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IL SOGNO DI BOTTOM: La realtà di oggi letta con sguardo ingenuo e crudele ironia

In un mondo ormai dominato dalla televisione e dalla tecnologia, c’è ancora spazio per il teatro?

Questa è la domanda a cui lo spettacolo, messo in scena dalla fondazione TPE per la regia di Lia Tomatis, cerca di trovare una risposta.

La ricerca avviene attraverso le parole e i gesti di Rick Bottom e Peter Quince, due personaggi del Sogno di una notte di mezza estate, probabilmente la commedia più famosa di William Shakespeare.

La trama dell’opera costituisce il punto di partenza della rappresentazione; tuttavia, questa se ne discosta quasi subito per prendere una strada autonoma. Inoltre, non mancano le citazioni di altri testi del drammaturgo inglese, tra i quali Amleto, Macbeth, Riccardo III e La Tempesta.

Sono rimasto piacevolmente colpito dall’originalità con cui il testo di Shakespeare è stato riletto in scena. In una scenografia essenziale (costituita da un semplice sgabello di legno), tutto è affidato alla parola e al suo potere evocativo. Sono i personaggi a trasportarci man mano in ambienti ed epoche diverse, grazie alle loro azioni. Un ritorno alle origini del teatro, che oggi viene percepito come novità.

Questo spettacolo conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanto i testi di William Shakespeare siano straordinariamente attuali. Per quanto si possa scavare al loro interno, non si finirà mai di scoprirne nuovi aspetti e chiavi di lettura.

Sono testi attuali perché lo sono i personaggi che li popolano. Uomini e donne tormentati dagli stessi problemi e dubbi che affliggono gli spettatori, in epoca elisabettiana come in quella contemporanea.

Vorrei spendere due parole sugli attori, Gianluca Guastella (Rick Bottom) e Riccardo de Leo (Peter Quince). Essi, infatti, hanno tratteggiato due personaggi totalmente opposti tra loro, ma proprio per questo complementari l’uno all’altro, come le due metà di una sola persona.

Bottom è la metà istintiva, irrazionale, ingenua. E’ un personaggio a tratti infantile, costantemente perso nel suo mondo immaginario. Proprio per questo motivo appare come un estraneo nella nostra società.

Quando si addormenta e si ritrova in epoca contemporanea, gli sembra di vivere un incubo da cui non riesce più a svegliarsi. Il suo sguardo diventa anche il nostro, una specie di lente attraverso cui osserviamo il mondo di oggi. Una visione priva di filtri, probabilmente ancora più spietata perché sincera nell’evidenziare tutti i difetti della nostra società. Quince, invece, è la metà razionale. E’ la perfetta rappresentazione dell’uomo contemporaneo, sempre di fretta perché impegnato e costantemente attaccato al suo smartphone.

Personalmente, trovo che Guastella sia stato più efficace, rispetto a de Leo, nel restituire il proprio personaggio sul palco. Al di là della tecnica (eccellente), è riuscito ad esprimere con forza il carattere sognante e ingenuo di Bottom.

De Leo, invece, pur possedendo una buonissima base tecnica, ha fatto apparire Quince solo a tratti, il suo personaggio era “opaco”, non sempre è stato efficace nel dargli maggiore forza espressiva.

La rappresentazione si basa sullo schema del “teatro nel teatro”. A mio parere, era necessario per raggiungere lo scopo prefissato. Lo spettacolo non poteva fare altro che reggersi su questi meccanismi. Esistono molti modi per criticare il teatro, ma credo che quello più efficace sia svelarne gli ingranaggi interni, in modo da poter vedere meglio il danno e ripararlo.

La domanda sul senso del “fare teatro” oggi sembra apparentemente lasciata in sospeso al termine dello spettacolo.

In realtà la risposta viene data, ma non esplicitamente. Per capirla, è necessario prestare molta attenzione a ciò che non viene detto ma solo lasciato intendere tra le righe.

Sì, ha senso fare teatro oggi. Non solo ha senso, ma è necessario. Viviamo in un’epoca dominata dall’apparenza e dalla superficialità. Noi uomini siamo ossessionati dall’idea di dover emergere a ogni costo e con ogni mezzo, per questo andiamo di fretta e vogliamo tutto subito. All’interno di questo contesto sociale, il teatro è uno dei pochi strumenti ancora in grado di farci fermare e riflettere, producendo esattamente l’effetto opposto a quello della televisione o della tecnologia che ormai ci hanno invasi.

