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ELEPHANT WOMAN: LA PISTOLA DELLA FOLLIA

Un altro spettacolo del ricco programma del Festival delle Colline Torinesi 2017:  Elephant Woman, di Andrea Gattinoni con Silvia Lorenzo, in scena al Teatro Gobetti.

La scena è completamente vuota: quinte e fondale neri e una luce fissa. Nel buio sentiamo  un rumore di tacchi a spillo, poi  entra una donna con un rossetto rosso, seminuda, che inizia a parlare di sé, Topazio, e della sua amante, B. Dopo pochi minuti ci da le spalle ma,  girandosi di nuovo,  ci punta addosso una pistola: proprio questo oggetto  sarà il punto di tensione di tutto lo spettacolo, perché il pubblico non riuscirà mai a staccare gli occhi dall’arma e, proprio per la sua presenza, non abbasserà mai l’attenzione nemmeno per un secondo.

Topazio è una giovane donna che decide di abbandonare famiglia, lavoro e amicizie per vivere ai margini della legalità e per dare sfogo a ogni  pulsione. Il racconto procede con l’attrice sempre al centro della scena. Si muove lentamente e,  nonostante sia sola, non fa mai sembrare vuoto il palcoscenico. Ci cattura  con la mimica e con il corpo, con la voce suadente e con i racconti della sua vita: una vita di dolore, di abusi, di solitudine e di insicurezza.

Per tutto lo spettacolo abbiamo l’impressione di trovarci all’interno della mente un po’ malata di Topazio: i suoi racconti provengono dal buio, da un incubo, e non saremo mai sicuri della veridicità delle sue parole. Ma non è questo l’importante, non è necessario sapere se siano tutte bugie o se sia un sogno. Il testo, infatti, vuole farci riflettere sul doloroso destino di alcune donne maltrattate e poi abbandonate a loro stesse. Questo non può far altro che creare esseri umani che non distinguono più la realtà dalla finzione e finiscono per relegarsi ai margini della società.

Il perno emozionale dello spettacolo è la lettura di una lettera alla madre, che non ha mai aiutato la figlia abusata dal padre: la disperazione, il dolore e la follia che ne deriva si scatenano  come una tempesta,  amplificata dall’uso di un microfono panoramico.

L’attrice Silvia Lorenzo è stata in grado di tenere alta l’attenzione degli spettatori  per un’ora di monologo. Alla drammaticità dei racconti si sovrappongono momenti comici in cui l’attrice ripete a memoria definizioni tecniche della lingua italiana o astronomiche come se fosse una voce automatica, esterna al personaggio.

Un colpo di pistola sottolinea il termine dello spettacolo, facendo domandare a tutti gli spettatori se Topazio si sia uccisa, se abbia ucciso qualcuno, o se sia mai esistita.

Alice Del Mutolo

di Andrea Gattinoni
regia 
Andrea Gattinoni

con Silvia Lorenzo

produzione Teatro Filodrammatici, Festival delle Colline Torinesi

 

XXII Festival delle Colline Torinesi , Conferenza Stampa

Mercoledì 19 aprile presso il Goethe-Institut ha avuto luogo la conferenza stampa di presentazione della XXII edizione del Festival delle Colline Torinesi, un appuntamento da non perdere dedicato alla creazione teatrale contemporanea. Dialogano sull’argomento: Jessica Kraatz Magri, direttrice dell’Istituto Culturale della Repubblica Federale di Germania, Sergio Ariotti, direttore del Festival, Antonella Parigi, assessore della regione e Barbara Graffino (Compagnia di San Paolo).

