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IL FILO DI MEZZOGIORNO – Uno spettacolo da dipanare

“- Ho quasi avuto la tentazione di dirglielo, ma non mi avrebbero creduto. – No, non si può comunicare a nessuno questa gioia piena dell’eccitazione vitale di sfidare il tempo in due, d’essere compagni nel dilatarlo, vivendolo il più intensamente possibile prima che scatti l’ora dell’ultima avventura”

(L’arte della gioia – Goliarda Sapienza)

Goliarda Sapienza: attrice, scrittrice, combattente antifascista, femminista.

Nata a Catania nel 1924 da una famiglia particolare, il padre era un famoso avvocato socialista siciliano, Peppino Sapienza, vedovo con 3 figli e la madre lombarda, Maria Giudice, anch’essa vedova con 7 figli, fu sindacalista e prima donna a dirigere la Camera del lavoro di Torino, dirigendo anche Il grido del popolo.

Queste figure così ingombranti determinarono moltissimo la vita di Goliarda, soprattutto quella della madre. Scrive Angelo Pellegrino, attore, scrittore e marito di Goliarda:

“La nobile figura di rivoluzionaria della madre la caricò però di doveri morali e ideali che aggravarono buona parte della sua vita, anche per l’amore e l’ammirazione incondizionati che Goliarda le portò sempre, nonostante il poco affetto ricevuto, che mai Goliarda le rimproverò. La sapeva donna dedita a una causa ideale che non consentiva un amore borghese verso i propri figli. […] Tutto ciò le causò una sorta di buco nero affettivo che si portò dietro per buona parte della sua vita e contro il quale cerco di combattere con tutte le sue forze fino a quando non pervenne al più grande tentativo di suicidio, quello del 1964, perchè il primo fu puramente dimostrativo, come fa dire all’analista de Il filo di mezzogiorno”.

Fu quel tentativo di suicidio che la portò ad essere ricoverata in una clinica psichiatra, destino che anni prima era toccato anche alla madre; durante quel soggiorno in clinica fu sottoposta a numerosi elettroshock. Sarà il suo compagno Citto Maselli che la porterà via a forza dalla clinica. Ma rientrata a casa Goliarda non è più la stessa, non riconosce più nulla, non ricorda più nulla di sé né di ciò che la circonda, così Citto decide di farla seguire da uno psicoterapeuta. Il filo di mezzogiorno è un romanzo autobiografico che narra la relazione che Goliarda intrecciò con il suo analista in quelle 40 sedute che tutti i giorni venivano effettuate nel salotto della sua casa di Roma a mezzogiorno.

E veniamo allo spettacolo teatrale. Come dice la stessa Ippolita di Majo che trae dal romanzo l’adattamento per lo spettacolo e affianca come assistente alla regia Mario Martone:

“Nel filo di mezzogiorno quasi tutto accade nel presente continuo del mondo interno di Goliarda, secondo un modo di raccontare e un uso della dimensione temporale che assomiglia a quella del cinema. Il luogo dell’azione è il tempo dell’analisi, un tempo fatto di mondo interno, di vivi e di morti, di fantasmi, di desideri, di emozioni segrete e alle volte indicibili. […] Sul piano della scrittura questo si traduce nella compresenza di diversi registri temporali: c’è la presente dell’analisi e quello della regressione, ma c’è anche il tempo del racconto dell’analisi al lettore, il presente della scrittura del romanzo. Nell’adattare il testo alla scena, ho immaginato che l’azione si potesse svolgere in due zone del palcoscenico che sono due ‘zone’ del mondo interno di Goliarda.”

