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FDCT23 – LIV FERRACCHIATI / THE BABY WALK TRILOGIA SULL’IDENTITA’

Ieri sera, 1 giugno 2018, alla serata di apertura del Festival delle colline torinesi è andato in scena al Teatro Astra di Torino la trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati/ The Baby Walk in collaborazione con Lovers Film Festival.

La trilogia è strutturata in tre capitoli, non legati da un filo narrativo ma uniti tra loro dal tema dell’identità di genere: “Peter Pan guarda sotto le gonne”, “Stabat Mater”, “Un eschimese in Amazzonia”.

The Baby Walk sono: Liv Ferracchiati (regista/autore, a volte, anche in scena), Greta Cappelletti (dramaturg/autrice, a volte, anche in scena), Laura Dondi (costumista/danzatrice), Linda Caridi (attrice), Chiara Leoncini (attrice), Alice Raffaelli (attrice/danzatrice), Lucia Menegazzo (scenografa), Giacomo Marettelli Priorelli (light designer/attore), Andrea Campanella (videomaker).

Capitolo 1 “Peter Pan guarda sotto le gonne” durata 70’

Sul palco c’è il nostro Peter Pan: una bambina bionda di 11 anni e mezzo (Alice Raffaeli) che si dimena con un vestito rosa che non vuole mettere, non se lo sente addosso ma la madre insiste. Pertanto Peter è costretto ad andare con il vestito al parco a giocare a pallone, la sua passione, e viene presa in giro da Wendy (Linda Caridi) una ragazzina mora di 13 anni di cui si innamora. Ed è grazie all’amicizia con Wendy e la chiacchierata con la fata Tinker Bell(Chiara Leoncini) la fata che esiste, che Peter piano piano acquisisce la consapevolezza della sua identità. E’ un bambino in un corpo di una bambina. Comincia a ribellarsi ,infatti,  e non indosserà mai più il vestito rosa.”Peter non è esattamente una femmina ma precisamente un maschio”. Peter comincia, come se si guardasse allo specchio, una danza con sua ombra (Luciano Ariel Lanza) la guarda, la tocca. E’così che dovrebbe essere il suo corpo da grande, un ventenne con le braccia muscolose, le spalle grandi e i capelli corti. Ma Peter sa che non andrà in questo modo, ed è per questo che non vuole crescere; vuole restare così come è, non vuole che il suo corpo si modifichi, non vuole che i suoi fianchi si allarghino, che le crescano delle protuberanze morbide sul petto. I genitori, che non agiscono mai direttamente ma sono presenti solo come voci, esultano all’arrivo delle mestruazioni alla loro bambina che è finalmente diventata un signorina, mentre per Peter questo è solo il segno indelebile di un corpo che è sempre meno sotto il suo controllo. La madre è molto apprensiva ,quasi soffocante, vorrebbe evitare ciò che ha intuito ma che non vuole accettare; il padre si esprime solo attraverso definizioni da vocabolario e sembra non capire cosa sta succedendo alla sua bambina. Sostanzialmente Peter è solo con tutte le sue paure. Peter, incarna tutti quegli adolescenti transgender che si trovano totalmente soli a gestire il disagio di avere un corpo che non rispecchia la percezione di sé, un corpo che avrebbe dovuto essere diverso.“Tu non sei un bambino vero Peter e io non sono la tua Wendy” riecheggia la voce interiore.

Capitolo 2 “Stabat Mater” durata 85’

Viene raccontata la vicenda di un ragazzo di 27 anni, scrittore; vive al maschile ma ha le sembianze di una ragazza. La sua storia viene analizzata in seduta con una psicoanalista (Chiara Leoncini) ripercorrendo in flashback la storia d’amore con la sua compagna(Linda Caridi) da cui attualmente si sente sempre più distante. Un elemento centrale considerato in terapia è la sua incapacità a buttarsi: ha paura e si sente sempre in stato di inferiorità, il che è strettamente connesso a un legame edipico irrisolto con la madre. La madre, rappresentata come un volto in uno schermo, che non ha ancora metabolizzato l’identità di suo figlio, lo chiama insistentemente e il figlio risponde in qualunque momento non potendo avere in questo modo la propria intimità. Di fatto non sanno cosa dirsi, è un parlare di nulla. La mamma vuole controllare che il figlio abbia mangiato perché se ha mangiato allora vuol dire che va tutto bene, che sua figlia sta bene. La tematica del cibo attraversa tutta la trilogia, cibo come vita contrapposto alla morte. Per tutta la durata dello spettacolo si ha la sensazione di essere nella sua testa dove momenti di quotidianità si fondono a momenti di pura invenzione. Ciò è reso da una drammaturgia con un ritmo serrato in cui il linguaggio quotidiano si alterna ad un linguaggio con forti connotati emotivi; il linguaggio dell’inconscio.

 

Capitolo 3 “Un eschimese in Amazzonia” durata 65’

Quest’ultimo capitolo della trilogia dalla durata di 65 minuti tratta del difficile rapporto della persona transgender (l’eschimese) e la società (il coro). Al centro c’è l’eschimese con un cappuccio, come per proteggersi, e un microfono in mano, intorno a lui si muove il coro, lo segue, lo accerchia. Il coro,composto da 4 attori (Greta Cappelletti, Laura Donfi, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli), parla quasi sempre all’unisono con una lingua ritmata, molto spesso con accompagnamento musicale che lo rende ipnotico e pervasivo, a tratti soffocante e che si riflette in una gestualità scandita, ripetitiva. Sottopone l’eschimese ad un fuoco di fila continuo di domande ma non è realmente interessato ad ascoltare le risposte. Infatti hanno già le risposte fatte di stereotipi e luoghi comuni. Il monologo dell’eschimese, che si rifà al format della stand up comedy, è improvvisato e coinvolge il pubblico utilizzando l’ironia e la comicità per affrontare l’attualità politica ed esperienze di vita quotidiana. Oliver Hutton, l’eroe dell’infanzia diventa il simbolo del ”non arrendersi ”; infatti nonostante fosse sempre ferito alla spalla era sempre in campo e vinceva. Alla fine i fari accecano il pubblico, effetto che contribuisce a mantenere lo stato di confusione e spaesamento in cui lo spettatore è coinvolto per tutta la durata dello spettacolo, poi cala il buio e l’eschimese calcia il pallone. Il pallone apre e chiude la trilogia, un pallone che rappresenta il diverso ma allo stesso tempo la libertà.