Qui si racconta e si anticipa un’edizione tutta dedicata alla donna, che porta alla ribalta moltissime autrici (come Sasha Marianna Salzmann, Mirjana Bobic Mojsilovic, Milena Costanzo..), registe (tra le quali Paola Rota, Daniela Nicolò, Fiona Sansone, Chiara Guidi..) nonché interpreti e performer di altissima qualità. E, come se non bastasse, di una donna è anche il segno d’artista del Festival 2017: parliamo di Marisa Mertz, artista italiana di altissimo talento, per di più unica rappresentante femminile della corrente dell’Arte Povera. Ventisette sono le compagnie che presentano i loro lavori, alcuni dei quali sono in prima assoluta (altri in prima nazionale o quantomeno regionale), con nomi di spicco della creazione contemporanea. Diciannove i giorni a disposizione (4/22 giugno).
Italia, Germania, Grecia, Serbia, Somalia e Libano sono invece i Paesi ospiti da cui provengono gli spettacoli internazionali.
Segio Ariotti ha guidato i presenti nella lettura del programma, attraverso un breve ma efficace focus sugli spettacoli, raggruppabili per famiglie tematiche. Delle ventisette rappresentazioni complessive, sei presentano al centro dell’attenzione poetesse e letterate. Tra queste vanno ricordate: Lettere della notte, che vede l’incontro tra Chiara Guidi e Nelly Sachs, scrittrice e poetessa tedesca di origine ebraica, Premio Nobel 1966; L’amica geniale, che prende spunto dal notissimo ciclo di romanzi dell’autrice senza volto Elena Ferrante; Il cielo non è un fondale, un atto drammatico apparentemente “senza trama e senza finale” che prova a restituirci i continui spostamenti di senso tra quello che noi siamo e quello che ci succede intorno; Emily di e con Milena Costanzo, seconda parte del progetto su Sexton, Dickinson e Weil; Amelia la strega che ammalia and friends (dove Amelia è Amelia Rosselli) di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Corale numero uno, di e con Elena Bucci, che racconta di una singolare e sventurata eroina zingara, Bronislawa Wajs (nome d’arte Papusza), poetessa anch’essa, liberamente tratto dal testo Sputa tre volte di Davide Reviati, uno dei più interessanti autori di graphic novel internazionale.
Hanno invece a che fare con l’identità di genere, tema principe dell’edizione passata, dal quale il festival non sembra essersi ancora liberato del tutto –continua a spiegare il direttore- , lo spettacolo dei Motus, che ritornano a furor di popolo con Raffiche, reinvenzione di una pièce minore di Jean Genet, in una versione provocatoriamente al femminile; Pedigree, messa in scena di un testo inedito, firmato da Valeria Raimondi e Enrico Castellani, dedicato alle famiglie arcobaleno; 50 Grades of Shame, lo spettacolo del collettivo femminile tedesco She She Pop, appuntamento clou del cartellone 2017; Masculu e Fiammina di e con Saverio La Ruina, che interpreta un uomo che racconta se stesso e la propria identità sessuale davanti alla tomba della madre, e infine un performer greco, Euripides Laskaridis, il quale con Titans, nome dello spettacolo, propone le sue trasformazioni, cercando di comprendere perché facciamo ciò che facciamo e di cosa abbiamo realmente bisogno.
Un altro gruppo di titoli combina teatro e musica. Allora nominiamo: Abebech-Fiore che sboccia fiore che sboccia, spettacolo di Saba Anglana, cantante italo-somala, dedicato al sacro nella cultura d’Etiopia, con un personaggio meraviglioso di nonna sullo sfondo; Personale Politico Pentothal che vede in scena Marta Dalla Via, accompagnata dal vivo da cinque rapper; The black’s tales tour di Licia Lanera, al dancing neo-liberty Le Roi Music Hall, la cui architettura, particolare e suggestiva venne progettata nel ’59 dal famosissimo architetto Carlo Mollino.
Infine l’ultima famiglia tematica, che raccoglie tra gli spettacoli del cartellone quelli che presentano interessanti legami con il cinema. Tra questi: Roberta va sulla luna, Ifigenia in Cardiff, con le regia di Valter Malosti, Pixelated Revolution, So little time, Elephant woman, Zoo(m)out, ed infine il lavoro dei fratelli De Serio, Stanze/Qolalka, pronto ad anticipare il nuovo triennio dedicato alle diaspore. Un altro percorso che si completa al Festival è quello di Elvira Frosini e Daniele Timpano. I due presentano Acqua di colonia che affronta il tema del colonialismo italiano. Da non dimenticare, ovviamente, i molti giovani artisti, in relazione ai quali menzioniamo: Diario di una casalinga serba, tratto dal romanzo omonimo di Mirjana Bobic Mojsilovic, L’inquilino, Human animal, Educazione sentimentale. Un cenno finale naturalmente va alla drammaturga prescelta: Sasha Marianna Salzmann, la quale porta in scena Lingua Madre Mameloschn, il cui spettacolo fa parte del progetto Fabulamundi.Playwriting Europe della Pav di Roma ed è coprodotto dallo Stabile di Genova.

Ma il festival non si riduce al cartellone. Al contrario, porta con sé interessanti appuntamenti, approfondimenti ed esposizioni, che arricchiscono e coronano l’appuntamento torinese. Prosegue il progetto “Mezz’ora con..” a cura di Laura Bevione, che consiste in incontri con gli artisti del Festival (e non solo), al quale si aggiungono “Un teatro pieno di interrogativi”, tre incontri per ricordare il Convegno di Ivrea, che nel giugno 1967 radunò alcuni protagonisti del cambiamento teatrale allora in atto e “Cinema in scena” in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, che prevede, come ogni anno, proiezioni abbinate agli spettacoli in cartellone. Non solo. Ritorna l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori.

Per concludere, e a voler sottolineare la forte transculturalità che permea il Festival e che quest’ultimo a sua volta effonde e restituisce, uso l’espressione inglese “last but not least”, per parlare della complicità necessaria e vitale dello spettatore, al quale si richiede, come ogni anno, curiosità e partecipazione. Per i più affamati e impazienti segnaliamo allora le due settimane speciali (20/4-3/5) durante le quali i biglietti possono essere comprati online a prezzi scontatissimi. In alternativa i punti vendita dal 20 aprile sono il Teatro Astra, Rivendite vivaticket, infopiemonte-Torinocultura, vendita serale (online: www.vivaticket.it).
Vi aspettiamo!