Una è lo spazio inconscio e onirico e l’altra è il mondo esterno. Così Martone raccoglie questo input e ci restituisce sul palcoscenico due “zone” che non sono altro che il raddoppiamento speculare dello stesso luogo in rappresentanza di quel presente continuo di cui parla Ippolita di Majo. Se in quegli anni la psicanalista Luciana Niassim Momigliano definì l’analisi come “due persone che parlano in una stanza”, Martone raddoppia il concetto restituendoci 2 persone che parlano in 2 stanze. Il risultato in un primo momento è spiazzante, poi disturbante e in fine molto cerebrale e farraginoso, a tratti persino fin troppo didascalico con il suono della “rottura” del vetro/specchio che separa l’asse su cui ruota l’immagine speculare e permette ai personaggi di sconfinare liberamente in quei due mondi interiori che professionalmente e terapeuticamente avrebbero dovuto restare separati. Così anche l’analisi di sdoppia e i ruoli di paziente e medico si invertono, a tratti confondono, fino al compimento di un vero e proprio transfert e contro transfer che anziché portare a una liberazione del paziente dall’analista porta a un’insana dipendenza dell’analista verso il suo paziente.

La messa in scena perciò ha due grandi centralità. Da una parte un testo che cerca di rimanere fedele al racconto di Goliarda, ma che risulta molto lungo e faticoso, difficile da seguire nonostante l’intensa e credibile interpretazione di una splendida Donatella Finocchiaro e un altrettanto bravo Roberto De Francesco. Dall’altra parte queste due stanze gemelle, che come godessero di vita propria si muovono, avanzano, indietreggiano, si innalzano e si abbassano. Cambi di luce repentini con altrettanti rapidi cambi di abiti per sottolineare un tempo che cambia.

Ma proprio in questo cambio ci saremmo aspettati un osare maggiore, un rompere maggiormente quella linearità temporale che in realtà rimane. Perché se è vero che durante l’analisi i ricordi di Goliarda riaffiorano in maniera disordinata rispetto alla cronologia della sua vita, le sedute con il suo psicoterapeuta rimangono su un asse temporale lineare in cui vediamo chiaramente nel personaggio dello psicoterapeuta il suo arco di trasformazione cronologico che si risolve in un crescendo prima di interesse professionale e poi sempre più privato e personale verso Goliarda. La linea temporale lineare la vediamo anche in Goliarda se non in quello che racconta nei suoi dress-code. Dapprima in camicia da notte rannicchiata su di sé come un debole animaletto ferito e man mano sempre con maggiore cura e attenzione ai suoi abiti che di volta in volta, andando avanti nel processo di guarigione, verranno impreziositi da accessori a sottolineare un ritrovato tentativo di prendersi cura di sé.

Ma se la matassa da dipanare è Goliarda e le due stanze sono due zone della sua psiche, una in relazione con se stessa e l’altra in relazione con l’esterno, ci si sarebbe aspettato un maggiore spiazzamento, forse si sarebbe potuto sfruttare meglio questo “doppio” in maniera maggiormente onirica.

Sono andata a vedere lo spettacolo perché amo Goliarda Sapienza. Perché se decidi di fare uno spettacolo su di lei è perché hai avuto nella vita la fortuna di “incrociare” la sua esistenza anche solo con una frase e ne sei rimasto folgorato. Perché è questo l’effetto che fa Goliarda, lei è perturbante, sconvolgente, ti scuote dentro fin nelle viscere e ti tocca così nel profondo che la tua vita non può più essere la stessa dopo. Ma il suo capolavoro più grande resta la sua vita, fatta di grandi contraddizioni, grandi vette e terribili cadute, grandi ricchezze e feroci povertà, libertà e prigionia, misticismo e scetticismo, vitalità e oblio, ma sempre, sempre, mossa dalla passione, una passione carnale, incapace com’era di abbandonarsi totalmente all’amore a cui non era stata abituata.  

Quello che mi aspettavo di trovare quindi era uno spettacolo d’amore, uno spettacolo nato dall’amore per Goliarda che potesse suscitare nello spettatore un altrettanto reverenziale sentimento. Ma qualcosa è andato storto.