Come è emerso dalle interviste fatte al pubblico dal progetto “nuovi sguardi”, gli spettacoli sono piaciuti molto e la tematica della ricerca dell’identità  e del conseguente disagio interiore è arrivato dritto al pubblico che si è sentito coinvolto ed emotivamente mosso.” Un turbamento emotivo”: così uno spettatore l’ha definito.

Carola Fasana

 

IL GIURAMENTO DELLA DIGNITA’

Dal 16 al 18 Febbraio il Teatro Astra ha ospitato lo spettacolo Il Giuramento, un testo di Claudio Fava con la regia di Ninni Bruschetta. La storia è ambientata in Italia nel 1931 e narra di Mario Carrara, professore di Patologia all’Università di Torino, uno dei dodici docenti che rifiutò il giuramento di fedeltà al fascismo. Mussolini lo aveva imposto per essere certo di avere pieno controllo sulla formazione, sugli  insegnamenti impartiti ai giovani, stroncando ogni possibilità di dissenso.

Lo spettacolo si apre con l’ingresso  in scena  (dalla platea) degli attori mascherati e con un mantello nero che intonano una versione rivisitata di Faccetta Nera in chiave jazz: un modo per  permettere agli spettatori di entrare nell’atmosfera in cui si ambienterà lo spettacolo; sono, infatti, molti i rimandi ai primi anni dell’epoca fascista che chiariscono il periodo storico e sociale della messinscena: il ritmo quasi martellante della marcia delle camicie nere scandisce la recitazione degli attori soprattutto in momenti di particolare tensione e alcuni allievi del professor Carrara si recano a lezione indossando la divisa del partito, muniti di regolare pugnale. Inoltre ci sono personaggi che incarnano le varie tipologie umane che si possono trovare sotto un regime: l’ufficiale austero dell’esercito che insegna ai giovani a essere forti e pronti per la guerra, i ragazzi che inneggiano al Duce sicuri che egli farà rinascere il Paese, e il Rettore dell’Università che sottolinea come l’Italia fascista abbia bisogno di muscoli e persone sane, declassando così i più deboli e i malati in un sistema a suo vedere perfetto, poiché freddo e inesorabile.

Al centro della vicenda, però, non vi è solo il contesto storico, che pure rimane  chiaro nella mente degli spettatori, non si vuole porre l’accento solo sul fatto che  il fascismo è stata  una dittatura  violenta e spietata. Al centro della vicenda, vediamo un uomo comune, con le sue manie e le sue abitudini, al quale piace il proprio lavoro, passare la propria conoscenza a giovani brillanti che saranno il futuro della società. Quest’uomo, Mario Carrara (David Coco), è sicuramente un antifascista, ma questa non è la prima cosa che viene messa in risalto, poiché egli, messo al corrente dal Rettore  che avrebbe dovuto prestare giuramento al Re e al Duce, vive una profonda crisi che non è dettata dal suo orientamento politico, ma dal fatto che prima di tutto si sente un uomo  e un medico. Il sapere, la conoscenza e la scienza non devono giurare a niente e a nessuno, non possono piegare il capo, ed è proprio per questo che Carrara non capisce perché un professore debba fare un giuramento su una materia oggettiva e totalmente slegata da qualsiasi retorica politica. Ed è qui che si scontra con l’opinione di altri: il Rettore (Simone Luglio) ha fede nel Duce, i suoi ragazzi sono stati quasi tutti ammaliati dalla promessa di valore e fama, e perfino il suo amico e collega apertamente socialista (Antonio Alveario) gli intima di giurare: perché lo faranno tutti, perché è l’unico modo per mantenere il proprio lavoro, ma soprattutto perché ormai il processo di affermazione di un totalitarismo è già iniziato e solo dall’interno si può ancora fare qualcosa. In un momento storico in cui le donne non venivano quasi considerate come esseri pensanti, sarà proprio la dolce e decisa Tilde (Stefania Ugomari di Blas), sua assistente da anni, alla quale è legato da un profondo affetto, a spingerlo a prendere una decisione. Grazie all’ultima conversazione con la donna, infatti, Carrara deciderà di congedarsi dai suoi studenti e accetterà di andare in carcere con l’unica colpa di avere avuto il coraggio di dire di no a qualcosa che riteneva profondamente ingiusto e proprio per questo con la testa alta di un uomo che con dignità si è distinto dal conformismo della società.

Dato il messaggio forte dello spettacolo, la regia ha voluto lasciare le menti degli spettatori sveglie e attente per tutta la sua durata realizzando una messinscena che non permetteva l’abbandono e l’immedesimazione: la scenografia essenziale rappresentava un aula universitaria con delle gradinate e una cattedra, aula che a seconda dei momenti poteva diventare anche un tribunale dove il professor Carrara sentiva premere su di lui il giudizio degli altri. Lo spazio teatrale era stato reso visibile in tutta la sua grandezza e potenzialità, e infatti anche le quinte erano sparite, in modo che gli attori uscendo di scena rimanessero sempre visibili al pubblico, spettatori anch’essi del dilemma interiore che si stava compiendo sul palco. Anche i pochi cambi scenografici sono stati fatti a vista  e spesso durante i dialoghi e i momenti corali si aveva un alternanza di recitazione e canto, che alla fine dello spettacolo si trasforma quasi in un canto funebre che accompagna Carrara in cella.

Molto interessante è l’uso dell’eco nei momenti più carichi di pathos, soprattutto quando il Rettore inneggia alle parole d’ordine del regime: in quei momenti è stato proprio come se quelle parole arrivassero direttamente dalle nostre coscienze, per invitarci ancora a riflettere su quello che è stato, sui gesti di uomini come Carrara, una memoria che non deve scomparire.

Degna di nota sicuramente è  la capacità degli attori di passare dal canto alla prosa senza perdere l’intensità del momento e facendo arrivare chiaramente al pubblico tutta la potenza di quello che volevano trasmettere.

Dopo lo spettacolo, ho assistito a un incontro di approfondimento con il regista Ninni Bruschetta, l’autore Claudio Fava e Tommaso De Luca, rappresentante dell’ANPI Provinciale, durante il quale è intervenuto anche il nipote di Mario Carrara, suo omonimo, presente allo spettacolo. Quest’ultimo, pur avendo apprezzato la recita, ha criticato alcuni aspetti della restituzione della figura del nonno,  primo fra tutti il fatto che non sia stata sottolineata chiaramente la posizione politica di Carrara, capostipite di una famiglia antifascista da generazioni. In risposta, l’autore ha sottolineato che il testo non voleva  raccontare che cosa fosse il fascismo, ma raccontare il coraggio di non conformarsi con la società, di rivendicare l’autonomia della ricerca scientifica. Infatti, con il suo gesto coraggioso, Mario Carrara è emblema di dignità e di dovere solo verso i propri principi scientifici. Come evidenzia poi il regista, nello spettacolo si è voluto scindere l’orientamento politico dal giudizio personale: quella di Carrara diventa un’azione eroica, poiché disgiunta dal fine; egli non pensa al risultato del suo rifiuto mentre lo compie, riesce solo a vedere con chiarezza quale sia la cosa moralmente giusta  da fare.

