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Trad-attori parricidi: il Natale in casa Latella

Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli; quando sono fedeli non sono belle (Carl Bertrand)


di Matteo Tamborrino

ph: Brunella Giolivo
Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Lino Masella (Nennillo) – ph: Brunella Giolivo

Questo estemporaneo avvio dedicato alle belles infidèles, ci permette in realtà di riflettere su quanto imprescindibile sia il nesso tra traduttologia, filologia e cultura teatrale. Si tratta di una relazione a tre che travalica le mere contingenze della messinscena  (per capirci, l’annosa questione: “Quale edizione del testo scelgo? Come lo traduco o rappresento?”), e che riguarda invece (e soprattutto) una condivisione di metodo, di approccio teorico e dunque di spirito.

Ripartiamo perciò da qui, dallo spirito. Da quella che i filosofi chiamano essenza. Siri Nergaard, docente di Lingua e letteratura norvegese all’Università di Firenze e di Teoria della traduzione presso la Scuola di studi superiori dell’Università di Bologna, ha pubblicato ormai 23 anni fa un’illuminante antologia dal titolo La teoria della traduzione nella storia (seguita poi dal volume, sempre edito per Bompiani, Teorie contemporanee della traduzione), che ripercorre – da Cicerone a Derrida – i maggiori contributi in merito alla questione della “trasposizione di codici e linguaggi”, un tema da cui registi e attori non possono prescindere.

Lettera o spirito? Erompiamo così dalla selva di richiami accademici e giungiamo lesti a ciò che più ci compete. Natale in casa Cupiello, per la regia di Antonio Latella, calca il palco del Teatro Carignano  – con il suo nutritissimo e meritevole ensemble di interpreti – tra il 10 e il 22 gennaio, destando – come prevedibile – reazioni alterne. Come costruire una relazione ottimale con un pubblico che, almeno in parte, si turba al solo pensiero di veder “stravolto” (sull’opinabilità poi di tale assunto torneremo) il divin Eduardo? «Non possiamo adeguarci supinamente alla domanda» è la risposta perentoria di Francesco Villano. «Noi dobbiamo imitare l’essenza di Eduardo, non scimmiottarne la forma attorica. Dobbiamo insomma trovare nuove forme per rendere viva, ancora viva, la sua natura di rivoluzionario, la sua parola d’autore». È il rispetto per lo spirito dunque la legge che governa la traduzione e la trad-azione (nel senso di trasposizione teatrale) di un classico, specie se si tratta di un attore-regista-autore come era l’erede di Scarpetta.

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Tormentato fu il lavoro di Eduardo su questo dramma, riscritto e meditato a partire dal 1931, anno di debutto con i fratelli nella compagnia del Teatro Umoristico, fino alla fine degli anni ‘70, con propaggini radiofoniche e televisive. Parimente tormentata risulta la cornice scenografica all’interno della quale si articola questo pregevole lavoro, che sembra contaminare l’umbratile genio pittorico di Bosch, Caravaggio e Füssli,. Dalla cieca fissità iniziale degli attori, esposti in proscenio e gravati da un’ingombrante cometa di vaporosità simile a un enorme corallo dorato, l’azione esplode poi in un trionfo bestiale di fisicità, tra il gioviale e l’effimero. Ad avvolgere l’intero allestimento, una luce funerea, un coacervo baroccheggiante di tensione geometrica e sensualità animalesca. La scena in cui Ninuccia/Valentina Acca viene rimbalzata come un testimone tra Nicola/Francesco Villano e Vittorio/Giuseppe Lanino racchiude in sé tale dialettica.