@Contatti (per info e abbonamenti):+3901119740291; +393462195112; +info@festivaldellecolline.it
@Luoghi: Le Roi Music Hall (Via Stradella 8), Scuola Holden (Piazza Borgo Dora 49), Polo del ‘900 (Corso Valdocco ang. Via del Carmine), Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Ristorante Marechiaro (Via San Francesco d’Assisi 21), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Teatro Marcidofilm!, Serming- Arsenale della Pace (piazza Borgo Dora 61), Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Le Petit Hotel.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

DONNE CHE SOGNARONO CAVALLI

” Mi interessa commuovere lo spettatore, non spiegargli delle cose”     – Daniel Veronese

Uno spettacolo complesso ma maledettamente semplice quello andato in scena alle Fonderie Limone, a conclusione  del Festival delle Colline Torinesi.  “Un successo di pubblico e un livello contenutistico altissimo raggiunti in questa edizione con l’augurio di migliorarci ancora per il prossimo anno”,  ha dichiarato  Sergio Ariotti. 

Una famiglia contemporanea ci racconta la Storia dei desaparecidos attraverso la propria storia fatta di intrecci, bugie e violenza.  “Ho voluto usare il micro per parlare del macro” spiega in una formula il regista Roberto Rustioni durante la “Mezz’ora con…”

E direi che ci è riuscito benissimo. Lo spettacolo è claustrofobico, un allestimento minimale che osserviamo con occhio cinematografico e che ci fa entrare a casa di una delle tre coppie

donne che sognarono cavalli 2protagoniste durante uno sfortunato pranzo di famiglia.

“Ho apprezzato molto la scenografia. Gli attori sono stati terribilmente credibili, mi son sentita coinvolta dalla storia grazie a loro. La disposizione del pubblico ha fatto accrescere la bellezza dello spettacolo a mio parere” leggo e condivido il pensiero di questa spettatrice da  http://www.tipstheater.com/donne-che-sognarono-cavalli

Attraverso Lucera, giovane figlia di desaparecidos che tenta dolorosamente di ricostruire il passato della sua famiglia raccontandosi al pubblico e rompendo la quarta parete, scopriamo le vite conflittuali dei tre fratelli con un’azienda di famiglia fallita sulle spalle, donne diversissime tra loro riunite in unico luogo – ideale e fisico- un pony morto e alcool e fumo a condire le tensioni crescenti.

Momenti di chiacchiere futili si mescolano a violenti liti , sembra non succedere niente, ma tutto è successo e tutto succederà, confessioni che sfuggono, verità nascoste, tradimenti velati, un bambino che sta per nascere.

I quadri non seguono un ordine cronologico, sta allo spettatore ricostruirlo e questo ci porta alla citazione iniziale dell’autore del testo. Il pubblico è coinvolto emotivamente e deve essere attivo e attento durante tutto il disperato tentativo di riconciliazione familiare.

Un occhiolino di una delle attrici prima dell’inizio dello spettacolo e la vicinanza estrema alla scena mi portano direttamente dentro quella casa dove una strage per mano di Lucera si consuma lentamente durante tutto lo spettacolo e improvvisamente nel quadro finale quando la ragazza stermina la sua famiglia…                                                                scusate, quella che doveva a tutti i costi essere la sua famiglia.

 

di Daniel Veronese
regia Roberto Rustioni

adattamento Roberto Rustioni
con Valeria Angelozzi, Maria Pilar Perez Aspa, Michela Atzeni, Paolo Faroni, Fabrizio Lombardo, Valentino Mannias
assistente alla regia Soraya Secci
scene e costumi Sabrina Cuccu
assistente scenografo Sergio Mancosu
luci Matteo Zanda
foto Alessandro Cani

co-produzione Fattore K – Sardegna Teatro – Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di Fondazione Olinda Teatro La Cucina

SOCRATE IL SOPRAVVISSUTO / come le foglie

“Davvero tanto su cui riflettere”: ecco quello che ho pensato appena terminata la lunga serie di applausi per gli attori/performer dello spettacolo Socrate il sopravvissuto/come le foglie in scena alle Fonderie Limone la sera del 20 giugno.

Un proiettile, una classe, un professore, uno schermo, una storia. O meglio, tante storie.

C’era l’impossibilità del professore di raccontare la storia dell’umanità ad una classe liceale. Di spalle e con l’aiuto del microfono il professore di storia e filosofia prova a spiegare il suo tormento: fingere, recitare una parte davanti ai suoi ragazzi. Loro si sciolgono, ad uno ad uno, tra la sedia e il banco, vittime consenzienti dell’inganno. Ne manca solo uno, sempre, ad ogni lezione, non è mai in scena. Un proiettile…

Ma abbiamo detto che c’era anche uno schermo e qui troviamo il parallelo con Socrate. Lui nella sua palestra (in video), il professore nella sua classe (in scena).  Storie che si intrecciano e si contaminano.

Un viaggio alla scoperta della figura dell’educatore, del suo potere e del suo dovere. Una profonda riflessione sul ruolo dell’insegnante e su quanto possa fare oggi un professore che non vuole limitarsi a terminare il programma annuale e far capire agli alunni che c’è molto di più di quanto vogliano far credere loro, ma si scontra con l’apatia, il sistema scolastico e se stesso.

E il proiettile?

Maggio, ottobre, giugno i momenti raccontati dal professore. Sembra non esserci via di fuga o soluzione. Ogni volta l’impossibilità di insegnare prevale. E allora i ragazzi si esibiscono, ora mettendo in scena la distruzione dei libri (completamente bagnati, accatastati malamente), ora mediante coreografie ritmate ed ossessive, fino ad un tentativo di dialogo e avvicinamento che ci porta alla  storia di Socrate e dell’allievo Alcibiade – il  momento di massima tensione, a mio parere. Un lungo confronto dialogico tra i due sull’esistenza umana, sulla crescita dell’individuo, sul sapere e sul potere.