Concludo riportando una frase del personaggio del Rettore: “Non resterà traccia del vostro rifiuto”; i dodici nomi di chi si è rifiutato di giurare, elencati sulla via della prigione proprio da Carrara alla fine dello spettacolo, sono conosciuti e meritevoli di essere tramandati come un esempio. Gli altri 1238 professori invece non sono degni di memoria.

Alice Del Mutolo

Teatro Stabile di Catania
presenta

IL GIURAMENTO

novità assoluta di Claudio Fava
regia Ninni Bruschetta
con David Coco,
Stefania Ugomari Di Blas, Antonio Alveario, Simone Luglio, Liborio Natali,
Pietro Casano, Federico Fiorenza, Luca Iacono, Alessandro Romano
musiche originali Cettina Donato
scene e costumi Riccardo Cappello
luci Salvo Orlando

Sei Personaggi in cerca d’autore

I sei personaggi pirandelliani cercano il loro autore sul palcoscenico del Teatro Astra dal 24 al 28 Gennaio, diretti da Luca de Fusco.

Uno dei testi teatrali italiani più importanti del Novecento; un’opera, come afferma lo stesso de Fusco, “che proveniva dal futuro, anticipando i tempi in modo clamoroso”.

Per apprenderla appieno e comprendere il motore che ha spinto Pirandello a scrivere quest’opera credo sia necessario un breve excursus storico sul dramma.

A partire dall’Ottocento il sistema di valori del dramma borghese, ossia il suo essere assoluto, primario, presente e basato su rapporti intersoggettivi, va in crisi.

Con autori come Ibsen, Cechov e Strindberg, comincia a scardinarsi il modello secondo il quale un dramma per essere tale deve essere un concatenamento di azioni mosse da rapporti interpersonali che avvengono nel momento stesso in cui noi vi assistiamo.

Si comincia a riconoscere l’impossibilità di continuare a portare sulla scena drammi di questo tipo, e ad intravedere la necessità di lasciare spazio ad altri temi, come il passato, la frammentazione dell’io e l’impossibilità dei rapporti umani.

Pirandello, agli inizi del Novecento, appena dopo la fine della Prima guerra mondiale, è proprio questo che porta in scena: l’impossibilità.

Ma impossibilità di cosa?

I personaggi, entità che provengono da un altro mondo, che esistono e vivono come il loro autore li ha concepiti, “più vivi di quelli che respirano e vestono panni; meno reali forse, ma più veri” (come dice il Padre al Capocomico), costretti a vivere giorno dopo giorno il loro dramma, senza possibilità di uscirne, non possono essere rappresentati a teatro senza perdere la loro autenticità. Ogni attore interpreta un personaggio inevitabilmente a modo suo, e lo stesso spazio teatrale non permette la rappresentazione realistica dei fatti, ma è necessario mettere in atto delle convenzioni che i personaggi non accettano.

Allo stesso tempo però essi hanno bisogno di vivere il loro dramma, dal momento che esistono in relazione ad esso. Cercano un autore perchè colui che li ha concepiti (Pirandello stesso) si è rifiutato di completare l’opera dal momento in cui si è reso consapevole della sua irrappresentabilità.

Dovevano essere predestinati al romanzo, ma sono approdati al teatro, e smaniano per avere una vita artistica. Ma forse non è il teatro la forma più adatta per quello che cercano.

Questo il punto di partenza di Luca de Fusco.

Citando lo stesso regista: “la loro vicenda, così piena di ricordi, di visioni, di particolari di splendente importanza, mi ha subito fatto pensare ad una trama che si presta ad essere rappresentata più attraverso l’occhio visionario del cinema che tramite quello più concreto del teatro”.

Il lavoro del regista nasce dal pensare ai personaggi come un esperimento in rapporto con una fase iniziale dell’arte cinematografica.

Come ci racconta Gianni Garrera “i sei personaggi rinviano ad un eventualità di un cinema parlante, in un epoca in cui il cinema era ancora muto e in cui l’ipotesi avveniristica di un cinema parlante era vista come una minaccia per il teatro”.

I comportamenti dei personaggi appartengono al linguaggio cinematografico più che a quello teatrale, grazie al quale si possono udire i sottovoce, lo zoom può passare da un primo piano ad una panoramica o ad un dettaglio e ci permette di assistere ad azioni simultanee guidandoci tra i diversi luoghi senza difficoltà.

Con questo lavoro di contaminazione tra teatro e cinema de Fusco cerca di dare ai personaggi “ciò che chiedono invano al regista”.

Il video è usato per accentuare la dimensione “altra” dei personaggi, per creare gli spazi da loro richiesti e per permetterci di entrare nei loro ricordi.

Per il resto viene mantenuta l’atmosfera esplicitata dalle indicazioni di Pirandello, anche se queste non vengono rispettate alla lettera: gli attori e il capocomico entrano dalla platea, la prima attrice fa la sua entrata con un cagnolino al guinzaglio, i personaggi, molto differenziati rispetto agli attori grazie a trucco, costumi e luci (anche se non portano le maschere), non entrano dalla platea ma dal fondale del teatro che si apre “come per magia”.

La scenografia rappresenta uno spazio teatrale, più sobrio e crudele rispetto a quello che ci raccontano le didascalie dell’autore.

A completare la grande efficacia della messa in scena c’è l’interpretazione magistrale degli attori e dei personaggi, in particolare Eros Pagni e Gaia Aprea rispettivamente nel ruolo di Padre e Figliastra.

Meravigliosa e surreale l’entrata di Madama Pace (Angela Pagano), agghiacciante la scena del bordello, indisponente il silenzio del Figlio (Gianluca Musiu), emozionante l’annegamento della bambina (non un attrice ma una bambola) dietro ad uno schermo d’acqua, sorprendente lo sparo del giovinetto (Silvia Biancalana).

Immancabile il finale in cui non è più possibile distinguere i due mondi di realtà e finzione, che ci lascia, ora come nella prima rappresentazione del 1921, senza parole.