Francesco Villano è Nicola
Francesco Villano è Nicola

In un universo contraddittorio che alterna carnalità e mistica, cartapesta e simboli, in cui la tradizione è profanata in maniera irrevocabile, diventando mortifera consuetudine, Nicola è il più outsider di tutti: «Quello di Nicolino è un mondo frustrante, fatto di denaro e bottoni», spiega Villano parlando del proprio personaggio. «Il suo disagio nasce dal non riuscire a esprimere dei sentimenti, che pure egli prova. Non è cattivo, ma non conosce altri linguaggi. È questa situazione di umiliazione a condurlo poi verso il grido finale. Verrà infatti estromesso dai riti dei Cupiello». Villano è dunque un villain atipico: «Quella di Antonio è una regia “orizzontale”: ci offre degli spunti, dei suggerimenti sulla genesi dei nostri caratteri. Poi tocca a noi. Nel mio caso, sapevo di dover dar voce a un uomo innamorato sì, ma che in fondo non ha alcuno strumento per esprimerlo». È il vate del mercimonio, è il Buffalmacco che compra i capponi: «Parla di cibo, sempre: vuol comprarsi la benevolenza della famiglia».

Tradurre è tradire. Tradire (tradĕre) è consegnare. Offrire cioè in una lingua d’arrivo un certo contenuto, che possa sortire un effetto paragonabile all’originale in un pubblico diverso (per idioma e cultura) rispetto a quello per il quale l’opera era stata pensata. Tradurre è dunque l’utopia esperantista, la capacità di saper parlare a tutti, in una “lingua ideale” (cfr. Cicerone, Libellus de optimo genere oratorum), e in ogni tempo. Per rendere immortali delle parole, dei valori, e non le persone che se ne fanno temporanei vettori. Eduardo fu un Grand’attore, ma ora è tempo di farlo Grand’autore, di prender coscienza della sua dipartita (e, con lui, dei suoi mugolii, dei suoi silenzi, della sua inimitabile e inimitata maschera facciale).

“Cominciamo da capo tutto” è il loop disarmante che inquieta gli attori. L’Eduardo promiscuo, l’Eduardo attore s’intende, è morto il 31 ottobre 1984. Dal 1° novembre, rifarlo fu impossibile. Non si tratta di arte, ma di biologia. E se non è ancora morto va almeno debellato, consegnato alla storia (che Amleto, Edipo o anche solo il timido Pietro Rosi ce ne diano la forza!). E in tale “inattuabilità del lutto” ha avuto di certo un ruolo fondamentale (sembra assurdo dirlo) l’enorme quantità di materiale audiovisivo a nostra disposizione. Che ha continuato a renderlo vivo ai nostri occhi. Perfino Carlo Cecchi, che pure mastica De Filippo ad ogni sua nuova prova teatrale, ha saputo recuperarlo concretamente non  prima del Sik Sik del 2000.

È l’altro Eduardo, quello dei copioni, a dover diventare classico, tradizione, “presepio”. Come?

Annibale Pavone è parte del Coro
Annibale Pavone è parte del Coro che – al pari di una tragedia greca – segue lo sviluppo dell’azione

Il testo è rispettato con estrema fedeltà dal regista, ma – per così dire – sovra-costruito. «Da diverso tempo – racconta Annibale Pavone, direttore artistico e parte del coro – Latella conduce uno strenuo lavoro sui testi. Nel caso di Cupiello ha scelto di scavare in profondità, fino al non-detto, penetrando nelle tonicità della scrittura e nelle didascalie» (sempre così abbondanti, peraltro, nei testi dell’autore, il che denota una sua particolare cura nei confronti dell’attore). «Dopo le prime letture, ha definito quella partitura che avete potuto ascoltare», così straniante, così brechtiana: gli accenti gravi, acuti e circonflessi flettono gli attori, nel corso del primo atto, come se fossero tesi da un filo invisibile, intenti a giocare a “sacco pieno-sacco vuoto”. Nel frattempo, il protagonista redige un impercettibile brogliaccio. La fatica e la concentrazione degli attori raggiungono anche gli spettatori più lontani: «I primi quaranta minuti – continua Pavone – prevedono solo movimenti minimi e solo da parte di chi si è già tolto la benda. Per gli altri è un lungo lavoro d’ascolto, che non ammette distrazioni. La cecità ci confonde, ma ciò che deve essere esibito è in primis il testo di Eduardo». È come un’enorme mente, che silenziosa e buia, legge. Altri ostacoli si avvertono poi sul cammino: gli animali del presepe portati a zonzo per il palco (e che diventano opprimenti doppi), o il carretto funebre spinto dall’eccellente Concetta di Monica Piseddu.