Con questo non intendo certo dire che il teatro sia la cura di tutti i mali. Anzi, nella maggior parte delle produzioni odierne <<c’è del marcio>> (e Il sogno di Bottom non manca certo di sottolinearlo).

La rappresentazione messa in scena dalla Tomatis non ci dice come dovrebbe essere il teatro oggi, perché preferisce mostrarcelo. La risposta è dunque implicita nella messa in scena stessa della rappresentazione. Un teatro semplice, non spettacolarizzato e con scenografie ridotte all’essenziale. Un teatro in cui gli attori possano ritrovare la loro antica e genuina capacità di evocare immagini attraverso parole e gesti, in modo da stimolare la fantasia dello spettatore e fargli aprire la mente. Un teatro che sappia anche prendere (e prendersi) in giro, ma senza mai scadere nella critica sterile e fine a sé stessa, perché in fondo il teatro è un sogno che, per un breve periodo, può farci dimenticare la realtà.

L’infantilità di Rick Bottom, che emerge a tratti e stride con l’apparente “serietà” del nostro mondo, è secondo me la chiave di lettura di tutta la rappresentazione. E’ come se il personaggio ci suggerisse di provare ogni tanto a tornare bambini, cioè di perdere tempo a guardare anche le cose più insignificanti con curiosità e andare oltre le apparenze.

In fondo, come dice Bottom stesso nello spettacolo, citando Macbeth: <<La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e si pavoneggia per un’ora sulla scena e poi non si presenta più>>, quindi non va presa troppo sul serio.

Shakespeare lo aveva capito, ma noi lo abbiamo dimenticato.

Sirio Alessio Giuliani

Turbolenze di emozioni in Raffiche

 

Non capita spesso di sentirsi direttamente trasportati in un presente così sensibilmente vivo, quasi tangibile e assolutamente reale da sentirsi fisicamente in un altro luogo e in un altro tempo.

Tutto è iniziato in medias res al “Le Petit Hotel” di Torino, il pubblico si trovava nella sala d’attesa dell’albergo quando una delle sette gangster, abbracciando un mitra con aria violenta e seducente, compare per invitare una parte dei presenti ad entrare nell’ascensore e, automaticamente, a rendersi partecipe del crimine.

Ci ritroviamo così in una delle camere dello “Splendid’s Hotel”, nome dello stesso testo teatrale di Jeane Genet che ha trovato nella regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò una reinterpretazione originale e accattivante.

I complici vengono fatti accomodare e udendo dalla radio in scena, sempre accesa quasi da essere centrale nella storia, alternando notizie a musiche-colonna sonora, i comunicati stampa che le Raffiche inviano ai giornali-radio, comprendono di trovarsi intrappolati e accerchiati dalla polizia che da tempo cerca di identificare e catturare il gruppo di rivoltose.

Le Raffiche si presentano infatti come un gruppo di creature eleganti di non genere, o di donne in vesti da uomo o forse ancora come uomini in corpi di donne contro gli stereotipi, i divieti e le imposizioni di una società opprimente a cui non ci si deve adeguare mai,a costo di morire. Sono un gruppo di sovversive che ha scelto di non identificarsi in favore della libertà dagli schemi di genere e di ruolo.

Nella stanza è presente il cadavere di una ragazza che le Raffiche hanno precedentemente reso ostaggio e che ora, per temporeggiare, spacciano per viva alla polizia, ma c’è anche una poliziotta (Federica Fracassi) complice del misfatto che smaniosa di avventura, decide di unirsi al gruppo di latitanti.

Si scatena così una vicenda mozzafiato che riesce a rendere permanente nello spettatore uno stato di agitazione, una suspance continua che crea un attenzione tanto forte da essere turbinosa, dove dialoghi taglienti si alternano a momenti di puro erotismo di cui Jean (Silvia Calderoni), capo del gruppo, è elemento scatenante.

La regia Motus (nome della compagnia) riesce, in questa occasione, ad afferrare il tempo per dominarlo attraverso una partitura scenica completamente coreografata, dove anche il silenzio delle attrici ha un suo ritmo particolare e trova sfogo in uno spazio gestuale molto coinvolgente. Ottima è stata anche la scelta delle musiche-colonna sonora, perfette per confermare l’intimità del luogo, e che ben esprimono l’interiorità violenta e seducente delle Raffiche.