Eppure, alla fine arriva il momento degli esami… e quello del proiettile. Quell’alunno sempre assente dalla classe del professore si presenta al suo esame orale e uccide tutti i suoi insegnanti, tranne uno.

Tanto su cui riflettere, appunto.

 

di Simone Derai e Patrizia Vercesi
regia Simone Derai

dal romanzo   Il Sopravvissuto di Antonio Scurati
con innesti liberamente ispirati a   Platone e a Cees Nooteboom
con   Marco Menegoni, Iohanna Benvegna, Marco Ciccullo, Matteo D’Amore, Piero Ramella, Francesca Scapinello, Margherita Sartor, Massimo Simonetto, Mariagioia Ubaldi
maschere   Silvia Bragagnolo e Simone Derai
costumi   Serena Bussolaro e Simone Derai
musiche e sound design   Mauro Martinuz

video Simone Derai e Giulio Favotto
con Domenico Santonicola (Socrate), Piero Ramella (Alcibiade), Francesco Berton, Marco Ciccullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro, Massimo Simonetto
riprese aeree Tommy Ilai e Camilla Marcon
concept ed editing Simone Derai e Giulio Favotto
direzione della fotografia e post produzione Giulio Favotto / Otium
regia Simone Derai

produzione Anagoor
co-produzione Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies

progetto realizzato con il sostegno del bando ORA! Linguaggio contemporanei produzioni innovative della Compagina di san Paolo

L’INSONNE: MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

Il tempo si lacera […] Le stagioni hanno perduto il loro significato. Domani, ieri, che vogliono dire queste parole? Non c’è che il presente […] Tutto ciò è adesso. Non è stato, non sarà. È. Sempre. Tutto insieme. Perchè le cose vivono in me e non nel tempo. E in me tutto è presente.

Con un’eco quasi bergsoniana cala il sipario sullo spettacolo che Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli hanno liberamente tratto da Ieri, romanzo della scrittrice ungherese Agota Kristof.

Partire dalla battuta finale è quantomai appropriato: questa è infatti una storia di riemersione

Tobias nasce in un villaggio senza nome e trascorre la sua infanzia all’ombra della madre, la prostituta del paese. Un giorno, quando tra i tanti uomini che frequentano la casa individua suo padre, prende un coltello e glielo affonda nella schiena con l’intento di uccidere anche la madre, stesa sotto di lui. Tobias è allora costretto alla fuga. Cambia identità: diventa Sandor e lavora in una fabbrica di orologi. La sua giornata è un susseguirsi di gesti vuoti, l’unica cosa che pare confortarlo è la scrittura. Scrive e si rifugia nell’ ossessionante attesa di Line, una donna appartentente al passato e affidata all’immaginazione. Un giorno però Line arriva. I due si riconoscono e si amano di un amore impossibile. Potrebbe essere l’inizio di un futuro diverso, ma il passato grava sui due amanti con il suo limite di invalicabilità. Line infatti ha un terribile segreto: è la sorellastra di Tobias… ma non lo sa.

coppia

La narrazione della storia non è lineare, ma costruita su continui dislivelli. Il tempo permea di sè l’intera vicenda, senza tuttavia mai lasciarsi delimitare. I contorni sfumano in suggestioni oniriche, la percezione sfugge, tutto si fa dilatato, confuso. Passato e futuro sono entrambi destinati a confluire nel presente sotto forma di ricordo e immaginazione.

La commistione dei livelli temporali è resa con straordinaria efficacia dall’organizzazione dello spazio scenico e dalla modulazione della luce.

Al centro del palcoscenico un cubo, le cui pareti consistono in pannelli semitrasperenti. All’interno del cubo una stanza con un letto e un tavolo, all’esterno il vuoto. I due attori padroneggiano indistintamente entrambi gli spazi. Questa contrapposizione interno-esterno permette l’alternanza di scene agite e scene narrate e si presta meravigliosamente alla resa scenica di un viaggio tutto giocato sull’accavallarsi di temporalità differenti.

La luce è altrettanto fondamentale, perchè diventa la guida di questo viaggio. Dietro al cubo un faro mobile si sposta di continuo creando suggestivi effetti d’ombra. Seguire il fascio di questa luce è come seguire la memoria nel suo impietoso scandagliare. Le zone illuminate sono le zone del ricordo, l’oscurità invece pertiene all’oblio.

spazio

Impossibile non cogliere il riferimento alla psicanalisi. Non tanto perché il vissuto di Tobias richiama il più classico dei complessi, quello edipico, quanto perchè è lo stesso spettacolo ad assumere – fin dall’inizio – le sembianze di una seduta psicanalitica. Il tutto costruito con grande intelligenza. Non c’è l’assurda pretesa di psicanalizzare un personaggio della finzione, ma la volontà di mostrare un percorso di riemersione nel suo fluire disordinato.

La fantasia dei drammaturghi ha valorizzato la sapiente tessitura del romanzo. Il testo viene rispettato nei suoi snodi principali e nell’uso di una prosa asciutta, messa in risalto da una recitazione mai sopra le righe.