Che cosa significa tuttavia confrontarsi con un mostro sacro? L’abbiamo chiesto a Francesco Manetti, l’efficace pater familias in giacca albina (che interpreta però anche la parte dello scrittore in fieri): «Credo che Latella si sia rivolto a me perché ho la fortuna di non avere nulla in comune con l’Eduardo attore. Per età, per provenienza (io sono fiorentino), per storia artistica e biografica. Mi sono approcciato a Luca Cupiello come ad un qualsiasi altro personaggio, ‘come se fosse – e cito Latella – un Checov’. L’intento di Antonio era di creare un padre fuori luogo, incapace di gestire quella famiglia. C’è stata poi da parte sua una richiesta precisa: che il napoletano fosse letto e non detto. Il che sarebbe invece venuto automatico dopo mesi di repliche». Ma d’altronde, compito degli attori non è illudere, “camuffare”. Sul tema, interviene di nuovo Villano: «Il teatro post-drammatico non lascia spazio all’immedesimazione. Il teatro è un gioco: un po’ lo fai, un po’ lo racconti, ma bisogna essere onesti con il pubblico, senza ingannarlo». L’attore persiste, insomma, sulla superficie del personaggio.

Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti
Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti

Checché se ne dica, comunque lo si voglia definire, il Natale latelliano – come già l’Arlecchino –  rappresenta una svolta notevoledeo gratias – in questa impasse storico-teatrale di inizio millennio, che troppo spesso si avventura su sentieri manieristici. E di tale neo-manierismo (dal gelo del 1985 in avanti) lo spettacolo in questione è acme e nemesi. Un Cupiello dunque filologicamente deferente. Non stravolto, né calpestato. Semplicemente ri-formato. Ne tradisce (qui intendi “sovverte”) l’estetica, ma ne tradisce (“consegna”) il senso. Perché solo con una “bella  (eccezion fatta per alcune lungaggini finali) infedele” questo testo può finalmente essere attraversato, capito e restituito alla propria grandezza (parafraso qui Manetti): «Per accettare un’eredità bisogna preventivamente constatare che il padre sia morto».

Plauso (non di rito) a tutti gli interpreti, “artefici magici” di un esempio incantevole di attore-testimone-interlocutore-restitutore. Di un attore, insomma, traduttore. Trad-attori.

Gli insoddisfatti si diano pace.

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
drammaturgia Linda Dalisi
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino
luci Simone De Angelis
musiche Franco Visioli
prodotto da Teatro di Roma – Teatro Nazionale

I ragazzi della Commedia

I RAGAZZI DELLA COMMEDIA

 

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Buio, silenzio, un sipario che si apre, un personaggio che fa il suo ingresso da una quinta e si sistema al centro della scena: un inizio classico, che il pubblico si aspetta di vedere. Quello che non ci si aspetta è l’incredibile naturalezza con cui si verrà letteralmente catapultati all’interno di uno spettacolo scatenato, incalzante, che fin dalle primissime battute ci trascina dentro a una storia fatta di intrecci e lazzi esilaranti che non lasciano un momento di respiro. Si ride cosi tanto da non riuscire a prendere fiato, e ci si lascia andare non a uno, ma ben a due applausi a scena aperta. E’ un sabato sera da ridere a crepapelle quello che ci hanno regalato i giovani attori diplomati del corso accademico 2013-15 della scuola di teatro Sergio Tofano, che sotto la guida esperta del maestro Mauro Piombo mettono in scena La Figlia Contesa: un’ora e dieci di spettacolo ricco di trovate originali ma che mantengono tutti i canoni tipici di questo genere così unico e inconfondibile che è la Commedia dell’Arte.