Arrivando al finale, Jean sarà fisicamente costretta dalle compagne ad indossare vesti femminili, o meglio a travestirsi, per fingersi l’ostaggio già morto e mostrarsi al pubblico di poliziotti che attendono una nuovo colpo di scena da parte delle sovversive, fuori dall’edificio, in un esterno che noi spettatori non vediamo ma sentiamo interagire con le rivoltose. Jean muore per un colpo di pistola e come se nulla fosse mai successo il suo corpo rimarrà fuori sul balcone mentre Pierrot (Ondina Quadri), personaggio che si occupava della propaganda dei messaggi rivoluzionari attraverso scritte sul proprio corpo, in grave crisi di astinenza da droghe, perde il controllo premendo, pochi minuti dopo, il grilletto della sua pistola per togliersi la vita, avendo ormai tutte perso l’identità di gruppo.

Uno spettacolo davvero emozionante che ha creato una “turbolenza di emozioni” quasi mai scontate per il teatro dei nostri tempi e che non per nulla ha ottenuto il tutto esaurito dopo pochi giorni dall’apertura del “Festival delle Colline Torinesi”, contesto in cui è stato sapientemente inserito.

 

MASCULU E FìAMMINA: UNA CONFESSIONE GENTILE

Masculu e Fìammina è un monologo che utilizza il potere dell’immaginazione per trasportare lo spettatore nella storia di Peppino, uomo semplice di un paese imprecisato della Calabria. Basta poco. La scenografia è minimale: un cerchio di neve, una lapide innevata, la fotografia della mamma, la colonnina su cui si siede l’uomo, non prima di avervi appoggiato un cuscino bianco. Tutto è bianco e grigio. Bianca la neve, bianco il cuscino, grigie la lapide e la foto, grigi i capelli di Peppino. Un solo puntino rosso a scaldare il quadretto: la rosa che ripone con cura davanti alla lapide.

Saverio La Ruina ha scritto un testo che arriva al cuore, lo stringe, lo accarezza, lo scalda e lo solletica suscitando persino il riso tra i toni tristi e malinconici dominanti. Non mancano nemmeno slanci di gioia nei “ricordi belli a metà” che il protagonista condivide d’inverno con Nina, sulla panchina sotto le fronde degli alberi e che ripete alla mamma, nel cimitero. Il tutto è recitato con una coloritura dialettale che affonda le radici nel retroterra linguistico e culturale dell’attore-autore, comprensibile anche alle orecchie meno avvezze alle parlate del sud.

La mamma di Peppino non c’è più, ma è come se fosse presente davanti a lui col “vestito fiorato, che mette il buon umore”. La vediamo anche noi, per come lui le parla. Se la immagina in viaggio verso il paradiso, forse ormai in coda con la valigia in mano ad aspettare il suo turno per parlare con San Pietro, che vaglia all’ingresso: “Tu sì. Tu no. Tu aspetta.”
Nessuna lacrima per la madre, solo una normale, quotidiana chiacchierata che poi si trasforma in confessione. Con lei si confida, si scusa e la ringrazia. Per la prima volta le dice apertamente di essere omosessuale. E’ una liberazione. Si scusa per non aver avuto il coraggio di dirglielo prima, anche se, ne è certo, lei l’aveva già capito da tempo e mai gliel’aveva fatto pesare. La ringrazia per ciò che in vita gli ha detto, per le parole pacate che ha usato, per il rispetto che ha nutrito nei suoi confronti: il rispetto è qualcosa che si ha, non si impara a scuola – dice Peppino-Saverio – l’istruzione non c’entra, così come non c’entra l’ignoranza. Alla mamma è bastata la terza elementare per averlo.

Peppino inizia quindi a ripercorrere le tappe del difficile percorso di auto-accettazione, tramite cui ha preso coscienza della propria omosessualità, passando poi per i primi amori, le delusioni, gli insulti, l’adesione a gruppi comunisti degli anni ‘70 (come Lotta Continua o Collettivo Karl Marx) che portano in paese un’ondata di libertà, ma anche di ipocrisia, fino ad arrivare ad un Segreto ancora più grande, dalle tinte macabre, che lo consuma da anni e per cui gli “piange non solo la faccia, ma il corpo intero”.