Ad essere riproposti con fedeltà anche i richiami autobiografici che costellano l’opera. La Kristof condivide con i suoi personaggi un destino fatto di fuga dalla patria e ossessione per la scrittura. Scrivere rappresenta per entrambi il tentativo di raccontare la propria storia.

Per Tobias la funzione salvifica della scrittura si carica di un valore aggiunto. È la forza che alimenta l’attesa della donna amata.

In fondo, amare e scrivere altro non sono che due facce della stessa medaglia, perchè fermano il tempo.

Cecilia Nicolotti

L’INSONNE

di Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
regia Claudio Autelli

liberamente tratto da Ieri di Agota Kristof
drammaturgia Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
con Alice Conti e Francesco Villano
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
luci Simone De Angelis
suono Fabio Cinicola
responsabile tecnico Giuliano Bottacin
assistenti alla regia Piera Mungiguerra e Andrea Sangalli
voce registrata Paola Tintinelli

co-produzione Lab121, CRT Milano
spettacolo vincitore In-Box 2015
selezione Visionari Kilowatt Festival 2015
presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo

 

Una Monica al bacio

di Matteo Tamborrino

«Nacqui nei ’70 e giunsi in anni cupi,/ libero lo spirto mio com’è quello dei lupi./ Da subito in fattezze de masculo/ sentii smover, de drentro,/ l’intensa femminina forza,/ la scorza,/ ch’el tempo avrebbe trasmutato/ in delicata movenza,/ in gentile essenza de bambino/ che l’ambigua carta porta,/ ma ancor senza difesa,/ alfin non resta che la resa;/ lo pensiero dello sbaglio,/ il nascondiglio,/ la lacrima sul ciglio,/ al voler sentire che forte preme/ lo desiderio de svelar/ il sommovimento,/ lo stordimento, de scoprir la direzione/ c’agli altri par sbagliata» (da L. Fontana, Monica Bacio. Frammenti per un monologo)

Lorenzo Fontana/Monica Bacio
Lorenzo Fontana/Monica Bacio

Abbiamo sentito parlare spesso, negli ultimi mesi, di questa bionda squinternata Monica, e ora, finalmente, l’abbiamo conosciuta.

DSC7686-1024x682La creatura teatrale di Lorenzo Fontana  – ispirata a un personaggio del drammaturgo canadese Michel Marc Bouchard – è nata da un  articolato percorso creativo e ha avuto il suo  debutto  ufficiale al Teatro Astra di Torino: «Negli anni – spiega Fontana nelle note di regia – [Monica] è diventata il mio alter ego. Quando ho iniziato a scrivere questa storia, fortemente autobiografica, ho capito subito che mi serviva un tramite per raccontarla e mi è sembrato che la Bacio fosse lì apposta. Ho scritto il lamento di Monica perché credo che sia importante riconoscere il diritto di crescere diventando quello che sentiamo di essere davvero, nel modo più autentico possibile. Quando siamo piccoli c’è sempre qualcuno che pensa di sapere cosa sia giusto per noi, ma quello che è giusto per noi già lo sappiamo, abbiamo solo bisogno di essere accompagnati nel nostro viaggio di costruzione dell’identità».

Il lamento, ovvero le lacrime, di Monica Bacio è un esempio di ottima scrittura scenica.  Un prodotto, anzi no, un’opera preziosa, rara, vera. I versi accarezzano l’orecchio e giocano con la mente. È la potenza della lingua,  dell’italiano nella sua proteiforme beltà, da far andare in “brodo di giuggiole” file intere di letterati. Non è mai la parola stantìa e polverosa delle rappresentazioni da m(a)us(ol)eo. È la parola musicale di un teatro poetico, ma poetico per davvero. E non solo perché in rima.

Fontana_Manescalchi_JudicaOvviamente nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza un buon cast. In scena il collaudatissimo trio Fontana-Manescalchi-Judica Cordiglia. La pièce ripercorre varie fasi di crescita del protagonista, dall’infanzia all’età adulta, passando per l’adolescenza. Quadri che dipingono situazioni, emozioni, pensieri: la sfilata casalinga in tacchi alti, la partita di calcio, il giardinetto della foia, il bagno turco. La Creante/Manescalchi dà sostanza e azione ai Memoires di Monica/Fontana; a punzecchiare la narrazione intervengono la voce e le mani (e a un certo punto anche il corpo) di Giancarlo Judica Cordiglia, per lo più nei panni (o meglio nei volti) dei genitori.

Di fronte allo spettatore uno svettante cono fucsia adorno di toppe e finti seni, due cespugli, un pallone, una panchina, una parrucca luminescente. Il tutto racchiuso da un buio quasi onirico, da chiar di luna. Quella stessa Luna cacciatrice, con cerchietto e arco, che comparare all’inizio dello spettacolo. La scena, a dire il vero, ci coglie impreparati: forse – stando a quanto Monica aveva lasciato intendere su Internet – ci saremmo aspettati più kitsch, più esuberanza, più ostentazione. E invece no. Il gioco è sempre leggero, mai violento o invasivo. L’incanto delle ombre, poi, è particolarmente evocativo.  Si scherza sì, ma sempre con eleganza. E con il sottofondo di Mina. Non c’è mai la risata sguaiata da spogliatoio. Anche l’allegra falloforìa che a un certo punto invade il palco non è volgare. Perché dietro c’è sempre la storia di “Monica”, che non si piange addosso, ma ci aiuta a riflettere.