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I personaggi che prendono vita nel canovaccio sono sei: le due giovani sorelle Euforbia e Consolida, figlie del dottore Graziano Catapunzia, il giovane innamorato Lelio, figlio del commerciante Pantalone, e la Tessitrice, figura originale e duttile. Spetterà a lei il compito di aprire lo spettacolo, e lo farà presentando se stessa come colei che tesse le trame e le storie, che tira le fila del racconto intervenendo nelle vicende dei personaggi, ingarbugliando e intrecciando le loro vite a suo gusto e piacimento per far sì che gli avvenimenti accadano. Fa poi la sua comparsa in scena l’eccentrica famiglia Catapunzia, composta da tre elementi in conflitto tra di loro. Euforbia è una giovane vivace che vuole conoscere il mondo, ma non può perché suo padre il dottor Graziano Catapunzia costringe lei e sua sorella a una vita di prigionia nella casa paterna. Consolida, molto diversa dall’inquieta e disobbediente sorella, è una ragazza tutta casa e chiesa, devota e sottomessa alla volontà del padre che la adora, ma intraprende in segreto una corrispondenza con il bel Lelio, di cui è perdutamente innamorata. Anche Lelio ricambia la bella Consolida, ma è tenuto sotto controllo dal padre Pantalone che sta a capo dell’azienda di famiglia, la “Navigation Corporation and Co.” (“coglion!”, come verrà chiamato il povero Lelio per tutta la commedia), preoccupato di insegnare il mestiere al figlio per poi lasciargli il comando dell’attività. Quando a casa Catapunzia arriva la notizia che Euforbia sarà mandata in convento e Consolida sarà data in sposa al principe della Kamchatka, per soddisfare gli interessi economici dell’avido dottore, si scatena un putiferio: le due sorelle escogitano un piano per sfuggire al loro destino, mentre Lelio viene a conoscenza della sorte di Consolida, poiché il dottor Catapunzia commissiona alla Navigation Corporation and Co. la costruzione della nave che porterà la giovane sposa e il suo principe nella Kamchatka, e anche lui decide di fare qualcosa. È qui che la Tessitrice suggerisce ai giovani che nessuno ha mai visto in faccia questo fantomatico principe, e così Euforbia da una parte (con un marcato accento francese) e Lelio dall’altra (con un altrettanto marcato accento spagnolo) decidono di vestire i panni del nobile e di chiedere la mano di Consolida, e ingannare in questo modo i loro padri. In casa Catapunzia fanno così il loro ingresso ben due principi. Chi di loro sarà quello vero? Tra combattimenti, scontri e pianti, la Tessitrice deciderà di intervenire ancora ma per risolvere la situazione, e a questo punto entra in scena il vero principe della Kamchatka (questa volta sfoggiando un’elegantissima parlata russa). Un lieto fine farà poi calare il sipario sulla scena.

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Tante sono le situazioni tipiche della Commedia, come l’impedimento dei due giovani innamorati che non possono stare insieme, o l’esilarante scena dell’incontro-scontro tra i due vecchi, quante le innovazioni e le trovate originali degli attori, come il padre che dà della vegana alla figlia ribelle mentre lei grida il suo motto “sex, drugs and rock and roll!”.  

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Le meravigliose maschere prendono vita quasi per magia sotto i volti e i corpi degli attori che le portano con sorprendente bravura e destrezza, se si pensa alla loro giovane età. Tutto lo spettacolo è un vortice di battute, lazzi e scontri che non si ferma mai, girando a un ritmo sorprendente che tiene gli occhi e le orecchie del pubblico incollate sul palco dalla prima all’ultima scena. Non manca poi un omaggio al maestro, che siede in sala, da parte degli allievi, così come vuole la tradizione: quando il dottor Catapunzia, per far rinvenire il povero Pantalone svenuto tra le braccia di Lelio, tira fuori una fiaschetta che contiene un grappino proveniente dalla riserva speciale di Mauro Piombo, il teatro viene giù dalle risate.

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La Figlia Contesa

spettacolo maturato nel corso di un seminario intensivo sulla Commedia dell’Arte tenuto dal maestro Mauro Piombo

interpreti:

Matteo Astengo – Lelio

Gaia Baudino Bessone – Consolida

Lucia Ferrero – Euforbia

Matteo Macchia – Pantalone

Riccardo Nazzaroli – dottor Graziano Catapunzia

Marta Ziolla – Tessitrice

direzione artistica Mauro Piombo

lo spettacolo si è svolto sabato 18 dicembre 2016 all’associazione culturale Circolo Bloom, Torino

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Conversando con i sei attori de La Figlia Contesa

Qual è il punto di partenza per costruire uno spettacolo di Commedia dell’Arte; come si inizia a lavorare a un progetto di questo tipo?

