi abbiamo potuto vivere l’esperienza immersiva e coinvolgente di The dancing public, il nuovo lavoro di Mette Ingvartsen. Già dal momento della nostra entrata in sala, l’artista ha voluto accoglierci personalmente e spiegarci come si sarebbe svolta la performance, rendendoci liberi di danzare con lei e interagire con chi ci circondasse, lasciandoci andare alla voglia irrefrenabile di danzare liberamente senza vincoli, senza freni e senza pregiudizi. Tutti aspetti che di recente, o negli ultimi tre anni almeno, sono stati soffocati e messi da parte a causa delle restrizioni. Ed è proprio per la scelta di portare uno spettacolo del genere in un momento come questo che abbiamo voluto intervistare Mette, che ci ha gentilmente concesso il suo tempo subito prima di iniziare il suo allenamento pre-spettacolo.

[l’intervista è stata svolta in lingua inglese e successivamente tradotta e adattata]

E: Buongiorno Mette. Come prima domanda mi piacerebbe scoprire com’è nata l’idea di questo lavoro, e se è legata alla pandemia oppure se si fosse affacciata precedente. E poi se sono venuti prima i movimenti oppure la ricerca di un testo.

M: L’idea è nata prima della pandemia. Già in passato avevo lavorato in una performance “solo”: 69 positions. E mi piaceva l’idea di lavorare con la partecipazione del pubblico, coinvolgendolo senza chiederglielo direttamente o forzarlo. Ero interessata ai processi di danza sociale e pubblica, in contesti normali più che artistici. Mi spiego meglio, non mi interessava trovare l’arte e la perfezione, ma studiare una connessione relazionale tra individui che ballano. Che cosa li porta a condividere questi momenti? Perché lo fanno? Negli Stati Uniti, ad esempio, durante la Grande Depressione, sono state organizzate delle gare nelle quali la gente danzava fino allo sfinimento per vincere un premio in denaro, e il fatto che la danza fosse associata a un momento di crisi mi interessava molto.  Non sono interessata all’aspetto della competizione ma a quando i corpi sentono il bisogno collettivo di danzare per una determinata ragione. È così che mi sono imbattuta nella cosiddetta Choreomania, non ne avevo mai sentito parlare prima. Ho poi trovato un libro di un’autrice di nome Kélina Gotman, che fece una grande ricerca su questo fenomeno dal medioevo ad oggi, cercando dei collegamenti e ho deciso di partire proprio da lì per la drammaturgia di questo lavoro. Ho avuto la fortuna di poter lavorare molto durante il primo lockdown, infatti, ho un piccolo terrazzo di due metri per due (che sono anche le dimensioni delle piattaforme) in cui potevo creare vari pezzi della coreografia. Gran parte dei movimenti è nata così. Ho riflettuto su come i nostri corpi reagiscono durante un tempo di crisi e gli spazi piccoli.

E: Una volta perfezionato e rifinito, hai dovuto aspettare molto tempo prima di poter iniziare a esibirti a causa delle restrizioni?

M: Sì e no. Visto che era un assolo mi ero tenuta larga con i tempi in modo da poter lavorare con calma e sviluppare tutte le idee che avevo in mente. Purtroppo, però, una delle idee non è mai venuta a concretizzarsi, sempre a causa delle restrizioni, perché volevo lavorare con una musicista con cui ero in contatto ma non riuscivamo mai a incontrarci essendo in stati diversi. Così dopo tre tentativi, abbiamo rinunciato; anche perché io, nel frattempo, avevo lavorato con altre musiche e abbiamo deciso di tenere quelle e debuttare, finalmente. Avevo programmato di fare il debutto a settembre 2021 a Essen, in Germania, e all’epoca si erano si stava accennando a un ritorno di normalità nei teatri. Infatti, sono riuscita a far stare le persone in piedi senza posto fisso, semplicemente nel parterre, cosa che nei mesi di restrizioni piene non era ammissibile in un teatro, però le persone dovevano ancora tenere la mascherina e la capienza massima era di 80 persone, non una grande folla, cosa che invece mi sarebbe piaciuto molto avere. È stato difficile perché non si riusciva sempre mantenere la distanza. E da allora fino ad adesso, qualche volta vado in posti più piccoli, altre in locali più grossi, con mascherine o senza. Il distanziamento poi è un argomento a parte, soprattutto per questo spettacolo dove è praticamente impossibile mantenerlo, perché danzando proprio in mezzo al pubblico non è facile misurare le interazioni e soffocarle. A volte dipende anche molto dallo Stato in cui sono, e tutte queste regole sono state più un intralcio che altro.