E quindi, Monica, tra una copertina di Vogue e il nuovo spot di Pasta Diluvio, continua a “lamentarti”!

IL LAMENTO, OVVERO LE LACRIME, DI MONICA BACIO-
(Prima Nazionale – 16/6/2016, Teatro Astra – Torino)
di Lorenzo Fontana
regia Lorenzo Fontana
con Olivia Manescalchi, Giancarlo Judica Cordiglia e Lorenzo Fontana
scene Paolo Bertuzzi
costumi Viola Verra
light designer Cristian Zucaro
sound designer Luca Vicinelli
direzione tecnica Alberto Giolitti
presentato in collaborazione con Fondazione Teatro Piemonte Europa nell’ambito di Scene d’Europa

UN MAGO D’ESTATE

 

Un mage en été, una visione di suoni onirici.

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Già presentato nel 2010 in occasione del Festival d’Avignon, Un mage en ètè di Olivier Cadiot con la regia di Ludovic Lagarde ha fatto la sua prima e unica tappa italiana al  Gobetti di Torino, città perfetta per ospitare il “mago” francese Laurent Poitrenaux e il suo vortice di sensazioni e idee, per il Festival delle colline torinesi.

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Si spengono le luci , il sipario si apre. Solo sul palcoscenico, un insolito mago vestito di bianco inizia un monologo che è poesia.  Ho un occhio puntato ai sopratitoli e l’altro verso Laurent Poitrenaux, e ciò che vedo è un mago moderno, una macchina teatrale.

Il mago Robinson vive chiuso in una stanza che è il suo mondo, si costruisce tutto solo la sua isola interiore, la sua vita quotidiana. È un susseguirsi di visioni da sogno, di”rumori bianchi”che rilassano ma non fanno addormentare, dettagli uditivi con articolazioni pop-elettroniche che non so dire da dove provengano ma creano effetti lontani. Robinson condivide con noi il fuoco di emozioni che si scatenano al ricordo di una ragazza X che lui vede distesa beata nella natura illuminata da un sole forte, fino al loro incontro e a un bacio. Adesso vede una nave vichinga e rumorosa, ora vede Nietzsche giocare a golf e ha una voce robotica e distorta che mette quasi paura. Poi chiude gli occhi: è un cantante sott’acqua, si crea uno pseudonimo accattivante.

Non ci sono trucchi di magia da tenere nascosti, Robinson è un mago di percezioni legate a immagini che invadono lo spazio in un turbine di forme geometriche. Sta comprendendo le cose del mondo, le vive dal suo punto di vista, e lo fa con umorismo.

Questo testo di Oliver Cadiot ha una forma ciclica, è il serpente che si mangia la coda, una rinascita. Quello che egli vede lo ha già visto, è un infuso di nostalgia, felicità, rabbia. E’ una meditazione sul potere del pensiero.Un mago d'estate

Il colore verde con le sue tonalità è ricorrente per tutta la durata dello spettacolo: dalla visione della ragazza nella natura, fino all’epilogo quando lui stesso torna giovane  e rannicchiato, “sott’acqua nato”.

Buon teatro e buona magia a tutti!

Alessandra Pisconti

di Olivier Cadiot regia Ludovic Lagarde

con Laurent Poitrenaux scenografia Antoine Vasseur luci Sébastien Michaud costumi Fanny Brouste immagini/visual design Cédric Scandella drammaturgia Marion Stoufflet applicazioni informatico-musicali Ircam/Grégory Beller suono David Bichindaritz coreografie e movimenti Stéfany Ganachaud video Jonathan Michel codice creativo Brice Martin Graser

produzione La Comédie de Reims Centre Dramatique National coproduzione Festival d’Avignon, Ircam/Les Spectacles Vivants – Centre Pompidou, Centre Dramatique National Orléans/Loiret/Centre con il sostegno di Région Champagne-Ardenne il testo Un Mage en été è pubblicato dalle edizioni P.O.L

traduzione Gioia Costa per il Festival delle Colline Torinesi

Jerusalem: la pièce di piombo (fuso)

di Matteo Tamborrino

“Il Consiglio di sicurezza […] esorta le parti israeliana e palestinese e i loro leader a cooperare[…]. Decide di continuare a seguire con grande attenzione la questione” (da Risoluzione ONU n. 1397/2002). Questione. È un termine che raggela, soffoca, come piombo fuso. Che scende dritto nei polmoni.

Ruth Rosenthal in scena
Ruth Rosenthal in scena

Jerusalem Cast Lead (premio giuria come miglior performance all’Impatience Festival di Parigi nel 2011) è il battesimo torinese di Winter Family, duo di musica sperimentale franco-isrealiano nato dodici anni fa dall’incontro artistico tra Ruth Rosenthal e Xavier Klaine, fucina di molti spettacoli di teatro documentario, sempre proposti in spazi non convenzionali. Dopo aver fatto il giro del mondo – dall’Europa in Israele, dal Giappone in Canada – Ruth & Xavier approdano sul palco dell’Astra, con il loro “rotacistico” agitprop dai toni rochi.

