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TARTUFO – di JEAN BELLORINI

O si dà piena approvazione alla commedia del Tartuffo, o bisognerà condannare tutte le commedie senza eccezione!

Dal 25 al 28 gennaio il Teatro Astra ospita una produzione del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale e Théâtre National Populaire de Villeurbanne per la regia di Jean Bellorini: il Tartufo di Molière, tradotto da Carlo Repetti.

La linea di programmazione del teatro torinese per la stagione 2023/2024 propone il tema della cecità, un tema in effetti presente nella commedia molierana e incarnata dal personaggio di Orgone.

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Wonder Woman

SIAMO IL GRIDO ALTISSIMO E FEROCE

DI TUTTE QUELLE DONNE

CHE PIÙ NON HANNO VOCE

Questa è la storia di una ragazza, come di altre migliaia, peruviana, giovane e ingenua, come dovrebbe essere ogni ragazza della sua età. Etichettata con il soprannome “vichingo”, per le sue forme mascoline dicono, adescata. derisa, stuprata e poi abbandonata, dagli stessi tre, forse quattro ragazzi. Non ricorda, è sola, sanguinante e lacerata, raggiunge la stazione di polizia, vuole denunciare. Altri uomini la attendono, varcata la soglia, è di nuovo etichettata, adescata, derisa, interrogata, costretta a ricordare ciò che avrebbe voluto dimenticare per sempre, poi, abbandonata.

La platea si spegne della luce di accoglienza che illuminava il teatro, una dolce musica accompagna i riflettori sopra le nostre teste che inaspettatamente si riaccendono, ricominciando ad illuminarsi di una luce pura, abbagliante che si fa sempre più intensa, sembra il sol levante, ho la sensazione che una nuova alba stia per  ergersi inesorabile  nel cielo. Passi, falcate per meglio dire, scandiscono un ritmo deciso, si percepisce un’energia viscerale e travolgente che spezza il religioso silenzio creatosi tra il pubblico curioso. La vista spodesta l’udito come senso predominante, quattro paia di scarpe rosse, lucide, ci si pongono davanti, attraversando da destra tutta la platea. Quattro donne, disposte di fronte a noi, vestite di tessuti tinti di nero, mi appare in contrasto con tutta quella luce, quasi divina, questo colore sembra spiccare come simbolo di fede e lutto, di autorità e fragilità, di oblio. Non ci sono quinte, non c’è nessun palcoscenico, dei fili rossi con dei microfoni all’apice sono accuratamente disposti dinanzi alle attrici, dietro di loro invece, quasi ad una spanna dal fondale, si intravedono quelle che sembrano essere collane.  Resta tuttavia la luce, la protagonista indiscutibile ed insostituibile della scenografia, una scelta inusuale e forte. Ogni  attrice prende il suo posto, inizia il primo monologo, vengono pronunciati articoli della costituzione e raccontate storie, gridate a gran voce, l’emozione è  travolgente, vibrano le corde vocali delle donne come una viola che finalmente spicca in un concerto. Un’altra voce si intreccia alla prima, poi tutte e quattro, solidarietà e solitudine vengono veicolate perfettamente in una retorica polifonica pulita e precisa, quattro voci che ne diventano una soltanto e poi quattro di nuovo. La potenza della musica, un linguaggio senza confini, questa è la scelta di Antonio Latella e Federico Bellini, due uomini che hanno lavorato con le donne e per le donne che ora, prima di essere persone, sono super eroine, donne raccontate come “amazzoni, donne senza una mammella significa, nate da uno stupro per essere forti ed indomabili”. Lo spettacolo teatrale Wonder Woman, presentato con coraggio a Torino l’11 gennaio 2024, si immerge in una narrativa intensa e scomoda che tocca quindi tematiche cruciali della società. La vicenda rivela il lato oscuro dell’ingiustizia sociale.La scelta di affrontare tali questioni attraverso il teatro si configura come una strada importante per prevenire l’oblio collettivo e dare voce alle vittime spesso trascurate. Il regista, seguendo una tradizione educativa che risale all’Antica Grecia, trasmette un messaggio potente attraverso l’opera teatrale.