E: A proposito di interazioni con il pubblico che ti circonda, quanta influenza ha sulla tua performance? Ci sono state delle volte in cui la folla ti chiedeva di più o delle volte in cui invece era proprio il pubblico a non darti abbastanza?

M: Ogni volta è diverso. Ieri (venerdì 29 ottobre) è stato molto bello perché c’era molta energia nella stanza, e mi ha aiutato molto perché c’era molta comunicazione e interazione tra tutti. Io sono alla ricerca della contaminazione perché nella Dancingmania c’è un corpo che inizia e poi man mano l’energia diventa contagiosa e si diffondono fino a un punto in cui gli individui non possono più fermarsi. In questa performance io parlo proprio di questo e cerco di mettere il mio corpo in quella condizione e spero che il pubblico venga contagiato. Qualche volta succede, qualche volta no, perché magari le persone sono più riservate. Anche storicamente succedeva così; nei vari casi che ho proposto nel testo a volte capitava che il contagio non avvenisse correttamente e rimanesse circoscritto. In Italia, ad esempio, c’è la tradizione della Tarantella: oramai è conosciuta come una semplice danza tradizionale ma ho letto che è nata una leggenda che narrava il morso di un ragno su delle persone che dovevano danzare per esorcizzare il dolore e curarsi. Molto spesso si dice che erano le donne a venir morse, ma ora sappiamo che il morso di un ragno non ti dà motivo di danzare, per cui quelle donne danzavano per curarsi. Una danza socialmente curativa e liberatoria. E da qui parte tutto, perché uno dei miei intenti è sempre stato quello di curare il mio pubblico dal tempo malato che abbiamo vissuto durante il Coronavirus e quindi anche quando nessuno balla con me io immagino ancora di essere morsa da un ragno e finire in uno stato di trance per trascinare tutti nel mio caos. In realtà però voi in Italia interagite molto, sia quando mi sono esibita a Roma o a Cagliari ho sempre visto molta voglia di partecipare e ballare.

S: Sì, ad esempio io l’ho visto a Cagliari, e lì il lavoro è stato rappresentato all’esterno. Quali differenze senti tra il rappresentarlo all’interno e all’esterno?

M: Questo spettacolo può essere rappresentato un po’ ovunque. Nel medioevo gli spettacoli erano fatti sui carri, che potevi posizionare facilmente dove volevi tu: in una piazza, sotto una balconata, dentro un salone. La scenografia di questo lavoro è stata concepita proprio per essere come i carri e allestita appoggiandola semplicemente a terra in un teatro, in un campo d’erba, in una piazza comunale, e devo dire che mi piace molto realizzarlo all’esterno perché prende una connotazione di spazio pubblico ma mi piace anche dentro i teatri come riferimento ai rave party che sono svolti in spazi contenuti. A volte mi concentro più sul testo, a volte più sul movimento. Quando viene fatto nei teatri la gente si concentra molto di più sul testo, anche se ieri sera non è stato così perché il registro della performance ha mutato spesso forma andando dentro e fuori ai canoni soliti del progetto sociale che segue l’energia e il progetto storico che segue di più la trama e il testo. Anche se poi alla fine, grazie alla musica, la parte storiografica si perde man mano che il testo diventa sempre più frammentato e impercettibile, e si dà molta più importanza alla musicalità della performance.

M.C: La scelta delle tre piattaforme, quindi, è legata ai carri del Medioevo oppure c’è un altro significato? Tra l’altro a volte sembrano quasi magnetiche tra di loro e soprattutto magnetiche per il pubblico che ci gira attorno come squali.