LUCIA: avere fantasia!

RICCARDO: si parte da un lavoro puramente didattico. Bisogna prima apprendere la tecnica che sta alla base delle varie maschere, mettersi in gioco con tanta improvvisazione per poi fare un lavoro di limatura.

LUCIA: ogni maschera ha le proprie caratteristiche, e seguendo quelle caratteristiche si crea una storia in cui le varie maschere si incontrano.

GAIA: abbiamo pensato a grandi linee a una storia, a un contenuto, e da lì ci siamo mossi con improvvisazioni che mano a mano sono andate a formare le singole scene.

RICCARDO: o anche da cose che non c’entravano niente, fatte prima di avere questo piccolo canovaccio, che però funzionavano, erano divertenti, e quindi abbiamo cercato di inserirle.

MATTEO M: per prima cosa abbiamo scritto un canovaccio a tavolino e ci siamo accorti che era un errore. Scrivendo prima, le cose non funzionavano, invece la scena ti dava quei giochi che a tavolino non riuscivi a trovare. Non si può partire da un testo, è limitante.

MATTEO A: i canovacci classici infatti consistevano in una storia a grandi linee.

LUCIA: il canovaccio originale dà delle dritte, delle indicazioni di cose che devono succedere, però quelle cose bisogna lavorarle sulle scena.

RICCARDO: è l’azione che muove, non il testo.

MATTEO A: anche perché la linea del canovaccio è molto semplice, quindi se ci si dovesse basare solo su quella che è la trama classica ci sarebbe ben poco da rappresentare.

Quanta libertà si può prendere l’attore quando lavora sulla maschera prima e quando lavora sulle varie scene di interazione dei personaggi dopo? Quanto un attore puo intervenire con la propria personalità sulla maschera e sulle scene e quanto invece deve attenersi a quelli che sono i canoni e le regole che rendono la Commedia dell’Arte quel modo caratteristico e inconfondibile di fare teatro.

GAIA: la personalità dell’attore fa tanto. E’ vero che bisogna stare dentro certi schemi precisi, però poi il gioco viene fuori anche dalle caratteristiche dell’attore stesso. 

LUCIA: già l’abbinamento maschera-attore corrisponde alle caratteristiche che quella maschera avrà.

RICCARDO: inizialmente durante il lavoro didattico c’è meno libertà, perché bisogna lavorare attenendosi a determinati movimenti e linguaggi. Ma una volta che questi movimenti vengono metabolizzati, si apre un’infinita di lazzi! Puoi farci quello che vuoi, aggiungendoci poi anche dei modernismi, che non fanno parte della Commedia dell’Arte classica. Per esempio nel nostro spettacolo ce ne sono alcuni.

MATTEO A: la maschera nel complesso dei movimento, della postura, dell’atteggiamento nei confronti degli altri personaggi e dei contrasti, è sempre quella. I due vecchi andranno sempre in contrasto, i due giovani avranno sempre degli impedimenti, il giovane sarà in conflitto col vecchio e così via. All’interno di questi canoni ben precisi l’attore si può esprimere con un lazzo particolare, con una battuta detta in un modo particolare, con un modernismo particolare. La maschera è l’elemento che modifichi di meno, perché dando a una maschera una connotazione moderna è molto più facile uscire dal canone della maschera vera e propria. C’è libertà, ma deve viaggiare su binari ben precisi.

Quindi siete riusciti a inserire lazzi con riferimenti moderni?

RICCARDO: certo, in questo spettacolo Pantalone è a capo di un’azienda di navi, per esempio, e il suo nome è ditta Navigation Corporation and Co. Rimane quindi il Pantalone mercante, il Pantalone che ha le mani nei soldi, però con una connotazione che nel Cinquecento ovviamente non esisteva.

MATTEO A: o ci sono citazioni, per esempio quando la figlia e il dottore si insultano e lui le dà della vegana.

GAIA: sono elementi piccoli ma utili, perché vengono percepiti dal pubblico di adesso.