Concludo citando ancora una volta de Fusco: “Spero di indurre ad una rilettura scenica e letteraria di un testo che parla ancora oggi alla nostra coscienza contemporanea e ci invita a farci le domande più importanti e terribili sulla natura, il significato, l’essenza stessa della nostra esistenza”.

Lara Barzon

Pedigree: l’odore del biologico

Pedigree è l’ultima produzione teatrale di Babilonia Teatri, scritta da Enrico Castellano e Valeria Raimondi , in programma al Festival delle Colline Torinesi.

Lo spettacolo guarda la questione della genitorialità omosessuale raccontata dal figlio di due madri ( mamma Marta e mamma Perla), nato biologicamente da un padre donatore.

Si spengono le luci della sala del teatro Astra, rimane solo una tenue luce rossa proveniente dal palco. Questa luce si fa più netta mentre lentamente si alza il volume di Love me tender di Elvis, mentre iniziano a definirsi i contorni della scena.

 Un giovane uomo è seduto su una poltrona stile side-car Harley-Davidson. Dalle sacche laterali borchiate della “poltrona-moto” l’attore estrae quattro polli, uno alla volta; dopo averli baciati come se stesse compiendo un rituale, li infilza con cura in uno spiedo di un  girarrosto elettrico, e li mette a cucinare per la durata esatta dello spettacolo.

Il giovane, interpretato da Enrico Castellano, da quella poltrona ripercorre il suo trascorso, la sua infanzia, in un monologo dal tono accusatorio, e con lo sguardo fisso  rivolto alla platea. Si sfoga finalmente, di qualcosa rimasto irrisolto per tanti anni; si rivolge a un vecchio compagno di scuola delle elementari, Denis, a proposito del quale conserva forse l’unico ricordo di quegli anni. Denis è rimasto impresso nella sua memoria per un episodio svoltosi durante l’esecuzione di un compito a casa, un problema di aritmetica; il protagonista del problema si chiamava anche lui Denis e aveva cinque fratelli esattamente come il suo compagno, una mamma e un papà. Il problema poneva questo interrogativo: “se il papà di Denis torna a  casa per cena con quattro polli, quanti polli mangerà ogni componente della famiglia?” Tante le coincidenze tra il Denis del problema e il compagno del nostro giovane; ma non erano state queste a distrarre Denis dallo svolgimento del compito a casa.  Bensì una domanda che ingenuamente il compagno gli rivolse: “Ma tu perché non hai un papà, e hai due mamme?” Il ricordo dà il via a una lunga riflessione, che parte dal mito raccontato da Aristofane sugli ermafroditi, al quale il giovane si riferisce per cercare di spiegare che “mamma e papà”  è solo una delle possibili varianti, non l’unica. Denis da quel momento diventa l’espressione della società, che mette in crisi il perfetto – per il protagonista- nucleo familiare composto dal figlio e dalle due mamme. Con grande cura di dettagli parla delle prime esperienze sensoriali di un essere vivente, di quando ancora non conosce niente della vita e non ha ancora imparato niente. Solo certi odori, certe voci, poco per volta, iniziano a diventare familiari. Pel lui, questi odori, queste voci, sono quelli delle sue due mamme, mamma Marta e mamma Perla. Due mamme candide, benevole, materne, che vengono celebrate nel momento più magico della rappresentazione: una danza scandita dalle note di Can’t Help Folling in love with you di Elvis, danzata dal giovane Enrico con gli abiti da sposa delle due mamme che dondolano dal soffitto,  e che evocano le figure delle due donne. Una danza dolce e leggera, che tocca il cuore, ma che termina brutalmente mentre Il giovane conserva i vestiti mettendoli sottovuoto con l’aspirapolvere.

Prosegue la riflessione arrabbiata del giovane in un fluido susseguirsi di eventi che mettono in luce le incertezze, i dubbi,  le difficoltà a convivere con la parola “biologico”, unico aggettivo al quale riesce a ricondurre la figura del padre che non ha mai incontrato, una parola che per lui è diventata un incubo e che porta un significato sempre più artificiale e opprimente. Rivolgendosi al padre ammette che per lui “padre” è sempre stata una parola su cui tracciare una linea di penna e sopra la quale scrivere “mamma”; ammette prima il desiderio di voler abbracciare  suo padre e di conoscerne l’odore, e poco dopo lo supplica di poter vivere ignorando la sua figura. La ricerca del padre è quindi fortemente combattuta e complicata, un’ossessione che porta il giovane poi a diventare un donatore lui stesso, ma senza consentire al figlio – dopo i diciotto anni – di poterlo conoscere. Restando anonimo non darà dunque la possibilità che lui stesso ha ricevuto di poter conoscere i suoi “fratelli di sperma” sparsi per il mondo, nati da madri diverse ma dallo stesso padre donatore. Lui ne ha ben cinque, esattamente come Denis, il protagonista del vecchio problema: Chan di Pechino, Ben di Sidney, Conchita di Madrid, Jack di New York e Francois di Parigi, e poi c’è lui, di Roma. Sono tutti sparsi per il mondo ed è ormai da cinque anni che, attraverso il gruppo di WhatsApp di cui lui è amministratore, riesce ad incontrare i suoi fratelli per festeggiare il Natale. Quest’anno tocca a lui e tra non molto i suoi fratelli arriveranno a Roma, per trascorrere il Natale tutti insieme, e questa volta anche con mamma Marta e mamma Perla. È un momento molto importante, da sei mesi pensa al menù che avrebbe preparato per loro. Dunque si ritorna all’elemento scenico che per primo si era presentato: il girarrosto con i quattro polli in cottura, i polli di Denis,  che a questo punto sono cotti al punto giusto. Dunque la rappresentazione arriva al culmine con il giovane ragazzo che, accompagnato dalla colonna sonora di White Christmas cantata da Elvis,  stacca una coscia di pollo e se la magia tranquillamente.

Babilonia Teatri mette in scena un tema molto delicato, volendo mostrare quanto sia presuntuoso e riduttivo marcare delle linee o dei confini. Partendo dal tema dell’identità viene tracciata una storia possibile nella realtà, portata alle estreme conseguenze. “Io non sono un essere binario” ripete affannosamente il giovane ragazzo, “voglio i forse, i ma, le minoranze, le opinioni divergenti, le sfumature, le differenze, i colori”. Questo perché riguardo a svariati temi spesso si cerca di schierarsi o da una parte o dall’altra e la società stessa ci chiede di prendere una posizione, ma questo può essere riduttivo, magari da un punto di vista affettivo, come nel caso del giovane Enrico in scena. È messa quindi in scena  la necessità di affermare i propri diritti e prendere una posizione, proprio perché questi diritti spesso vengono messi in discussione; ma è altrettanto  semplicistico tagliare tutto con l’accetta. E con queste riflessioni Babilonia Teatri ringrazia il  suo pubblico, senza dare soluzione, non ne avrebbe mai avuto la pretesa; ma anzi rinforza i dubbi, e forse anche un po’ le inquietudine, intorno al tema affrontato.