La storia di Peppino è fatta di immagini vivide. In un flusso di coscienza Saverio La Ruina fa riaffiorare una serie di episodi che intrecciano la sua vita con quelle di altri personaggi:

Nina, l’amica uscita dalla Banda della Magliana
Gino, il primo omosessuale del paese
Enzo, il compagno di scuola dal dolce sorriso
Pina, “che è partito masculu ed è tornato fìammina
Angelo, di nome e di fatto
Alfredo, il grande amore da Treviso
Vittorio, amico schietto e provocatorio
Saro e Marietto, i travestiti fatti Santi

Alcune delle loro storie finiranno in tragedia, segnando profondamente l’animo di Peppino. Non tutto però è frutto della fantasia dell’autore. Nella Mezz’ora con l’attore (momento del Festival dedicato al confronto con gli artisti) Saverio La Ruina ci rivela che molti dei personaggi sono stati costruiti a partire da esperienze personali reali di conoscenti e da cronache.

Masculu e Fìammina, con Saverio La Ruina. Foto ©Masiar Pasquali

Dolcezza, gentilezza, rispetto, autenticità sono concetti a cui l’attore-autore sembra tenere molto e che tornano più volte nel monologo, dando vita a spunti di riflessione, come quello sulle parole. Più che le persone, sono le parole che fanno paura, sia a chi le dice, sia a chi le riceve. Omosessuale, checca, frocio, fru fru, ricchione dette con tono spregiativo sottintendono l’idea di invertito, anormale, malato, diverso dall’uomo in quanto essere umano. Così accade che per chi ama una persona dello stesso sesso sia difficile riconoscersi come tale davanti ad uno specchio, frenato da pregiudizi sociali. Peppino racconta di essere riuscito a definirsi omosessuale, nel momento in cui ha realizzato che il principio che porta ‘nu masculu ad amare ‘na guagliuna è lo stesso che porta ‘nu masculu ad amare ‘nu masculu. Ecco che allora Peppino trova istanti di libertà ed autenticità stando nudo, solo, in spiaggia dove si vedono “solo pìetre, pini e ginestre” poi “mare e cielo” e“di nuovo pìetre, pini e ginestre”.

Ma Peppino è stanco. Si convince che Angelo, di nome e di fatto, ha ragione: in un paese come il loro avrebbero dovuto aspettare almeno cent’anni perché le cose cambiassero. Ha sentito che un uomo ibernato nella neve può rimanere intatto per anni e anni, allora si siede di fianco alla tomba della madre e sullo scontrino della rosticceria scrive: “svegliatemi quando il mondo sarà un po’ più gentile”, magari un mondo in cui la parola “ricchione” vorrà dire semplicemente “uomo dalle grandi orecchie”. E aspetta, con le mani nella neve.

Alessandra Minchillo

Festival delle Colline Torinesi XXII Edizione
Teatro Astra –18 giugno 2017
Masculu e Fìammina

di Saverio La Ruina
regia Saverio La Ruina

con Saverio La Ruina
musiche originali Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia Cecilia Foti
scene Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo
disegno luci Dario De Luca e Mario Giordano
audio e luci Mario Giordano
organizzazione Settimio Pisano

produzione Scena Verticale

L’INQUILINO: Il problema sono gli “altri”

Il 19 giugno al Teatro Astra di Torino l’associazione culturale Lab 121  ha presentato al Festival delle Colline torinesi, al quale partecipa per la seconda volta, uno spettacolo tratto da L’inquilino del terzo piano, romanzo di Rolan Topor che nel ’76 è diventato il thriller psicologico  del regista Roman Polanski. Nei primi anni ’60 Roland Topor insieme a Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky fondarono il movimento-non movimento “Panico”,  definito dai tre fondatori burla suprema ai danni della cultura e al  lato troppo serio dell’arte, provocazione post-surrealista finalizzata, attraverso eventi teatrali e cinematografici scioccanti e violenti, a sconvolgere tutto, seminare il panico, liberare le energie distruttive in cerca di pace e bellezza. Si ispirava al Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud, che in un suo saggio del 1938 scrive:

“La civiltà è cultura applicata, capace di guidare anche le nostre azioni più sottili, è spirito presente nelle cose. … Un uomo è considerato civile in base al suo comportamento, ed egli pensa come si comporta”

Questa breve citazione potrebbe essere lo scrigno nel quale racchiudere il senso  de l’INQUILINO.

Il signor Trelkowski è in cerca di un appartamento a Parigi e ne trova uno abitato fino a pochi giorni prima da una ragazza, Simonetta Choule, che ha tentato il suicidio gettandosi dalla finestra di casa e si trova in ospedale fasciata dalla testa ai piedi. Trelkowski si reca a trovarla e la donna nel vederlo ha una sorta di crisi isterica. Con il decesso della donna in ospedale Trelkowski entra in possesso dell’appartamento e inizia ad essere oggetto di cattiverie da parte degli inquilini dello stabile.