Nonostante la polifonia, la rappresentazione soffre forse di  una recitazione monodimensionale delle giovani attrici. Sebbene la storia affronti temi tragici, la mancanza di una trasformazione drammatica può lasciare lo spettatore, sia esso uomo o donna, poco coinvolto emotivamente.

La storia, sebbene tragica, potrebbe risultare più coinvolgente se drammatizzata in modo più completo. Wonder Woman si presenta come un tentativo coraggioso di affrontare questioni sociali spinose attraverso il teatro, anche se la performance avrebbe potuto beneficiare di una recitazione più vibrante e di una maggiore attenzione agli aspetti visivi.

Rosella Cutaia e Roozbeh Ranjbarian

di

Antonio Latella e Federico Bellini

Regia: Antonio Latella

Le attrici: Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti

Costumi: Simona D’Amico

Musiche e suono: Franco Visioli

Movimenti: Francesco Manetti, Isacco Venturini

Produzione: TPE – Teatro Piemonte Europa

in collaborazione con Stabilemobile

ANDREA SALUSTRI – MATERIA

Una coreografia per diverse forme di polistirolo e un umano.

A metà tra circo e magia, Andrea Salustri ci catapulta nell’affascinante mondo inesplorato di un materiale come il polistirolo, tanto leggero quanto malleabile. L’artista, vincitore dell’edizione 2018-2019 di CircusNext, apre le danze con il suo spettacolo Materia durante la prima serata della rassegna Resistere e Creare 2024, ormai alla sua decima edizione, presso il Teatro della Tosse di Genova.

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Salveremo il mondo prima dell’alba- Carrozzeria Orfeo