Ce lo dimostra un programma di sala che troviamo all’ingresso del teatro, 16 pagine che spiegano il progetto dello spettacolo, come se lo spettacolo da solo non fosse “sufficiente”, come se ci fosse un’inconscia consapevolezza che il “processo” che ha portato a quel risultato possa essere più interessante del prodotto finito. La promessa d’amore per Goliarda, che sicuramente traspare dalle parole di Ippolita di Majo, viene però tradita in scena.

Perché in definitiva questo è uno spettacolo sull’amore, ma è come se quelle due stanze apparentemente identiche ci raccontassero di due “amori” distinti e separati che rimangono tali anche quando sentiamo l’infrangersi di quel vetro immaginario che le separava. Da una parte abbiamo l’amore di Ippolita di Majo per Goliarda e dall’altra quella di Martone per la psicoanalisi, o meglio per la relazione psicoanalitica. Lui stesso racconta nelle note di regia un episodio personale riguardante una seduta dal suo analista e scrive che è stato forse quel ricordo che gli ha fatto scaturire l’idea di sdoppiare la stanza di Goliarda: “…non lo so, se sia stato questo episodio. Quello che so e che ho amato molto il mio analista [..] e che alla sua memoria dedico oggi questo spettacolo”.

Quindi due “amori” che vorrebbero incontrarsi e che coesistono ne Il filo di mezzogiorno forse in questo sdoppiamento restano separati, laddove il romanzo invece li amalgama in maniera struggente e poetica.

“E poi c’è una cosa che mi rassicura, una cosa che ho sperimentato molte volte nella vita: so che quelli di voi che si sono annoiati di seguire questo mio sproloquio avranno già distolto lo sguardo. Si resta sempre in pochi.”

(Lettera Aperta – Goliarda Sapienza)

Nina Margeri

di Goliarda Sapienza

adattamento Ippolita di Majo

regia Mario Martone

con Donatella Finocchiaro, Roberto De Francesco

scene Carmine Guarino

costumi Ortensia De Francesco

luci Cesare Accetta

aiuto regia Ippolita di Majo

assistente alla regia Sharon Amato

assistente scene Mauro Rea

assistente costumi e sarta Federica Del Gaudio

direttore di scena Teresa Cibelli

capo macchinista Enzo Palmieri

macchinista e attrezzista Domenico Riso

datore luci Francesco Adinolfi

fonico Paolo Vitale

elettricista Angelo Grieco

amministratrice di compagnia Chiara Cucca

foto di scena Mario Spada

Il filo di mezzogiorno è pubblicato da La nave di Teseo

Teatro di Napoli – Teatro Nazionale

Teatro Stabile di Catania

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro di Roma – Teatro Nazionale

GHIACCIO – FILIPPO DINI

“Fondamentalmente io sono un pezzo di ghiaccio”, apre così lo spettacolo il personaggio di Ralph, interpretato da Filippo Dini. Il ghiaccio in questa pièce è ovunque: si viene avvolti da un’atmosfera gelida, immobile, già dall’ingresso in platea del pubblico, quando le luci di sala sono spente e si vede solo grazie a un’illuminazione di ghiaccio che arriva dalle luci di scena.

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WHITE OUT – LA CONQUISTA DELL’INUTILE DI PIERGIORGIO MILANO

White Out è l’omaggio a tutti gli alpinisti che sono spariti, o che scelgono il rischio di sparire, nel bianco senza fine delle altezze. I conquistatori dell’inutile.”