M: Sì esattamente. Le piattaforme sono un rimando ai carri dei saltimbanchi. Ovviamente al tempo ce n’era solo uno per volta ma poi mi sono immaginata una performance con un pubblico ambulante, come un mare di corpi che circolava dentro e fuori e ho pensato che fosse necessario inserire più di una piattaforma per non far solo circolare il pubblico intorno ad essa ma per rinchiudere le persone dentro uno spazio triangolare che le costringesse in qualche modo a non uscire dai confini invisibili e ammassarsi all’interno. In questo modo si crea una scenografia che include il pubblico dentro la scena. Tra l’altro, queste piattaforme ricordano anche quelle usate nei rave party in cui serve qualcosa di leggero e da costruire in fretta. Infatti, il materiale delle piattaforme deriva da scarti di materiali cittadini (ponteggi, impalcature, assi di legno), in modo tale da creare un teatro con gli scarti della città.

M.C: Ti è mai successo che qualcuno del pubblico salisse sulla piattaforma con te?

M: A volte succede, in Berlino è successo. Più che altro, salivano sulla piattaforma e si sedevano, oppure per stare in piedi e guardare dall’alto. A volte, invece, quando alla fine esco di scena, qualcuno si mette a danzare sulle piattaforme. Tuttavia è un po’ pericoloso, soprattutto nei teatri, per ragioni di sicurezza. Comunque, non mi mette affatto a disagio che qualcuno ci possa salire. Anche se in qualche modo, distrugge il centro della piattaforma. Perché è vero che è tutto incentrato sulla partecipazione, però non è solo questo. Infatti, quest’ultima non deve modificare del tutto la performance, che deve continuare ad avere una durata, dei ritmi e una musica predefiniti. La struttura c’è e non bisogna distruggerla altrimenti non si riesce a seguire l’andamento della storia e dei diversi stati emotivi che ci guidano per tutto il tempo e bisogna essere pronti a lasciarsi andare e poi recuperare il senno un attimo dopo.

S: Per quanto riguarda la musica, hai accennato prima che hai cercato di collaborare con una musicista ma che poi hai optato per altre tracce musicali; quindi, le hai scelte tutte tu o hai comunque continuato a collaborare anche se da lontano con la musicista?

M: È stato tutto una sorta di processo. La musicista con cui ho collaborato è più che altro un DJ ma è anche una pianista, così quando abbiamo iniziato a parlare io stavo già pensando di usare la musica elettronica e di fare un voice over live insieme al movimento così da avere tutto il tempo tre livelli di lettura: la musica, il testo e il corpo. E da lì siamo partiti chiederci in che modo entrare nello stato di trance e come usare la musica per riuscirci, quale ritmo scegliere ma poi quando abbiamo cercato di incontrarci, come ho detto prima, non ci siamo mai riuscite e ho iniziato a cercare cose per conto mio e scegliere canzoni che mi piacessero e da sola ho iniziato a remixare e fondere più suoni insieme, perché per fortuna so come editare, ma poi ho capito poco dopo che era troppo complicato perché non sono proprio una sound designer. Così Anne Van de Star che è con me sul palco è entrata nel progetto dato che anche lei è un’artista di musica elettronica e lei ha creato alcune musiche per me. Ad esempio, è stata lei a creare la musica del pezzo in cui ballo tra le luci rosse e anche per altre scene tipo la musica dell’epilogo. È stato un mix di diversi input. Però, dall’inizio c’era l’idea di un beat che riuscisse a portare me e il pubblico in uno stato di trance, e che mi permettesse di danzare e parlare allo stesso tempo, perché non lo avevo mai fatto.

S: Se non erro hai studiato al P.A.R.T.S. (School of Contemporary Dance in Belgio). Cosa ti porti dentro di quell’esperienza, e cosa influenza i tuoi lavori?