Lo spa901504_518678041528409_1330654207_ozio scenico, albino, somiglia a un foglio piegato: due facce perpendicolari, con la metà verticale che – all’occasione – si trasforma in grande schermo, atto a resuscitare grandi celebrazioni di massa, canti melanconici e danze folkloristiche di un passato ancora prossimo. Figure virtuali a cui l’ombra della performer puntualmente si mescola. Quello che si coglie non è però un candore puro, immacolato, rasserenante, bensì un bianco freddo, livido, da obitorio (su cui giocano perfettamente le luci, ora abbaglianti, ora più fioche).

Quattro casse, qualche microfono, una Coca e un tramezzino. E poi file ossessive di bandiere, stelle ciano incastonate in un manto interrotto di tallèd. La Rosenthal ha un vestito scuro, casalingo, di quelli che si vedono nei documentari sulla Seconda Guerra Mondiale, mosso da un’indecifrabile fantasia; e poi trecce da bambina; e scarpe da ginnastica con la suola violetta. Questa la cromia della pièce: una “limpidezza sporca” che nasconde mostri di piombo. I mostri della storia. Il timbro sonoro è penetrante, fende i timpani; i movimenti sono geometrici, perlustrano tutto lo spazio disponibile. La protagonista si barrica sempre più dietro fragili mura simboliche. È davvero una sintesi allucinata nella sua cruda realtà, oppressiva e mai dispersiva.

Ma che cosa c’è, dentro? «In occasione dell’anniversario della formazione dello stato di Israele e della riunificazione di Gerusalemme nel 2008 – racconta il programma di sala – i Winter Family incidono a Gerusalemme il brano Jerusalem Sindrome per la radio France Culture. Ruth Rosenthal e Xavier Klaine decidono di sviluppare e approfondire questo lavoro e di creare una performance di teatro documentario: così nasce Jerusalem Cast Lead. Fra il 2009 e il 2010 Ruth e Xavier documentano le cerimonie commemorative nazionali nelle scuole, nei quartieri, in un gran numero di luoghi simbolici di Israele. In scena la stessa Ruth guiderà il pubblico in un viaggio nella società israeliana attraverso suoni, immagini e testi che celebrano il dolore, la memoria e il coraggio. I simboli di questi elementi permeano la vita quotidiana degli israeliani, che ne sono sopraffatti, quasi, come recita il sottotitolo, come vivessero sotto una dittatura emotiva».

Con codici volu541916_684599334936278_965661395_ntamente semplificatori, Winter Family cammina, o meglio saltella, sul filo sottile che separa il sionismo collettivo, fatto di tradizioni comunitarie e pillole di memoria storica (prima fra tutte la shoah, che si materializza in cinque candele che si specchiano), dagli atti esecrandi di una società che viene smascherata, senza retorica ma anche senza pietà, nelle sue manipolazioni. Si tratta di una vera cecità visiva e cognitiva. “Gli insegnanti – ripeto parafrasando – ci portavano a vedere i kibbutz. Ci dicevano soltanto che una volta avevano nomi arabi. Noi non indaghiamo oltre”.

Due elenchi risuonano nelle orecchie degli spettatori: la sequela dei bambini sterminati nei lager da un parte, i prénoms dolceamari delle operazioni militari israeliane dall’altra: Colonna di nuvola, Arca di Noè, Grappoli della collera, Piombo fuso. Oferet Yetsukah. Cast Lead. Le scritte e i sopratitoli, che leggiamo con foga e con un po’ di alienazione (per via della scomoda posizione dei due schermi), non ci possono lasciare impassibili. L’animo – alla fine – è un po’più scuro, meditabondo. Plumbeo.

 

JERUSALEM CAST LEAD. HALLUCINATORY TRIP IN AN EMOTIONAL DICTATORSHIP
di Rosenthal & Klaine
regia Rosenthal & Klaine
idea originale, registrazione, regia e progettazione Winter Family (Rosenthal & Klaine)
con Ruth Rosenthal
suono e video Xavier Klaine
disegno luci e direzione tecnica Julienne Rochereau
tecnico del suono Sébastien Tondo
voci Marilee Scott & Brian Gempp
collaborazione artistica Yael Perlman
produzione Winter Family e ESPAL du Mans
residenza creativa Ferme du Buisson e Fonderie au Mans
versione francese con sopratitoli in italiano
traduzione a cura di VIE Festival Modena

Reality: i diari di Janina Turek

Cosa darei ogni tanto per essere morta, anche solo per cinque minuti”

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Una donna e un uomo inscenano una morte, provandola e riprovandola, cercando di renderla più “realistica” possibile, badando tuttavia a dettagli plateali quali una ciocca di capelli sul volto o la posa che assume un corpo privo di vita una volta caduto a terra. Da questo studio incomincia la storia di Janina Turek, partendo proprio dalla sua morte, avvenuta all’età di 80 anni a causa di un infarto, per le strade di Cracovia.

Subito le lancette del tempo vengono spostate indietro, nel febbraio 1943, poco dopo Continua la lettura di Reality: i diari di Janina Turek

PPP: LE PAROLE SONO ATTENTATI

PPP ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE: questo il titolo dello spettacolo con cui il duo Ricci/Forte sceglie di omaggiare Pier Paolo Pasolini nel quarantesimo anniversario della sua scomparsa.