Possono i soldi fare la felicità? A questa domanda risponde la Carrozzeria Orfeo con Salveremo il mondo prima dell’alba, nato dalla regia di Massimiliano Setti, Ivan Zerbinati e Gabriele di Luca attore oltre che uno dei drammaturghi dello spettacolo. La pièce teatrale indaga cinque storie di cinque persone facoltose e molto conosciute che, tormentate dai loro problemi personali, si rifugiano in una clinica per riabilitazione; non una qualunque però: una clinica situata nello spazio. La scenografia è costituita da una costruzione semicircolare in legno che sembra imitare una cupola, al centro appare un oblò che mostra o nasconde la cosiddetta “grande meraviglia”, ovvero la terra. Un richiamo all’arte, a mio avviso, dal riferimento alla cupola alla visione eterea della terra, di tutto ciò che è stato quindi creato e reso incredibilmente concreto, sfidando le leggi della fisica, i confini vengono superati ma questo è possibile osservarlo solo estraniandosi dalla quotidianità per lasciarsi andare a se stessi. Uno scienziato indiano, biologo e portaborse di un uomo d’affari, esperto nel muovere le masse con la creazione di fake news, un imprenditore e il suo compagno, una coppia omosessuale fatta da numeri (l’uno) e da spirito (l’altro), infine una cantante, attivista e femminista. Ognuno di loro fugge dalla propria vita, un’esistenza infelice e irrisolta colmata da dipendenze, siano esse affettive, economiche o derivate da sostanze stupefacenti. Uno psicologo è presente nella narrazione (il Coach viene chiamato), una guida dei suoi pazienti che ha come missione divina quella di salvare le anime di chi, senza accorgersene, le ha logorate con l’inconsapevolezza, la superbia, l’invidia, la gelosia e l’egoismo. Alle estremità della costruzione semicircolare, appaiono due camere rettangolari, sempre in legno, una sauna a destra, simbolo di relax ed espiazione, ed una zona fitness a sinistra, al suo interno sono poste due biciclette, simbolo di fatica: pedalando con esse non si va da nessuna parte, la destinazione è dentro di noi. Un contesto onirico, un viaggio nella mente e nei sentimenti accompagnato da dolci musiche e da una voce femminile, quella della coscienza. Una teca è protagonista della scena, al suo interno i cinque pazienti dovranno, insieme, piantare un alberello, un piccolo baobab che raramente fa i frutti e di cui l’utilità appare inizialmente solo legata alla nascente coesione del gruppo. Chi mette un sassolino di ghiaia alla volta, chi mette la terra lentamente, chi scava il piccolo fosso per le radici, chi lo pianta effettivamente e chi lo bagna. Bisogna prendersene cura, bisogna prendersi cura della vita per farle fare i frutti, per quanto possa sembrare difficile o impossibile, la squadra impedisce l’errore, poichè a turno ci si occupa dell’alberello, così che non possa mai morire. Il linguaggio scelto per comunicare è familiare, a volte la dialettica è cruda e scurrile tuttavia è sciolta e chiara, la violenza della verbalità, accorcia ulteriormente le differenze sociali che dividono i ricchi dai poveri, già notevolmente diminuite dalla disperazione portata in scena. Tre ore di spettacolo scorrono ad una velocità impressionante, la mia curiosità nello scavare fino in fondo le storie dei personaggi è incontrollabile, in questo scenario divino e filosofico, mi pare talvolta di sentire le parole di Platone, quando parlava della caverna. Quattro uomini ed una donna, vivono all’ombra di loro stessi, circondati dalle loro paure più profonde, le reazioni ai tentativi di  trascinarli fuori dalle mura ormai fossilizzate delle loro menti, sembrano essere ataviche, deliri, violenze e autodistruzione. L’alba serve per far sorgere il sole, vicini allo spazio non la si dovrebbe neanche attendere, bisognerebbe solo aprire gli occhi e scegliere tra la luce e l’oblio: questo è il compito del Coach, tirarli fuori dalla loro caverna e farli scegliere. La narrazione è incalzate, i personaggi calzano agli attori come guanti, non  mi sento a teatro, la distanza che separa me stessa dal palcoscenico sembra non esistere, colmata dal silenzio della platea, interrotto spesso da risate: gli equivoci, l’ironia, il sarcasmo, il ridicolo, sono strumenti scelti dai drammaturghi e dai registi come mezzo di realtà, diceva infatti Madeleine L’Engle che una bella risata guarisce molte ferite, tagli che la drammaturgia di questo spettacolo riporta (dolori, disperazioni, dissolutezze, mancanze, assenze, privazioni, vuoti) alla mente di ognuno di noi, diventando, noi pubblico, soggetto stesso dell’analisi. Le scelte individuali condizionano la collettività ogni giorno, facciamo tutti parte di un grande gioco di squadra solo che ce ne siamo dimenticati; da lassù, dai cieli, come dei, i cinque personaggi assumono delle scelte e compiono azioni per se stessi soltanto, cercando di salvare disperatamente le loro vite sulla terra, preparando il terreno per quando ritorneranno; il loro egoismo però costerà la vita di tutti. I potenti, persone fragili con il potere di distruggere le vite degli altri come la propria, i potenti, persone che fuggono, lontane dal mondo e da loro stesse, nella speranza che tutto ciò che li circondi possa subire la loro stessa sorte, l’abbandono. Thanatos: Freud diceva che oltre all’eros, siamo fatti anche della più violenta voglia di farci a pezzi, l’uomo d’affari e il suo compagno scelgono l’oblio, gettandosi nel buio più profondo insieme. Il primo, affetto da una malattia degenerativa aveva vissuto gli ultimi anni della sua esistenza in preda al delirio di essere il numero uno, il lavoro era la sua ossessione, un ripiego, il successo, al suo fallimento come padre, uomo e persona.  Il suo compagno, uomo di spirito e spirituale,  aveva vissuto una vita senza scopo, non sentendosi mai all’altezza di nulla e trovando la sua occupazione nel prendersi cura dell’uomo che amava. Il personaggio del creatore di fake news aiuta in un impeto di generosità il suo servo, lo scienziato e biologo, nell’avere i campioni del DNA di specie rare o estinte, nella speranza forse, di fare la differenza, fugge alla ricerca di un riparo,  si distingue per codardia, tratto principale del suo carattere. La cantante invece non vuole fuggire, rimane su una sedia ad osservare e aspetta, forse di vedere la luce, arte. Il Coach nella sua missione di salvare il mondo da un disastro, approda su una terra la cui concatenazione di azioni non può più essere fermata, esplode e lui con essa. Rimangono nella clinica la cantante e il biologo: l’arte e la scienza, a prima vista incompatibili, devono unirsi per ricreare un mondo che ormai è scomparso. Ricominciare da capo, l’albero nella teca ha fatto i frutti, sono mele, non c’è né Dio, né il serpente, solo il frutto del peccato, Adamo ed Eva, ancora una volta. I soldi danno la felicità? No, non la danno e a quanto pare non rendono neanche liberi, la felicità sta nel prendersi cura della vita e coglierne i frutti. La mela non viene colta, la consapevolezza si fa, forse, strada nei loro cuori. Come ricomincerà la vita? E’ una domanda a cui non possiamo rispondere ma forse, l’unico modo per imparare a vivere è sbagliare. Che mordano quella mela.