C’è un qualcosa che caratterizza questo spettacolo da un qualsiasi altro spettacolo di Commedia dell’Arte? Una firma?

MATTEO A: la figura della Tessitrice e la mancanza degli Zanni.

RICCARDO: la non presenza degli Zanni è una cosa un po’ anomala, perché di solito gli Zanni sono onnipresenti in ogni canovaccio.

LUCIA: la Tessitrice fa da raccordo tra le scene e da introduzione: è un po’ il filo conduttore di tutta la vicenda.

MATTEO A: lo Zanni nella Commedia è proprio per eccellenza il “deus ex machina”, è il personaggio che crea scompiglio ed è lo stesso che, spesso involontariamente, riesce a tirare le fila della situazione. Siamo riusciti a trovare un escamotage, non avendo lo Zanni: usare la Tessitrice, che è esterna alla vicenda, può entrare all’interno della storia come e quando vuole, e si rapporta direttamente con il pubblico.

GAIA: lei lo dichiara anche all’inizio: si presenta come un personaggio che ha la capacità di entrare nella storia e di uscirne a piacimento, tramutandosi in un qualsiasi cosa possa essere utile alla vicenda. Questo non fa parte della Commedia dell’Arte classica.

Perché studiare Commedia dell’Arte? Quanto può essere utile per un attore che intraprende un percorso di studi professionale?

MATTEO A: perché è una palestra di teatro che prepara in una maniera eccellente, secondo me. Non so se questo genere più di altri, ma sicuramente questo genere in modo particolare.

MATTEO M: la sua importanza sta anche nel modo di lavorare. Rispetto ad altre tipologie di lavoro teatrale che possono essere molto più psicologice, qui tutto si basa sulla scena, sul movimento, sull’azione, sul corpo e sulla sua dinamica. E’ il movimento che porta alla parola, ed è il movimento che porta la parola.

MATTEO A: ti permette di lavorare sull’incisività della battuta, perché è il corpo che fa cambiare l’attenzione dello spettatore da un personaggio all’altro.

GAIA: ti rendi conto di come un certo tipo di movimento ti porta a un certo tipo di battuta. Una postura diversa ti porta a un diverso modo di impostazione e di intonazione.

MATTEO A: è molto interessante il superamento della fase iniziale di puro lavoro tecnico per arrivare a una spontaneità dell’attore, sia nei movimenti che nelle battute.

RICCARDO: ti permette anche di lavorare sul rapporto col pubblico, perché si ha spesso la possibilità di dire una battuta rivolgendosi direttamente a esso, guardandolo dritto negli occhi. Bisogna puntare il naso della maschera verso il pubblico e cercare di accalappiarlo. A differenza di altre impostazioni teatrali, che sia prosa o altro, dove la presenza della famosa quarta parete è molto forte e il pubblico sostanzialmente non esiste per chi si trova sulla scena, nella Commedia è esattamente il contrario: è quasi come se il pubblico facesse lo spettacolo, e quando si recita si parte dal esso, dalle sue reazioni, dal suo coinvolgimento. Tutto quello che si fa è per ed è in relazione al pubblico. La Commedia dell’Arte si basa su questo.

Il pubblico del Cinquecento era abituato a esibizioni di questo genere e ne riconosceva ogni aspetto e ogni dettaglio. Al contrario, il pubblico di oggi è molto ignorante verso la Commedia, e spesso si trova disarmato di fronte a certe caratteristiche e attitudini che vengono presentati in scena. Ci sono personaggi o storie che devono essere rappresentate con maggiore chiarezza perché alcuni riferimenti che un tempo erano comuni e conosciuti da tutti oggi sono più distanti e non vengono percepiti, o non avete sentito questa esigenza?

MATTEO M: il pubblico segue, anche grazie forse a quel rapporto diretto di cui parlavamo prima. Il pubblico sente molto lo spettacolo, e sente quando le cose funzionano.