Data la ricorrenza, questa scelta non può che rappresentare una scommessa. Innanzitutto perchè il rischio di cadere nel vuoto memorialismo e negli stereotipi è elevato. In secondo luogo perchè si tratta di celebrare un artista dalla personalità poliedrica che ha fatto dell’eclettismo il tratto distintivo della sua attività intellettuale.

I due giovani autori-registi, forti della loro idea di teatro, non si sono lasciati intimorire dalle circostanze e hanno cercato un approccio diverso che segna una frattura decisiva rispetto ai lavori che in questi decenni si sono succeduti attorno all’universo pasoliniano.

Il coraggio di questa scelta si evince dal non aver optato per l’allestimento di un’opera teatrale scritta dallo stesso Pasolini, ma nell’aver capito che l’eredità di questo artista è un pozzo di domande a cui dobbiamo ancora delle risposte.

Ecco allora che Pasolini in questo spettacolo non diventa il mito da celebrare, ma la guida di un viaggio, un’intima esperienza di scoperta che attori e spettatori compiono indistintamente.

Proprio per questo si rivela interessantissimo il lavoro fatto da Ricci/Forte per la stesura del testo. La tessitura drammatica, lungi dall’essere un catalogo di citazioni letterarie e cinematografiche, alterna momenti di riflessione a scene giocate sull’impatto sensoriale. Nei primi, è la parola a prevalere, nei secondi la comunicazione è tutta affidata a suono e movimento. La trama è assente: non vengono qui ripercorse né le vicende umane, né quelle intellettuali di Pasolini. Lo spettacolo apre una serie di focus tematici su questioni centrali dell’opera pasoliniana che ancora oggi si pongono con tutta la loro bruciante attualità.  È lo sguardo all’indietro che Pier Paolo fa prima di sciogliersi nel ventre liquido del mare di Ostia.

I protagonisti sono un uomo e cinque donne dalla differente provenienza geografica che dialogano ed interagiscono tra loro in un’atmosfera distorta, dai tratti allucinatori. La loro identità non è mai dichiarata. Non c’è Pier Paolo. C’è un uomo che di fronte alla sua macchina da scrivere non accetta di avere un foglio bianco, mentre riecheggiano irrisorie le note di The Show Must Go On. Ci sono delle donne che orbitano attorno a lui, lo interrogano, lo deridono, lo cercano. Non ci sono personaggi, ma un’unica tensione riflessa in sei corpi diversi, tutti accompagnati dalle loro ombre di dubbio.

L’allestimento scenografico consiste in un ammasso di pneumatici, elemento imprescindibile dello spettacolo, che richiamo la tragica fine che l’artista trovò sul lido di Ostia nel novembre 1975. Toccante la scena finale che rievoca l’accaduto con forti accenti lirici.

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Ne deriva un’opera dalla struttura frammentaria, aperta, di cui è difficile rendere conto. Un’esperienza forte che richiama in causa tutti quei nodi contraddittori che Pasolini non è riuscito a sciogliere e che ancora non cessano  di tormentarci.

Uno fra tutti il rapporto tra intellettuale e realtà: due universi distinti che si scontrano e si fanno violenza reciproca.

L’artista è qui “un santo, uno stronzo, un idiota”. Perennemente in bilico tra il possesso del proprio io e l’essere posseduto dal mondo. Inevitabilmente destinato a soccombere di fronte alla natura refrattaria del reale e agli uomini che masticano e sputano la poesia nella convinzione di averla compresa.

Ad essere rappresentato è il dramma di un Pasolini, confinato fuori dalla Storia, in eterna lotta tra un mitico ritorno alle origini e uno sguardo lucido e profetico sul futuro.

Questa disillusione simboleggia sì la condizione propria dell’intellettuale, ma richiama anche il disagio personale dei due registi che hanno dovuto abbandonare l’Italia per vedere realizzata la loro vocazione artistica.

Uno spettacolo che dunque ci invita a riflettere su quale possa essere il senso di fare cultura in un paese inginocchiato, in cui il conformismo ci illude di essere liberi.

Non a caso l’omologazione è un altro dei temi tanto cari a Pasolini. Di grande impatto la scena in cui la conformazione ai dettami della società consumistica è rappresentata come ricerca ossessiva e nevrotica di un piacere inappagante.

Ineludibile infine il confronto con i temi della trasgressione e della sessualità: forza vitale primaria, pura dimensione corporea. L’uomo preda degli istinti animali è emblematicamente rappresentato dalle maschere da maiale indossate dalle attrici.

maiali

Ricci e Forte propongono un teatro coraggioso e nuovo che inevitabilmente non può raccogliere l’unanimità dei consensi, ma che indubbiamente può ritenere di aver vinto la propria scommessa in un terreno tanto scivoloso quanto quello pasoliniano.

Cecilia Nicolotti

PPP ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE

omaggio a Pier Paolo Pasolini

di ricci/forte
regia Stefano Ricci

con Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Giuseppe Sartori, Catarina Vieira
drammaturgia ricci/forte
movimenti Francesco Manetti
scene Francesco Ghisu
costumi Gianluca Falaschi
ambiente sonoro Andrea Cera
direzione tecnica Alfredo Sebastiano
assistente regia Ramona Genna

produzione ricci/forte
coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Festival delle Colline Torinesi