Sul palcoscenico l’attore Michele Di Giacomo, nei panni dello sfortunato Trelkowski, arriverà nelle scene finali a urlare più volte vestito da donna, con tanto di tacchi e parrucca riccia: “Io non sono Simonetta Choule!”. Gli inquilini dello stabile avevano iniziato a trattarlo come se fosse appunto Simonetta Choule, finendo per cucirgli inspiegabilmente addosso l’identità della donna morta. Qui a farne le spese è solo Trelkowski, che accusato inoltre a torto dai singolari e anziani inquilini di fare baccano fino a tardi, viene condotto, tra menzogne e raggiri, alla pazzia.

Rispetto alla versione cinematografica, lo spettacolo si apre nel segno dell’ironia, sopratutto quando Trelkowski dibatte con il proprietario dell’appartamento, interpretato da Giacomo Ferraù, circa l’affitto. Ma all’ironia iniziale si unisce presto la tensione creata dal suono di piatti vibranti e al ticchettìo di un orologio, che fa presagire sin dall’inizio che qualcosa andrà storto.

Le scene sono curate e ricche di dettagli. Le luci passano da calde a fredde in relazione all’effetto emozionale che si vuole comunicare. L’utilizzo di maschere raffiguranti animali (un suino, un ratto, un rapace) creano un’atmosfera surreale e orrorifica. Il sound di Fabio Cinicola è efficace e contribuisce, con gli altri elementi, alla riuscita dello spettacolo. Memorabile è la scena in cui gli inquilini con indosso le maschere degli animali, fanno volteggiare il letto su cui è sdraiato Trelkowski, ormai in preda alla follia, e lo sospingono da una parte all’altra del palcoscenico come nel rituale di una danza diabolica. L’unica che sembra capire la situazione è Stella, amica dell’ex inquilina, che offre il suo aiuto al protagonista ospitandolo per un po’ in casa sua. Trelkowski però arriva a dubitare anche di Stella, quando nel finale  si rivolge a lui con il nome dell’amica morta.

Si assiste così al tentativo di suicidio che ricalca quello dell’inquilina precedente, e al naufragio di una mente fragile vittima delle ingiustificate angherie degli altri. Non sembra esserci scampo per i deboli, questa mi è sembrata l’amara conclusione dello spettacolo.

Alessandra Pisconti

19 giugno 2017, Teatro Astra, Torino

di Roland Topor
regia Claudio Autelli

dal romanzo L’inquilino del terzo piano di Roland Topor

adattamento Claudio Autelli
con Alice Conti, Giacomo Ferraù, Michele Di Giacomo, Marcello Mocchi
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
luci Giuliano Bottacin
suono Fabio Cinicola

produzione Lab121
coproduzione Fondazione Campania dei Festival

presentato in collaborazione con Fondazione Piemonte dal Vivo

Human Animal -FDCT

Debutta a Torino, all’interno del Festival Delle Colline Torinesi, lo spettacolo della compagnia La ballata dei Lenna, risultato del progetto vincitore di Hangar Creatività.

Human Animal. Se sei immune alla noia non c’è niente che tu non possa fare.” è il suo titolo. L’autore contemporaneo americano David Foster Wallace -e in particolare “Il re Pallido”, suo ultimo libro lasciato incompiuto-, è invece la fonte ispiratrice dalla quale Paola di Mitri decide di partire per la scrittura dello spettacolo. Un romanzo che affronta in particolar modo i temi della noia della quotidianità e dell’angoscia esistenziale che attanagliano l’uomo, oggi più che mai.

Se Wallace descrive la vita di un gruppo di funzionari della IRS (agenzia tributaria statunitense), e nello specifico la necessità di elaborare ed affrontare nel migliore dei modi la tediosità del loro lavoro, Paola Di Mitri trasporta la vicenda in Italia, concentrandosi sugli impiegati dell’agenzia delle entrate. Con alcuni di loro gli attori trascorrono un primo momento di ricerca, durante il quale raccolgono informazioni, suggestioni, pensieri, gesti e nevrosi, per poi passare ad una seconda fase di selezione e rielaborazione. Costruiscono a questo punto i tre personaggi cardine dello spettacolo – a tratti al di là e al di qua dello schermo in un’alternanza che integra e consegna talvolta personaggi cinematografici, talvolta teatrali -, all’interno di una performance che lascia ampio spazio –come d’altronde richiesto da Hangar- all’utilizzo delle nuove tecnologie, nonché ad una particolarissima interdisciplinarità.