Emanuela Atzeni

MASCULU E FìAMMINA: UNA CONFESSIONE GENTILE

Masculu e Fìammina è un monologo che utilizza il potere dell’immaginazione per trasportare lo spettatore nella storia di Peppino, uomo semplice di un paese imprecisato della Calabria. Basta poco. La scenografia è minimale: un cerchio di neve, una lapide innevata, la fotografia della mamma, la colonnina su cui si siede l’uomo, non prima di avervi appoggiato un cuscino bianco. Tutto è bianco e grigio. Bianca la neve, bianco il cuscino, grigie la lapide e la foto, grigi i capelli di Peppino. Un solo puntino rosso a scaldare il quadretto: la rosa che ripone con cura davanti alla lapide.

Saverio La Ruina ha scritto un testo che arriva al cuore, lo stringe, lo accarezza, lo scalda e lo solletica suscitando persino il riso tra i toni tristi e malinconici dominanti. Non mancano nemmeno slanci di gioia nei “ricordi belli a metà” che il protagonista condivide d’inverno con Nina, sulla panchina sotto le fronde degli alberi e che ripete alla mamma, nel cimitero. Il tutto è recitato con una coloritura dialettale che affonda le radici nel retroterra linguistico e culturale dell’attore-autore, comprensibile anche alle orecchie meno avvezze alle parlate del sud.

La mamma di Peppino non c’è più, ma è come se fosse presente davanti a lui col “vestito fiorato, che mette il buon umore”. La vediamo anche noi, per come lui le parla. Se la immagina in viaggio verso il paradiso, forse ormai in coda con la valigia in mano ad aspettare il suo turno per parlare con San Pietro, che vaglia all’ingresso: “Tu sì. Tu no. Tu aspetta.”
Nessuna lacrima per la madre, solo una normale, quotidiana chiacchierata che poi si trasforma in confessione. Con lei si confida, si scusa e la ringrazia. Per la prima volta le dice apertamente di essere omosessuale. E’ una liberazione. Si scusa per non aver avuto il coraggio di dirglielo prima, anche se, ne è certo, lei l’aveva già capito da tempo e mai gliel’aveva fatto pesare. La ringrazia per ciò che in vita gli ha detto, per le parole pacate che ha usato, per il rispetto che ha nutrito nei suoi confronti: il rispetto è qualcosa che si ha, non si impara a scuola – dice Peppino-Saverio – l’istruzione non c’entra, così come non c’entra l’ignoranza. Alla mamma è bastata la terza elementare per averlo.

Peppino inizia quindi a ripercorrere le tappe del difficile percorso di auto-accettazione, tramite cui ha preso coscienza della propria omosessualità, passando poi per i primi amori, le delusioni, gli insulti, l’adesione a gruppi comunisti degli anni ‘70 (come Lotta Continua o Collettivo Karl Marx) che portano in paese un’ondata di libertà, ma anche di ipocrisia, fino ad arrivare ad un Segreto ancora più grande, dalle tinte macabre, che lo consuma da anni e per cui gli “piange non solo la faccia, ma il corpo intero”.

La storia di Peppino è fatta di immagini vivide. In un flusso di coscienza Saverio La Ruina fa riaffiorare una serie di episodi che intrecciano la sua vita con quelle di altri personaggi:

Nina, l’amica uscita dalla Banda della Magliana
Gino, il primo omosessuale del paese
Enzo, il compagno di scuola dal dolce sorriso
Pina, “che è partito masculu ed è tornato fìammina
Angelo, di nome e di fatto
Alfredo, il grande amore da Treviso
Vittorio, amico schietto e provocatorio
Saro e Marietto, i travestiti fatti Santi

Alcune delle loro storie finiranno in tragedia, segnando profondamente l’animo di Peppino. Non tutto però è frutto della fantasia dell’autore. Nella Mezz’ora con l’attore (momento del Festival dedicato al confronto con gli artisti) Saverio La Ruina ci rivela che molti dei personaggi sono stati costruiti a partire da esperienze personali reali di conoscenti e da cronache.

Masculu e Fìammina, con Saverio La Ruina. Foto ©Masiar Pasquali

Dolcezza, gentilezza, rispetto, autenticità sono concetti a cui l’attore-autore sembra tenere molto e che tornano più volte nel monologo, dando vita a spunti di riflessione, come quello sulle parole. Più che le persone, sono le parole che fanno paura, sia a chi le dice, sia a chi le riceve. Omosessuale, checca, frocio, fru fru, ricchione dette con tono spregiativo sottintendono l’idea di invertito, anormale, malato, diverso dall’uomo in quanto essere umano. Così accade che per chi ama una persona dello stesso sesso sia difficile riconoscersi come tale davanti ad uno specchio, frenato da pregiudizi sociali. Peppino racconta di essere riuscito a definirsi omosessuale, nel momento in cui ha realizzato che il principio che porta ‘nu masculu ad amare ‘na guagliuna è lo stesso che porta ‘nu masculu ad amare ‘nu masculu. Ecco che allora Peppino trova istanti di libertà ed autenticità stando nudo, solo, in spiaggia dove si vedono “solo pìetre, pini e ginestre” poi “mare e cielo” e“di nuovo pìetre, pini e ginestre”.

Ma Peppino è stanco. Si convince che Angelo, di nome e di fatto, ha ragione: in un paese come il loro avrebbero dovuto aspettare almeno cent’anni perché le cose cambiassero. Ha sentito che un uomo ibernato nella neve può rimanere intatto per anni e anni, allora si siede di fianco alla tomba della madre e sullo scontrino della rosticceria scrive: “svegliatemi quando il mondo sarà un po’ più gentile”, magari un mondo in cui la parola “ricchione” vorrà dire semplicemente “uomo dalle grandi orecchie”. E aspetta, con le mani nella neve.