M: Tantissime cose, anche perché questo è un pezzo molto fisico, ed è estremamente stancante, e di sicuro il programma di allenamento che ci hanno insegnato, pieno di tutti i tipi di esercizio fisici che tu possa immaginare, ci aiuta ad affrontare al meglio questo tipo di esperienze. Ma soprattutto è anche un allenamento di tipo mentale, e a lezione ci hanno preparato anche per questo, con argomenti di filosofia e sociologia. Ci allenavamo dalle sei alle dieci ore al giorno, in maniera intensiva ma anche molto disciplinata. Ed è proprio la disciplina che ti serve in queste situazioni, quando il tuo corpo è stremato dalla fatica il tuo cervello deve ancora essere funzionante e attivo. Anche l’allenamento teatrale è un bagaglio importante. Spesso mi sentivo ridicola a lezione a cadere sulle mie ginocchia e recitare la parte della disperata, ora invece mi sento grata di aver imparato queste tecniche perché mi sono servite moltissimo, ad esempio, in questo mio ultimo lavoro. Tutti questi insegnamenti vanno, infatti, a comporre il mio allenamento pre-spettacolo.

M.C: Cosa fai per prepararti per questo spettacolo?

M: Faccio un riscaldamento vocale molto lento e lungo, perché quando abbaio e rido è difficile mantenere la voce rilassata e non rovinare le corde vocali. Poi provo alcune delle parti specifiche del testo, delle frasi, controllando i livelli della voce rispetto all’impianto audio, anche in relazione al suono e alla stanza in cui la performance si svolge. Infine, faccio un riscaldamento fisico di circa un’ora e mezza e mi preparo per andare in scena. Sono circa 3-4 ore di preparazione, ma sono necessarie per non arrivare sfiancata a fine performance.

S: Ti sei abituata alla fatica che fai nell’interpretare questo spettacolo oppure ogni volta è sempre difficile?

M: Dunque, a causa dell’interazione del pubblico non è così semplice abituarsi e imparare a controllare la forza e la stanchezza, ma soprattutto l’energia. E ogni pubblico ha un’energia diversa che si gestisce in modo diverso. Ad esempio, ieri è stato molto bello, c’era molta energia nella stanza e quindi per me è stato più facile perché l’energia che davo mi ritornava indietro e quindi circolava e dava nuova vita alle cose e alle persone. Ma a volte l’energia non c’è, per cui e io cerco di dare molto di più al pubblico per far sì che venga coinvolto, senza successo, e questo è molto stancante: perché cercare di capire le persone, sondare con chi potrei interagire e a chi dare più spazio invece è un dispendio di sforzi non previsti che indebolisce lo spettacolo. Quindi direi forse che la parte che mi impegna di più il corpo e la testa è l’attenzione calcolata che si deve dare al pubblico per riuscire a renderlo partecipe. Ma come ho detto più volte è un processo. E questo l’ho scoperto man mano. Ho già fatto questo spettacolo circa 50 volte, quindi inizio a capire come funziona il meccanismo, e c’è sempre qualcosa di nuovo che non mi aspettavo.

E: La danza spesso è associata con l’isteria, un modo per esternare un trauma ed esprimere il dolore, lo sconforto che si sta provando. Perché la danza è così efficace e quando la danza va oltre le parole, per te?

M: Non lo so… in qualche modo penso che la danza sociale abbia il potere molto forte di riuscire a sbarazzarsi dei problemi. E questo effetto è molto diverso da quando vai a seguire lezioni di danza, perché comprende l’elemento sociale, di ciò che accade in un gruppo o una comunità, ed è molto potente. Ad esempio, quando ero molto giovane danzavo in un gruppo di ballo e spesso ballavamo nelle discoteche e nei locali ed era divertente ma anche molto stancante però noi lo facevamo perché era norma farlo, o comunque era di tendenza. Così tanti livelli di limite che ognuno può sperimentare all’interno di un gruppo. Quanto ti puoi spingere oltre i tuoi limiti? Queste sono le domande che mi interessano di più. Cosa posso fare io da sola ma soprattutto cosa possiamo fare tutti noi messi insieme? Qual è il nostro limite? Ed è quello di cui parla questo lavoro, attraverso le parole e attraverso la danza in egual modo. Perché a volte le parole non sono necessarie ma servono per trasportare le persone in un certo stato mentale, come ad esempio nella prima scena di The dancing in cui è importante capire il testo per riuscire a leggere l’intero lavoro.

Erica Argiolu

Intervistatori Erica Argiolu, Matteo Chenna, Silvia Urbani

Traduttori Erica Argiolu, Matteo Chenna

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