Giovedì 31 marzo 2022 la stagione Palcoscenico Danza di TPE ha ospitato al Teatro Astra l’ultima data torinese, dopo un intenso percorso a tre anni dal debutto nazionale, di White Out – la conquista dell’inutile di Piergiorgio Milano. Ad accoglierlo il tutto esaurito in sala e un pubblico che attende frizzante l’inizio dello spettacolo. La scena, invece, all’opposto della platea, è vuota e silenziosa, ricoperta soltanto da un lieve strato di neve; un vuoto che sembra prepararsi, come a prendere la rincorsa, ad esplodere in tutta la sua affascinante forza solitaria. Durante i sessanta minuti seguenti, infatti, il pubblico verrà trasportato sulla vetta di una montagna a 7000 metri di altitudine. Non si vedrà davvero una montagna in scena, ma il freddo, il rumore del vento, una solitudine bianca e la paura, andranno ad abitare l’immensità di uno spazio senza coordinate precise, dove l’aspirazione a scalare una vetta sarà l’unico obiettivo certo. Quale sarà la forma – reale o immaginaria – di questa vetta, cambierà a seconda dello sguardo. Ma questo non è ciò che conta veramente, come non è fondamentale domandarsi chi resterà vivo, oppure no, al termine della spedizione. La lanterna che illumina questa storia di moltitudini sarà la determinazione che spinge l’uomo a tenere salda la fune, sospesa nel vuoto, per compiere gli ultimi passi di una parete invisibile, e giungere, infine, alla conquista della propria – inutile – vetta.

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LA TEMPESTA – ALESSANDRO SERRA

Dal 15 marzo fino al 3 aprile è in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri La tempesta, seconda regia e adattamento di Alessandro Serra di un’opera shakesperiana dopo Macbettu, spettacolo prodotto dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, dal Teatro di Roma – Teatro Nazionale, da ERT – Teatro Nazionale, Sardegna Teatro, in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia e Compagnia Teatropersona.

La tempesta, opera di commiato dalle scene del drammaturgo e poeta di Stratford-Upon-Avon, racconta di Prospero, duca di Milano spodestato, che con l’utilizzo della sua arte magica e con l’aiuto del fidato Ariel, spirito dell’aria, inscena una tempesta ai danni della nave su cui viaggiano il fratello Antonio, attuale duca di Milano, Alonso, re di Napoli, il loro seguito e il resto dell’equipaggio facendoli naufragare sull’isola in cui vivono l’esiliato Prospero, sua figlia Miranda e Caliban, figlio della strega Sicorax, dove i naufraghi vengono messi alla prova.

Il testo tratta e rinnova alcuni temi classici dell’opera di Shakespeare come la magia, la natura, il potere che «tutti cercano di usurpare, consolidare e innalzare» e il teatro, anche nelle sue accezioni più simboliche e metafisiche. Serra incentra il suo lavoro precipuamente su queste tematiche, costruendo una drammaturgia di immagini sceniche composte attraverso l’utilizzo di luci, nebbia, oggetti, suoni e costumi avvalendosi della simbologia dei mezzi teatrali a partire da quelli più immediati, corpo e voce, ad altri più elaborati: nella scena iniziale della tempesta, Ariel danza in armonia insieme ad un grande telo, simbolo delle acque del mar Mediterraneo, per far naufragare la nave di Alonso.

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RADIO CLANDESTINA – ASCANIO CELESTINI

Radio Clandestina è ospite del Teatro Stabile di Torino e, dopo più di vent’anni dal debutto, va in scena dal 25 al 30 gennaio al Teatro Gobetti il monologo che ha lanciato la carriera di Ascanio Celestini.

Cala il buio in sala, Celestini entra in una scena spoglia: ci sono quattro diverse lampade appese e attorcigliate ad un riquadro in ferro, una sedia di legno rossa al centro. Siamo al buio, il suo volto è parzialmente illuminato dalla luce fioca di una lampadina, e le ombre che si dipanano in forme anomale sul volto dell’attore ci fanno tornare ai racconti dell’orrore dei bambini, in cerchio, nelle sere d’estate. Anche questo potrebbe essere un racconto dell’orrore; o meglio, sarebbe più facile per noi se lo fosse.

Che cosa è successo il 24 marzo 1944?

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CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF? – ANTONIO LATELLA

Chi ha paura di Virginia Woolf? Who’s afraid of the Big Bad Wolf? Chi ha paura del lupo cattivo? Di che cosa abbiamo paura in questo spettacolo? Forse di non riconoscerci più in noi stessi, di perdere ogni riferimento. Paura di non capire, come succede ai quattro personaggi di questo dramma, di cadere in un vuoto pieno di parole che rimbombano tra loro perdendo ogni significato. Davanti a questa evenienza, i quattro personaggi che vediamo in scena, autori della loro stessa distruzione, cercano di proteggersi come possono, George con l’arroganza, Nick chiudendosi a riccio, Martha cantando e Honey ubriacandosi.