Alessandra Minchillo

Festival delle Colline Torinesi XXII Edizione
Teatro Astra –18 giugno 2017
Masculu e Fìammina

di Saverio La Ruina
regia Saverio La Ruina

con Saverio La Ruina
musiche originali Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia Cecilia Foti
scene Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo
disegno luci Dario De Luca e Mario Giordano
audio e luci Mario Giordano
organizzazione Settimio Pisano

produzione Scena Verticale

L’INQUILINO: Il problema sono gli “altri”

Il 19 giugno al Teatro Astra di Torino l’associazione culturale Lab 121  ha presentato al Festival delle Colline torinesi, al quale partecipa per la seconda volta, uno spettacolo tratto da L’inquilino del terzo piano, romanzo di Rolan Topor che nel ’76 è diventato il thriller psicologico  del regista Roman Polanski. Nei primi anni ’60 Roland Topor insieme a Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky fondarono il movimento-non movimento “Panico”,  definito dai tre fondatori burla suprema ai danni della cultura e al  lato troppo serio dell’arte, provocazione post-surrealista finalizzata, attraverso eventi teatrali e cinematografici scioccanti e violenti, a sconvolgere tutto, seminare il panico, liberare le energie distruttive in cerca di pace e bellezza. Si ispirava al Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud, che in un suo saggio del 1938 scrive:

“La civiltà è cultura applicata, capace di guidare anche le nostre azioni più sottili, è spirito presente nelle cose. … Un uomo è considerato civile in base al suo comportamento, ed egli pensa come si comporta”

Questa breve citazione potrebbe essere lo scrigno nel quale racchiudere il senso  de l’INQUILINO.

Il signor Trelkowski è in cerca di un appartamento a Parigi e ne trova uno abitato fino a pochi giorni prima da una ragazza, Simonetta Choule, che ha tentato il suicidio gettandosi dalla finestra di casa e si trova in ospedale fasciata dalla testa ai piedi. Trelkowski si reca a trovarla e la donna nel vederlo ha una sorta di crisi isterica. Con il decesso della donna in ospedale Trelkowski entra in possesso dell’appartamento e inizia ad essere oggetto di cattiverie da parte degli inquilini dello stabile.

Sul palcoscenico l’attore Michele Di Giacomo, nei panni dello sfortunato Trelkowski, arriverà nelle scene finali a urlare più volte vestito da donna, con tanto di tacchi e parrucca riccia: “Io non sono Simonetta Choule!”. Gli inquilini dello stabile avevano iniziato a trattarlo come se fosse appunto Simonetta Choule, finendo per cucirgli inspiegabilmente addosso l’identità della donna morta. Qui a farne le spese è solo Trelkowski, che accusato inoltre a torto dai singolari e anziani inquilini di fare baccano fino a tardi, viene condotto, tra menzogne e raggiri, alla pazzia.

Rispetto alla versione cinematografica, lo spettacolo si apre nel segno dell’ironia, sopratutto quando Trelkowski dibatte con il proprietario dell’appartamento, interpretato da Giacomo Ferraù, circa l’affitto. Ma all’ironia iniziale si unisce presto la tensione creata dal suono di piatti vibranti e al ticchettìo di un orologio, che fa presagire sin dall’inizio che qualcosa andrà storto.

Le scene sono curate e ricche di dettagli. Le luci passano da calde a fredde in relazione all’effetto emozionale che si vuole comunicare. L’utilizzo di maschere raffiguranti animali (un suino, un ratto, un rapace) creano un’atmosfera surreale e orrorifica. Il sound di Fabio Cinicola è efficace e contribuisce, con gli altri elementi, alla riuscita dello spettacolo. Memorabile è la scena in cui gli inquilini con indosso le maschere degli animali, fanno volteggiare il letto su cui è sdraiato Trelkowski, ormai in preda alla follia, e lo sospingono da una parte all’altra del palcoscenico come nel rituale di una danza diabolica. L’unica che sembra capire la situazione è Stella, amica dell’ex inquilina, che offre il suo aiuto al protagonista ospitandolo per un po’ in casa sua. Trelkowski però arriva a dubitare anche di Stella, quando nel finale  si rivolge a lui con il nome dell’amica morta.

Si assiste così al tentativo di suicidio che ricalca quello dell’inquilina precedente, e al naufragio di una mente fragile vittima delle ingiustificate angherie degli altri. Non sembra esserci scampo per i deboli, questa mi è sembrata l’amara conclusione dello spettacolo.

Alessandra Pisconti

19 giugno 2017, Teatro Astra, Torino

di Roland Topor
regia Claudio Autelli

dal romanzo L’inquilino del terzo piano di Roland Topor

adattamento Claudio Autelli
con Alice Conti, Giacomo Ferraù, Michele Di Giacomo, Marcello Mocchi
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
luci Giuliano Bottacin
suono Fabio Cinicola

produzione Lab121
coproduzione Fondazione Campania dei Festival

presentato in collaborazione con Fondazione Piemonte dal Vivo

EMILY: LA POESIA DELLA SOLITUDINE

Durante la 22^ edizione del Festival delle Colline Torinesi, è andato in scena al Teatro Astra lo spettacolo Emily di e con Milena Costanzo.

Cercando di ricreare la vita della poetessa statunitense Emily Dickinson, vengono rappresentati i turbamenti di ogni adolescente: non voler uscire di casa, non voler mangiare, fare le pulizie. Semplicemente, non voler crescere, voler rimanere bloccati in una giovinezza immortale ed eterea. Un testo a tratti commovente, divertente, inquietante che, anche se a volte sembra essere poco omogeneo, porta lo spettatore a riflettere su quali siano i doveri di ogni figlio nei confronti della famiglia, quelli della famiglia verso ogni componente di essa, e quali i doveri di ogni cittadino verso la società. Perché in fondo Emily vive in solitudine perché non si sente capita, ma nasconde una grande voglia di amare, e la sua solitudine è un po’ la solitudine che è in tutti noi. Nonostante questo, nonostante i suoi problemi, viene ripudiata dalla famiglia e considerata pazza: è vietato pronunciare il suo nome e ogni domanda su di lei viene aggirata con chiacchiere futili dalla madre e la sorella.

Emily ci mostra come uno spettacolo possa colpire anche senza l’ausilio di troppi oggetti scenografici e come l’uso intelligente delle luci e della musica possa elaborare soluzioni interessanti: fondale nero, un tavolo, tre sedie e tre lampadari usati a seconda delle esigenze. La musica, che sembra non coincidere quasi mai con la drammaticità dei momenti rappresentati, aiuta invece ad aumentare il pathos, a tenere alta l’attenzione degli spettatori e a creare, all’occorrenza, momenti divertenti, anche grazie all’abilità degli attori.