Rossella Cutaia 

uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo
drammaturgia Gabriele Di Luca
con (in o.a.) Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Roberto Serpi, Massimiliano Setti, Ivan Zerbinati
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
assistente alla regia Matteo Berardinelli
consulenza filosofica Andrea Colamedici – TLON
musiche originali Massimiliano Setti
scenografia e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
creazioni video Igor Biddau
con la partecipazione video di Elsa Bossi, Sofia Ferrari e Nicoletta Ramorino
Una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione
Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto – Teatro Dimora |
La Corte Ospitale”

Wonderland


Cosa hanno in comune un corvo e una scrivania?

E’ con questo indovinello uscito direttamente dalla penna di Lewis Carroll, che si apre Wonderland al Teatro Gobetti.
Con le luci di sala ancora accese e con la divisione tra pubblico e performer non ancora netta, entriamo gradualmente all’interno della narrazione, attraverso giochi di parole che iniziano ad ingarbugliarsi.

Ph. Andrea Macchia

Sul palco non c’è nessuna Alice, siamo noi che cadiamo direttamente nella tana del Bianconiglio e ci ritroviamo in un mondo senza senso, in uno spettacolo che non ha una trama, ma dei semplici episodi che dobbiamo “riconoscere, piuttosto che comprendere”, come lo stesso Collettivo Effe tiene a precisare.

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WHISKEY E SOUBRETTE – Tedacà

Ordiniamo un drink al Le Roi Music Hall, come si usava fare nei Cafè Chantant e Cabaret alle origini del Varietà e ci lasciamo trascinare assieme ai ricordi di Bruno, il proprietario del locale ormai anziano che rivive le sue esperienze di vita personale e le rievocazioni degli spettacoli che ha ospitato sulla scena del suo music hall, partendo dagli anni Venti con Isa Bluette fino ad arrivare a Fred Buscaglione con gli anni Cinquanta.

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COPPIA APERTA QUASI SPALANCATA

Coppia aperta quasi spalancata,  questo è il titolo di uno dei più famosi spettacoli dal carattere comico riflessivo di Dario Fo e Franca Rame, che dal 1982 ad oggi ha registrato  più di 700 repliche in tutto il mondo. Viene riproposto a Torino, e non solo, prima al Teatro Stabile nel 2022 e poi, nel 2023, al Teatro Alfieri. Il 25 novembre di quest’anno, Chiara Francini e Alessandro Federico ci colpiscono e ci stupiscono con la loro interpretazione, in occasione, tra l’altro, della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il giorno non è casuale. La trama, sicuramente d’impatto ed attuale, scritta e recitata da Franca Rame, vuole denunciare il forte cambiamento di una società allora profondamente segnata da una violenza verso il genere femminile, ritenuta normale, che inizia passo dopo passo ad essere riconosciuta e trattata in quanto  tale. Franca Rame scrive questo testo in un atto di consapevolezza, come grido di indipendenza e crescita personale. Il 9 marzo 1973  fu infatti protagonista di un orribile episodio di rapimento, diventato violenza carnale e conclusosi con il suo abbandono in mezzo ad un parco da parte dei carnefici. Da donna forte quale si è dimostrata agisce nella politica così come nei teatri. A farne le veci nel 2023 sembra essere proprio Chiara Francini, in una performance che si sviluppa attentamente  in ogni suo gesto. La voce, troppo spesso spenta nella vita reale, diventa protagonista della scena, con decisissimi cambi di tonalità.  Ripetizioni, ansie e angosce si verificano in un loop interminabile, ci sentiamo anche noi in trappola, come lei, nell’amara verità che questa pièce teatrale sta violentemente ponendo dinnanzi ai nostri occhi con lo strumento, spesso crudele, della risata. Alessandro Federico non fa una performance di meno valore, anzi, l’odio e l’amarezza percepita nei suoi confronti dimostrano il suo carisma nell’interpretazione del personaggio,  tuttavia, è condannato, dallo spettacolo stesso, a scomparire dalla principale attenzione del pubblico. Gli attori parlano direttamente a noi, protagonisti più o meno coscienti della nostra stessa vita. La scenografia è costituita da un cubo centrale, le cui pareti, spostate e direzionate, costituiscono una casa, un ambiente familiare, all’interno del quale la violenza, fisica e psicologica, avviene da entrambe le parti, in una possessività sviluppata per disperazione.