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VEDOVA DI SOCRATE. LELLA COSTA RACCOGLIE L’EREDITÀ DI FRANCA VALERI

Anni fa in tv Lella Costa con la consueta leggera, ma abrasiva ironia diceva: “Una volta il luogo comune era: dietro ogni grande uomo c’è una donna che soffre, poi con l’avvento del femminismo è diventato: dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, sempre dietro, mai accanto, dietro. Secondo me la versione contemporanea più attendibile è: dietro ogni grande uomo c’è una grande donna stupefatta.” Qualche tempo dopo fu Benedetta Barzini a sottolineare che, mentre gli uomini godono di una grande eredità di Maestri del pensiero: Socrate, Platone Aristotele… non è lo stesso per le donne. Il punto di vista femminile è recente, deve ancora farsi una storia.
Da queste considerazioni possiamo partire per raccontare La vedova di Socrate, che proprio Costa ha portato in scena al Teatro Gobetti dall’11 al 16 Gennaio. Si tratta dell’ultimo monologo di Franca Valeri, liberamente ispirato a un testo di Friedrich Dürrenmatt, La morte di Socrate. Poco prima di compiere 100 anni la matriarca del teatro italiano lascia in eredità questo testo a Lella Costa, affinché potesse tenerlo in vita, di palcoscenico in palcoscenico. Lo spettacolo ha debuttato infatti a Siracusa nel 2020 e gira ancora per l’Italia. La regia è firmata da Stefania Bonfadelli, figlia adottiva di Franca Valeri.

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SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE – VALERIO BINASCO

Con un grande rito preparato con dedizione, all’insegna dell’imponenza del teatro, Valerio Binasco torna a bussare, dopo due anni, quasi inevitabilmente, alla porta di Shakespeare. Come sempre, le produzioni di Binasco si presentano al pubblico con grande maestosità, come una gigantesca macchina che gira da sola, spinta da un demone che si diverte a giocare con attori e storie.

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INTERVISTA A PAOLO NANI

Paolo Nani, attore, regista e trainer teatrale, classe 1956. Originario di Ferrara, stabilitosi poi in Danimarca, da anni gira il mondo con i suoi spettacoli: tra i quali ricordiamo La Lettera, L’Arte di Morire e Jekyll on Ice.

A cavallo tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, Paolo Nani torna in scena a Torino, al Teatro Gobetti, proprio con il più rodato dei suoi capolavori: La Lettera. Una splendida occasione per vedere dal vivo questo attore, molto attivo anche sui canali social, e per potergli fare qualche domanda.

Organizziamo dunque un’intervista telefonica per il 23 dicembre. Mentre il telefono squilla, il registratore è pronto a fermare ogni attimo della conversazione, e l’emozione è alle stelle. Non capita tutti i giorni di avere a che fare con un attore che si è esibito in oltre 40 paesi diversi con così tanto successo. Soprattutto quando la sera precedente si ha avuto la fortuna di assistere al suo spettacolo, di cui potete trovare anche la recensione su questo blog.

Di seguito riporto la trascrizione della nostra conversazione.

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LA LETTERA – PAOLO NANI

Torna in scena al teatro Gobetti di Torino, dal 21 dicembre 2021 al 9 gennaio 2022, Paolo Nani. Quest’anno con il suo spettacolo storico La Lettera, divenuto ormai un vero e proprio classico della risata.

La trama è semplice: un uomo si siede a un tavolo, beve un sorso di vino e scrive una lettera. Dopodiché la scena si ripete, ma in mille modi diversi. L’opera è ispirata al noto libro Esercizi di stile di Raymond Queneau, uscito nel 1947.

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