Uno spettacolo che unisce la ricostruzione della vita e delle sofferenze di una delle più sensibili poetesse vissute al ragionamento sui demoni di una società che tende a nascondere chi soffre.

Alice Del Mutolo

di Milena Costanzo
regia Milena Costanzo

con Milena Costanzo
e con Alessandra DeSantis, Rassana Gay, Alessandro Mor
assistente alla regia Chiara Senesi
costumi Elena Rossi
oggetti di scena OkkO Parma
organizzazione Antonella Miggiano

produzione Fattore K
con il sostegno di Danae Festival, Olinda

 

L’ultima performance: la vita

All’interno della stagione del TPE Teatro Piemonte Europa, Eros Pagni va in scena con Minetti di Thomas Bernhard, testo classico del teatro contemporaneo. Un magistrale attore diretto da un amico, Marco Sciaccaluga; due artisti che sono riusciti a trovare una perfetta intesa e a creare una reciproca collaborazione. Lo spettacolo prodotto dal Teatro stabile di Genova è stato in scena a Torino dal 15 al 19 febbraio.

Minetti racconta la storia di un attore ormai anziano, Bernhard Minetti appunto, che viene chiamato per interpretare uno spettacolo che segnerebbe il suo ritorno sulla scena teatrale dopo trent’anni di assenza. Minetti arriva dunque all’albergo e attende il suo amico e direttore del teatro, che gli ha dato appuntamento nella hall la notte di San Silvestro. Quest’ultimo tarda però ad arrivare; durante la lunga attesa l’attore incontra vari ospiti che alloggiano all’hotel, e racconta loro in modo ossessivo la storia della sua vita. Il suo attaccamento quasi morboso al passato si manifesta fin da subito, non solo tramite le storie che racconta, spesso ridondanti e sempre uguali, ma anche nell’atteggiamento che ha nei confronti della sua valigia. Questa, dalla quale non si allontana mai, contiene infatti un oggetto estremamente prezioso: la maschera del Re Lear. Il vecchio attore racconta con passione di come la sua  interpretazione del dramma shakespeariano lo abbia portato al successo, interpretazione però dalla quale non è più riuscito a separarsi, e lo capiamo dai racconti della sua vita quotidiana. Egli stesso afferma che ogni giorno, facendosi la barba o preparando la cena, ripete la parte per almeno venti minuti, e ogni domenica l’intera opera. Minetti spaccia questo comportamento come un “tener viva la memoria”, in realtà guardandolo da un punto di vista esterno sembra più un disperato tentativo di sentirsi ancora un attore vivo e presente sulla scena.    Continua la lettura di L’ultima performance: la vita

Una Monica al bacio

di Matteo Tamborrino

«Nacqui nei ’70 e giunsi in anni cupi,/ libero lo spirto mio com’è quello dei lupi./ Da subito in fattezze de masculo/ sentii smover, de drentro,/ l’intensa femminina forza,/ la scorza,/ ch’el tempo avrebbe trasmutato/ in delicata movenza,/ in gentile essenza de bambino/ che l’ambigua carta porta,/ ma ancor senza difesa,/ alfin non resta che la resa;/ lo pensiero dello sbaglio,/ il nascondiglio,/ la lacrima sul ciglio,/ al voler sentire che forte preme/ lo desiderio de svelar/ il sommovimento,/ lo stordimento, de scoprir la direzione/ c’agli altri par sbagliata» (da L. Fontana, Monica Bacio. Frammenti per un monologo)

Lorenzo Fontana/Monica Bacio
Lorenzo Fontana/Monica Bacio

Abbiamo sentito parlare spesso, negli ultimi mesi, di questa bionda squinternata Monica, e ora, finalmente, l’abbiamo conosciuta.

DSC7686-1024x682La creatura teatrale di Lorenzo Fontana  – ispirata a un personaggio del drammaturgo canadese Michel Marc Bouchard – è nata da un  articolato percorso creativo e ha avuto il suo  debutto  ufficiale al Teatro Astra di Torino: «Negli anni – spiega Fontana nelle note di regia – [Monica] è diventata il mio alter ego. Quando ho iniziato a scrivere questa storia, fortemente autobiografica, ho capito subito che mi serviva un tramite per raccontarla e mi è sembrato che la Bacio fosse lì apposta. Ho scritto il lamento di Monica perché credo che sia importante riconoscere il diritto di crescere diventando quello che sentiamo di essere davvero, nel modo più autentico possibile. Quando siamo piccoli c’è sempre qualcuno che pensa di sapere cosa sia giusto per noi, ma quello che è giusto per noi già lo sappiamo, abbiamo solo bisogno di essere accompagnati nel nostro viaggio di costruzione dell’identità».

Il lamento, ovvero le lacrime, di Monica Bacio è un esempio di ottima scrittura scenica.  Un prodotto, anzi no, un’opera preziosa, rara, vera. I versi accarezzano l’orecchio e giocano con la mente. È la potenza della lingua,  dell’italiano nella sua proteiforme beltà, da far andare in “brodo di giuggiole” file intere di letterati. Non è mai la parola stantìa e polverosa delle rappresentazioni da m(a)us(ol)eo. È la parola musicale di un teatro poetico, ma poetico per davvero. E non solo perché in rima.

Fontana_Manescalchi_JudicaOvviamente nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza un buon cast. In scena il collaudatissimo trio Fontana-Manescalchi-Judica Cordiglia. La pièce ripercorre varie fasi di crescita del protagonista, dall’infanzia all’età adulta, passando per l’adolescenza. Quadri che dipingono situazioni, emozioni, pensieri: la sfilata casalinga in tacchi alti, la partita di calcio, il giardinetto della foia, il bagno turco. La Creante/Manescalchi dà sostanza e azione ai Memoires di Monica/Fontana; a punzecchiare la narrazione intervengono la voce e le mani (e a un certo punto anche il corpo) di Giancarlo Judica Cordiglia, per lo più nei panni (o meglio nei volti) dei genitori.

Di fronte allo spettatore uno svettante cono fucsia adorno di toppe e finti seni, due cespugli, un pallone, una panchina, una parrucca luminescente. Il tutto racchiuso da un buio quasi onirico, da chiar di luna. Quella stessa Luna cacciatrice, con cerchietto e arco, che comparare all’inizio dello spettacolo. La scena, a dire il vero, ci coglie impreparati: forse – stando a quanto Monica aveva lasciato intendere su Internet – ci saremmo aspettati più kitsch, più esuberanza, più ostentazione. E invece no. Il gioco è sempre leggero, mai violento o invasivo. L’incanto delle ombre, poi, è particolarmente evocativo.  Si scherza sì, ma sempre con eleganza. E con il sottofondo di Mina. Non c’è mai la risata sguaiata da spogliatoio. Anche l’allegra falloforìa che a un certo punto invade il palco non è volgare. Perché dietro c’è sempre la storia di “Monica”, che non si piange addosso, ma ci aiuta a riflettere.