LUCIA: e quando le cose funzionano, arriva il momento di far ingranare lo spettacolo ancora di più. Una volta che lo spettacolo ingrana il ritmo giusto, l’attore avverte proprio una specie di botta e risposta tra la scena e il pubblico. Poi magari la gente non è più abituata a questo tipo di spettacolo e quindi all’inizio può rimanere sorpresa, deve ambientarsi e abituarsi ai ritmi, al linguaggio e soprattutto al contatto diretto con l’attore che recita guardandola negli occhi, ma una volta che entra nel gioco, nell’immaginario, il pubblico si diverte tantissimo.

RICCARDO: tutto sta appunto nell’entrare dentro il gioco teatrale. Noi ovviamente abbiamo curato molto il testo, ma quello che è veramente importante sono i lazzi, le situazioni. Ci sono grandi compagnie di Commedia dell’Arte che vanno in Francia o in Giappone e il pubblico muore dal ridere. Ovviamente non si recita in francese o in giapponese, ma si coinvolge il pubblico con i giochi della scena, che sono chiarissimi. Credo che questa sia la vera magia della Commedia dell’Arte.

MATTEO A: forse ora è addirittura nata un’esigenza da parte del pubblico di rivivere almeno in parte quella partecipazione di cui parlavamo prima, che ora non esiste quasi più. Qui a Torino abbiamo visto come il pubblico si sia quasi stupito di quanto si stesse divertendo e soprattutto di quanto venisse preso in considerazione.

MATTEO M: tutto è dichiaratamente falso, ma questo non impedisce al pubblico di percepirlo come assolutamente vero, ovviamente nel momento in cui le cose sono fatte bene. C’è tanta responsabilità da parte dell’attore.

LUCIA: forse questa è la vera risposta alla domanda di prima, perché studiare Commedia: per ritrovare quella comunicazione col pubblico che il teatro ufficiale ha dimenticato o tende a dimenticare. E’ la volontà di comunicare che ci ha spinti a confrontarci con questo genere piuttosto che con altri.

MATTEO M: in realtà la Commedia dell’Arte può essere anche solo un pretesto per ritrovare questo modo di lavorare, che poi può essere riportato in molti altri generi teatrali con la stessa efficacia. La Commedia dell’Arte è una scuola d’attore, una scuola di recitazione.

recensione e intervista a cura di Eleonora Monticone

fotografie di Andreea Hutanu

NÒSTOI/VIEWROOM. Quando il ritorno a casa è un punto di partenza.

Conversazione davanti a un caffè con Andrea Zardi, danzatore, ideatore e regista dello spettacolo Nòstoi/Viewroom, nonché referente all’interno del DAMS di Torino del team di ricerca per gli esperimenti neuroscientifici sulla ricezione della danza in collaborazione con il NIT (Centro Interdipartimentale di Studi Avanzati di Neuroscienze). Lo spettacolo di danza contemporanea andrà in scena venerdì 18 novembre alle Fonderie Teatrali Limone di Moncalieri. Continua la lettura di NÒSTOI/VIEWROOM. Quando il ritorno a casa è un punto di partenza.

INTERVISTA A STEFANO SABELLI: L’ARTE PER VINCERE CONTRO OGNI LIMITE

Ha debuttato in prima nazionale il 29 giugno 2016 (con replica il 30 giugno), in occasione della trentottesima edizione di Asti Teatro, il capolavoro goldoniano LA LOCANDIERA O L’ARTE PER VINCERE nella nuova edizione prodotta dalla Compagnia del LOTO di TEATRIMOLISANI presso il Teatro Giraudi di Asti.

È stata la talentuosa Silvia Gallerano a indossare gli abiti in stile anni ’50 di una Mirandolina che tenta a tutti i costi di intraprendere la via dell’emancipazione. Con lei un asciutto e caustico Claudio Botosso nel ruolo del Cavaliere di Ripafratta e molti altri quali Dario Florio, Eva Sabelli, Giorgio Careccia, Chiara Cavalieri e Andrea Ortis.

La vicenda si svolge nel Delta del Po, in un’atmosfera acquitrinosa e a tratti onirica. Ce ne parla meglio l’eclettico Stefano Sabelli, regista di questa commedia.