La scenografia è scarna ed essenziale. Il palcoscenico non c’è. Di fronte al pubblico soltanto un piccolo spazio vuoto interrotto da uno schermo, dietro al quale talvolta si nascondono gli attori. Questi ultimi, infatti, in alcuni punti completano, danno voce e corpo al filmato, che s’interrompe, che continua muto, che lascia fuori campo un personaggio ora di fronte al pubblico, in carne ed ossa. Gli attori poi -bisogna precisare- non sono soltanto dei semplici attori, ma dei performer. Si dimenano sulle note di Je t’aime… moi non plus (Serge Gainsbourg e Jane Birkin) e cantano, oltre a recitare, per spogliarsi infine anche della loro maschera d’attore. O forse per svelarne un’altra, liberandosi ad ogni modo dal personaggio fino a quel momento interpretato.

La performance si divide infatti in due parti: durante l’ultima mezz’ora tutti si spostano nella sala accanto. Qui, su di una pedana, gli attori -pur continuando a recitare- hanno un colloquio diretto con il pubblico, che si vede (con grande timore) chiamato in causa. Giocano con gli spettatori, che – a questo punto- contribuiscono attivamente alla costruzione del senso dell’opera. Come fosse uno sguardo in macchina, quindi, i tre performer sono ora portatori dei pesanti pensieri dell’autore. Quei pensieri che, il 12 settembre dell’anno 2008, probabilmente lo spinsero al suicidio. Scelgono di dare voce e forma alle sue ultime parole, completando la parte mancante di quel libro, lasciato da Wallace -come già detto- inconcluso. E decidono di fare del finale un’esortazione alla vita. Un incitamento che ha come obiettivo quello di risvegliare ciascuno da quella condizione di assopimento e alienazione di cui troppo spesso oggi l’uomo è vittima.. ormai, purtroppo, senza più accorgersene. Cercano di far capire che il tempo passa incessantemente e che ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà piú. Che ci stiamo dimenticando dei veri valori, e del significato della bellezza, quella autentica. “Il mondo così com’è oggi è una burocrazia” scrive Wallace. Viviamo in un mondo troppo complicato. E’ vero. Ma ciò non può impedire (per lo meno non del tutto) di essere felici. Di vivere davvero. Di lasciarsi scompigliare e spettinare dalla vita, senza che questa si limiti a passarci sopra. O di fianco. Di riuscire ad intravedere quella meraviglia con cui un tempo eravamo capaci di vivere. Sarà forse più difficile, ma non impossibile. E il loro compito, oggi, è quello di darci un po’ più di coraggio. Di darci un piccolo spintone in avanti, per avvicinarci alla vita. Quella vera.

Distruggono il mondo/ In pezzi/ Distruggono il mondo/ A colpi di martello/ Ma non mi importa/ Non mi importa davvero/ Ne rimane abbastanza per me/ Ne rimane abbastanza/ Basta che io ami/ Una piuma azzurra/ Una pista di sabbia/ Un uccello pauroso/ Basta che io ami/ Un filo d’erba sottile/ Una goccia di rugiada/ Un grillo di bosco/ Possono rompere il mondo/ In frantumi/ Ne rimane abbastanza per me/ Ne rimane abbastanza/ Avrò sempre un po’ d’aria/ Un filetto di vita/ Un barlume di luce nell’occhio/ E il vento nelle ortiche (..)   (Boris Vian, ’51-‘52, Non vorrei crepare)

 

di Paola di Mitri
regia Nicola Di Chio, Paola di Mitri, Miriam Fieno

con Martin Chishimba, Paola di Mitri, Miriam Fieno
luci e visual concept Eleonora Diana
video e riprese Vieri Brini e Irene Dionisio 

produzione La Ballata dei Lenna
produzione esecutiva ACTI Teatri Indipendenti
sostegno alla produzione Hangar Creatività (Assessorato alla Cultura Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal Vivo), Zona K Milano, Factory Compagnia Transadriatica,
Principio Attivo Teatro
in collaborazione con Scuola Holden
vincitore bando Funder35
vincitore progetto Hangar Creatività

 

 

RAFFICHE di RIVOLUZIONE tra CORPI e PAROLE

I Motus non potevano mancare ad impreziosire – con la loro provocatoria presenza – la rassegna torinese che nella sua XXII edizione li vede coinvolti in qualità di ospiti per la quattordicesima volta. Intervistata da «Repubblica», Daniela Nicolò regista e co-fondatrice di Motus – racconta: «Venire al Festival delle Colline è come tornare in famiglia […] siamo stati presenti praticamente ogni anno con tutti gli spettacoli». Al Festival la compagnia avevo esordito nel 2003 proprio con Spelndid’s, spettacolo nel quale affonda le sue radici Raffiche – riscrittura dell’originale genetiano andata in scena al Petit Hotel di Torino dal 7 al 9 giugno.