 “Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti – diceva Franca Rame – È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca. Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura. Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido… Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani (Franca Rame per Vanity Fair).

Coppia aperta, quasi spalancata, solo se si tratta di uomo però, questo dice la stessa attrice nel suo personaggio: appena la donna inizia ad avvalersi delle proprie legittime libertà, ecco che l’uomo impazzisce, in preda ad istinti primordiali, in un carattere quasi primitivo. I riflettori non si pongono quindi solo su attori apprezzati e conosciuti o su coloro che prima di questi hanno esercitato questo tipo di teatro. I riflettori, chiedono al pubblico l’attenzione verso un tema che, dopo anni e molte battaglie, risulta essere ancora estremamente caldo e delicato, macchiato di un rosso acceso, lo stesso che sgorga dalle ferite di ogni donna, tagliata profondamente dalla lama della violenza. Le risate non mancano; eppure, vedere una donna, su un palco, in preda ad azioni suicide crea nel pubblico un atto di consapevolezza. Come faccio a saperlo? Davanti a me ci sono donne, che colpite da profondi ricordi si irrigidiscono ed eliminano qualsiasi contatto fisico con l’uomo al proprio fianco, altre invece, pervase da un sentimento positivo, appoggiano la propria testa sulla spalla del compagno, che con delicatezza dona un bacio, sulla fronte. I gesti parlano, così come i silenzi, ed arrivano dritti al cuore, come pugnali, armi bianche, macchiate di sangue. 

Rossella Cutaia

regia Alessandro Tedeschi
scenografia Katia Titolo
costumi Francesca di Giuliano
musiche Setti Pasino
luci Alessandro Barbieri
aiuto-regia Rachele Minelli
fonico Gianluca Meda
macchinista Raffaele Basile
foto di scena e grafica Manuela Giusto
organizzazione Marcella Santomassimo, Luisa Di Napoli
amministrazione Morena Lenti, Riccardo Rossi
produzione Infinito Teatro, Argot Produzioni

DENTRO. UNA STORIA VERA, SE VOLETE – GIULIANA MUSSO

UNA NITIDA SPORCA VERITÀ

Squilla un telefono per qualche secondo, poi una voce registrata: «Vi siete spaventati? Pensavate fosse il vostro telefono, vero? Ecco, ricordatevi di spegnerlo» e un sorriso divertito da parte di tutto il pubblico del Teatro Astra. Inizia così lo spettacolo Dentro di cui Giuliana Musso è attrice, drammaturga e regista. Un’introduzione simpatica a un esercizio teatrale che invece vedrà uscire gli spettatori tutto fuorché alleggeriti. 
Un pugno nello stomaco. Una verità che scuote.

Il palco si tinge di rosso: le sedie, l’illuminazione, il pavimento, tutto è rosso. Rosso è il simbolo della lotta alla violenza di genere, rosso il volto della rabbia provocata dall’ingiustizia, rosso è un urlo che non si censura più, che vuole farsi sentire.

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