E quindi, Monica, tra una copertina di Vogue e il nuovo spot di Pasta Diluvio, continua a “lamentarti”!

IL LAMENTO, OVVERO LE LACRIME, DI MONICA BACIO-
(Prima Nazionale – 16/6/2016, Teatro Astra – Torino)
di Lorenzo Fontana
regia Lorenzo Fontana
con Olivia Manescalchi, Giancarlo Judica Cordiglia e Lorenzo Fontana
scene Paolo Bertuzzi
costumi Viola Verra
light designer Cristian Zucaro
sound designer Luca Vicinelli
direzione tecnica Alberto Giolitti
presentato in collaborazione con Fondazione Teatro Piemonte Europa nell’ambito di Scene d’Europa

Jerusalem: la pièce di piombo (fuso)

di Matteo Tamborrino

“Il Consiglio di sicurezza […] esorta le parti israeliana e palestinese e i loro leader a cooperare[…]. Decide di continuare a seguire con grande attenzione la questione” (da Risoluzione ONU n. 1397/2002). Questione. È un termine che raggela, soffoca, come piombo fuso. Che scende dritto nei polmoni.

Ruth Rosenthal in scena
Ruth Rosenthal in scena

Jerusalem Cast Lead (premio giuria come miglior performance all’Impatience Festival di Parigi nel 2011) è il battesimo torinese di Winter Family, duo di musica sperimentale franco-isrealiano nato dodici anni fa dall’incontro artistico tra Ruth Rosenthal e Xavier Klaine, fucina di molti spettacoli di teatro documentario, sempre proposti in spazi non convenzionali. Dopo aver fatto il giro del mondo – dall’Europa in Israele, dal Giappone in Canada – Ruth & Xavier approdano sul palco dell’Astra, con il loro “rotacistico” agitprop dai toni rochi.

Lo spa901504_518678041528409_1330654207_ozio scenico, albino, somiglia a un foglio piegato: due facce perpendicolari, con la metà verticale che – all’occasione – si trasforma in grande schermo, atto a resuscitare grandi celebrazioni di massa, canti melanconici e danze folkloristiche di un passato ancora prossimo. Figure virtuali a cui l’ombra della performer puntualmente si mescola. Quello che si coglie non è però un candore puro, immacolato, rasserenante, bensì un bianco freddo, livido, da obitorio (su cui giocano perfettamente le luci, ora abbaglianti, ora più fioche).

Quattro casse, qualche microfono, una Coca e un tramezzino. E poi file ossessive di bandiere, stelle ciano incastonate in un manto interrotto di tallèd. La Rosenthal ha un vestito scuro, casalingo, di quelli che si vedono nei documentari sulla Seconda Guerra Mondiale, mosso da un’indecifrabile fantasia; e poi trecce da bambina; e scarpe da ginnastica con la suola violetta. Questa la cromia della pièce: una “limpidezza sporca” che nasconde mostri di piombo. I mostri della storia. Il timbro sonoro è penetrante, fende i timpani; i movimenti sono geometrici, perlustrano tutto lo spazio disponibile. La protagonista si barrica sempre più dietro fragili mura simboliche. È davvero una sintesi allucinata nella sua cruda realtà, oppressiva e mai dispersiva.

Ma che cosa c’è, dentro? «In occasione dell’anniversario della formazione dello stato di Israele e della riunificazione di Gerusalemme nel 2008 – racconta il programma di sala – i Winter Family incidono a Gerusalemme il brano Jerusalem Sindrome per la radio France Culture. Ruth Rosenthal e Xavier Klaine decidono di sviluppare e approfondire questo lavoro e di creare una performance di teatro documentario: così nasce Jerusalem Cast Lead. Fra il 2009 e il 2010 Ruth e Xavier documentano le cerimonie commemorative nazionali nelle scuole, nei quartieri, in un gran numero di luoghi simbolici di Israele. In scena la stessa Ruth guiderà il pubblico in un viaggio nella società israeliana attraverso suoni, immagini e testi che celebrano il dolore, la memoria e il coraggio. I simboli di questi elementi permeano la vita quotidiana degli israeliani, che ne sono sopraffatti, quasi, come recita il sottotitolo, come vivessero sotto una dittatura emotiva».

Con codici volu541916_684599334936278_965661395_ntamente semplificatori, Winter Family cammina, o meglio saltella, sul filo sottile che separa il sionismo collettivo, fatto di tradizioni comunitarie e pillole di memoria storica (prima fra tutte la shoah, che si materializza in cinque candele che si specchiano), dagli atti esecrandi di una società che viene smascherata, senza retorica ma anche senza pietà, nelle sue manipolazioni. Si tratta di una vera cecità visiva e cognitiva. “Gli insegnanti – ripeto parafrasando – ci portavano a vedere i kibbutz. Ci dicevano soltanto che una volta avevano nomi arabi. Noi non indaghiamo oltre”.

Due elenchi risuonano nelle orecchie degli spettatori: la sequela dei bambini sterminati nei lager da un parte, i prénoms dolceamari delle operazioni militari israeliane dall’altra: Colonna di nuvola, Arca di Noè, Grappoli della collera, Piombo fuso. Oferet Yetsukah. Cast Lead. Le scritte e i sopratitoli, che leggiamo con foga e con un po’ di alienazione (per via della scomoda posizione dei due schermi), non ci possono lasciare impassibili. L’animo – alla fine – è un po’più scuro, meditabondo. Plumbeo.

 

JERUSALEM CAST LEAD. HALLUCINATORY TRIP IN AN EMOTIONAL DICTATORSHIP
di Rosenthal & Klaine
regia Rosenthal & Klaine
idea originale, registrazione, regia e progettazione Winter Family (Rosenthal & Klaine)
con Ruth Rosenthal
suono e video Xavier Klaine
disegno luci e direzione tecnica Julienne Rochereau
tecnico del suono Sébastien Tondo
voci Marilee Scott & Brian Gempp
collaborazione artistica Yael Perlman
produzione Winter Family e ESPAL du Mans
residenza creativa Ferme du Buisson e Fonderie au Mans
versione francese con sopratitoli in italiano
traduzione a cura di VIE Festival Modena