L’opera di Genet, scritta nel 1948, ma pubblicata postuma nel 1993 è ambientata in un albergo dove una banda di gangster si ritrova accerchiata dalla polizia per aver preso in ostaggio una ricca ereditiera americana. Dopo il grande successo riscosso nei primi anni duemila, a muovere la compagnia riminese verso un nuovo allestimento di Splendid’s è stata l’esigenza di farne una versione tutta al femminile. Esigenza però ostacolata dall’agenzia che detiene i diritti dell’opera del drammaturgo francese che, imponendo il mantenimento integrale dei testi, non prevede cambiamenti di genere per i personaggi. Regole quasi paradossali, dal momento che tradimento e travestitismo sono nodi tematici ricorrenti nella drammaturgia dello stesso Genet.

Nasce così Raffiche – testo interamente originale, scritto da Magdalena Barile e Luca Scarlini – che si ispira alla stessa situazione narrativa di Splendid’s per sviluppare una riflessione sul superamento delle barriere identitarie e sulle dinamiche del potere. Un’operazione di questo genere non comporta la semplice assegnazione di ruoli originariamente maschili ad un cast di sole donne, ma prevede una scrittura appositamente pensata per la fisicità delle attrici che determina una risemantizzazione dell’intera vicenda.

Le identità dei personaggi genetiani migrano e si sfaldano nel dare vita alle Raffiche, un gruppo di misteriose mutanti che hanno rapito ed ucciso la scienziata di una multinazionale farmaceutica – simbolo dei dettami imposti dal potere capitalistico. Se i componenti di questo gruppo di lotta siano uomini o donne non è dato sapere. Ogni etichetta è qui presentata nella sua arbitrarietà e vacuità. Chiamatele “gender-hackers” o piuttosto “transtreghe”, come la stesso gruppo ama definirsi: streghe trans-moderne al cui cospetto tremano anche gli spettatori quando le vedono arrivare – imbracciate le armi e stereo alla mano – nella hall dell’hotel. È qui che ci si trova caricati sull’ascensore che conduce al luogo del delitto, nonché della rappresentazione teatrale, divenendone direttamente partecipi. Niente a che vedere con le fin troppo usurate velleità metateatrali. Le Raffiche, con passo severo e seducente, coinvolgono l’ignaro spettatore in uno spazio totalmente inedito e liminare in cui – in piena consonanza con la tematica genetiana dell’attraversamento del confine – non si possono più praticare distinzioni tra assediati ed assedianti, leader e gregari, vittime e carnefici.

Attraversamento del confine che non viene dunque declinato nella sola macro-accezione identitaria, ma assume anche i contorni più subdoli e sottili del tradimento. A condividere con le Raffiche la reclusione forzata c’è infatti una poliziotta volontariamente aggregatasi al gruppo del quale sembra inizialmente condividere i principi rivoluzionari, per poi rivelarsi determinante nell’arresto della banda stessa.

Un dispositivo drammatico con queste caratteristiche spinge alle estreme conseguenze la critica delle opposizioni dicotomiche alle quali non si può pretendere di ricondurre la fluidità pulsante del reale.

Non è un caso che i campi su cui le Raffiche giocano la loro battaglia investano tanto i corpi, quanto i comunicati, quindi le parole – quella ferocissima arma in grado di plasmare il reale pur senza contenerlo. E se con rivoluzione si intende il tentativo o per lo meno l’auspicio di trasformare la realtà, ogni slancio sovversivo – anche il più anarchico – dovrà venire a patti con le parole. Linguaggio fisico e linguaggio verbale rivelano così lo stesso carico di eloquenza.

Le parole – fastidiosamente infedeli, disperatamente necessarie – guidano il cambiamento e come tali hanno un forte potenziale politico. Ogni forma di potere, pur nei diversi gradi di legittimazione ed istituzionalizzazione, deve saper fare buon uso della retorica. Così Rafale a Scott:

Tu mi insegni, Scott, la grammatica è un’invenzione capitalistica patriarcale che regola e dispone i corpi del discorso secondo modelli imposti che vanno scardinati. Dobbiamo riappropriarci del discorso, ri-sessualizzare la punteggiatura.

No al punto e alla virgola, sì ai due punti e al punto e virgola. No all’assolutismo dei punti esclamativi, sì all’incognita aperta dalle X e dalle Y. Anche i morfemi di genere vengono sbugiardati in tutta la loro convenzionalità.

Come le Raffiche, che dividono la loro resistenza tra linguaggio del corpo e linguaggio verbale, così la sceneggiatura alterna serrati scambi di battute a momenti strettamente performativi. Il tutto brillantemente condotto da interpreti diverse per età e provenienza, ma accomunate da un carisma fuori dal comune.

Non solo dialoghi dunque, ma anche passi di danza, fatali attrazioni, rombanti colluttazioni, spari e suicidi… fino alla tragica disfatta. Quanto suggerito da Scott prima della resa lascia aperti interessanti spiragli di riflessione. Al machismo imperante di chi per farsi rispettare sa solamente esibire i muscoli, si deve rispondere anche scoprendo le caviglie e mostrando il volto struccato. E se il lusso dell’arrendevolezza – invocato sul finale – fosse la vera rivoluzione?

Cecilia Nicolotti

RAFFICHE

RAFALES | MACHINE (CUNT) FIRE

di Motus

regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

dedicato a Splendid’s di Jean Genet
con Silvia Calderoni (Jean), Ilenia Caleo (Rafale), Sylvia De Fanti (Bravo), Federica Fracassi (il Poliziotto), Ondina Quadri (Pierrot), Alexia Sarantopoulou (Riton), Emanuela Villagrossi (Scott), I-Chen Zuffellato (Bob)
la voce della radio Luca Scarlini e Daniela Nicolò
testi Magdalena Barile e Luca Scarlini

produzione Elisa Bartolucci e Claudia Casalini
distribuzione estera Lisa Gilardino
comunicazione Marta Lovato

produzione Motus
con Ert, Comune di Bologna
in collaborazione con Biennale Teatro, L’arboreto – Teatro Dimora Mondaino, Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza, Teatro Petrella Longiano
con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia Romagna

EMILY: LA POESIA DELLA SOLITUDINE

Durante la 22^ edizione del Festival delle Colline Torinesi, è andato in scena al Teatro Astra lo spettacolo Emily di e con Milena Costanzo.

Cercando di ricreare la vita della poetessa statunitense Emily Dickinson, vengono rappresentati i turbamenti di ogni adolescente: non voler uscire di casa, non voler mangiare, fare le pulizie. Semplicemente, non voler crescere, voler rimanere bloccati in una giovinezza immortale ed eterea. Un testo a tratti commovente, divertente, inquietante che, anche se a volte sembra essere poco omogeneo, porta lo spettatore a riflettere su quali siano i doveri di ogni figlio nei confronti della famiglia, quelli della famiglia verso ogni componente di essa, e quali i doveri di ogni cittadino verso la società. Perché in fondo Emily vive in solitudine perché non si sente capita, ma nasconde una grande voglia di amare, e la sua solitudine è un po’ la solitudine che è in tutti noi. Nonostante questo, nonostante i suoi problemi, viene ripudiata dalla famiglia e considerata pazza: è vietato pronunciare il suo nome e ogni domanda su di lei viene aggirata con chiacchiere futili dalla madre e la sorella.

Emily ci mostra come uno spettacolo possa colpire anche senza l’ausilio di troppi oggetti scenografici e come l’uso intelligente delle luci e della musica possa elaborare soluzioni interessanti: fondale nero, un tavolo, tre sedie e tre lampadari usati a seconda delle esigenze. La musica, che sembra non coincidere quasi mai con la drammaticità dei momenti rappresentati, aiuta invece ad aumentare il pathos, a tenere alta l’attenzione degli spettatori e a creare, all’occorrenza, momenti divertenti, anche grazie all’abilità degli attori.

Uno spettacolo che unisce la ricostruzione della vita e delle sofferenze di una delle più sensibili poetesse vissute al ragionamento sui demoni di una società che tende a nascondere chi soffre.

Alice Del Mutolo

di Milena Costanzo
regia Milena Costanzo

con Milena Costanzo
e con Alessandra DeSantis, Rassana Gay, Alessandro Mor
assistente alla regia Chiara Senesi
costumi Elena Rossi
oggetti di scena OkkO Parma
organizzazione Antonella Miggiano

produzione Fattore K
con il sostegno di Danae Festival, Olinda