Stefano Sabelli BR

 

Sabelli ha creato un riadattamento dello spettacolo di Goldoni, mantenendo fede al titolo originale aggiungendo però un sottotitolo: l’Arte per vincere. Che cosa significa esattamente?

Anzitutto da un lato si tratta di una battuta del monologo pronunciata da Mirandolina – protagonista della commedia – decisa ad andare a sedurre per la prima volta il Cavaliere di Ripafratta, famoso per la sua accesa misoginia, dunque, in questo senso, altro non si intende se non la vittoria del gioco di seduzione e dell’arte femminile; e dall’altro lato questo sottotitolo mi piaceva perché, secondo me, in Italia è rimasta unicamente l’arte come mezzo per vincere qualcosa!

“Visto che gli altri sono sordi mi fingo sordo per mantenere il teatro”, una frase che lei ha riportato in una precedente intervista a proposito di uno spot di cui era protagonista e che appunto si lega un po’ con il discorso precedente. Dunque è davvero attendibile?

(Ride) Sì, sì è verissimo! L’intervistatore mi aveva chiesto come mai avessi scelto di fare pubblicità e io gli ho spiegato che è uno dei tanti mezzi che mi permettono di fare teatro.

Quel “gli altri sono sordi” era chiaramente riferito agli enti pubblici nello specifico e anche ai nostri enti pubblici molisani visto che la compagnia comunque è residente in Molise. Intendevo dire che ormai l’unico modo per fare teatro e soprattutto per mantenere il teatro è anche questo. Io appunto ho mantenuto il teatro facendo la televisione, il cinema e la pubblicità. Non avrei potuto fare il contrario altrimenti, detto molto francamente.

Come al solito la scelta delle sue scenografie non è casuale, al contrario è parecchio significativa e simbolica: ricordo infatti l’utilizzo di una gabbia carceraria nello spettacolo Autodafè del caminante; in questo riadattamento goldoniano si utilizza invece una locanda-palafitta su di un girevole che si muta ora in una nave corsara ora in una casa di frontiera. Perché questa scelta?

Sì, nell’ Autodafè il pubblico si siede in questa gabbia carceraria svolgendo non solo il ruolo di spettatore ma anche di corte giudiziaria; è sicuramente un’esperienza particolare, quest’anno tra l’altro lo riprenderemo proprio a Torino.

Generalmente a livello concettuale posso sostenere che non mi piace lavorare esclusivamente sulla quarta parete, oltretutto in un’idea di teatro contemporaneo diventa riduttivo pensarla in questo modo. Il teatro nei secoli è sempre stato l’arte che ha condiviso e assorbito tutte le arti possibili. Oggi, per esempio, fare teatro senza pensare che esista il cinema, il linguaggio multimediale, senza tener conto delle nuove sonorità che si stanno affermando è impossibile nonché ridicolo; è pleonastico rimanere legati a un concetto dell’ottocento! Ora, questo spettacolo, è molto più tradizionale di quel che può sembrare: noi usiamo un meccanismo girevole che ci permette di creare contemporaneità fra delle azioni teatrali, rispettando comunque le indicazioni presenti nel testo goldoniano. L’unica variante che abbiamo realmente apportato, è un esterno (assente in Goldoni) e un interno, al fine di cercare di mantenere l’azione sempre viva; sapere infatti che l’azione è contemporanea e che perciò un fatto succede subito dopo l’altro in qualche modo ti tiene sul pezzo e mantiene viva la tensione…

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Come mai hai scelto proprio Silvia Gallerano per il ruolo di Mirandolina?

Perché sono rimasto folgorato da La Merda! È stato sicuramente uno spettacolo che mi ha colpito! È forse dal punto di vista interpretativo, uno dei più importanti degli ultimi dieci anni in Italia, non è un caso che abbia ricevuto parecchi premi a livello internazionale! Mi è piaciuta la sua la fragilità, la sua comicità che sapeva far anche commuovere; sotto certi versi mi ha ricordato un po’ Franca Valeri.

Silvia, ti sei chiesta come poteva essere Mirandolina negli anni ’50, rispetto alla Mirandolina settecentesca goldoniana?

Sicuramente la suggestione che avevamo sia io sia Stefano era quella di capire come non far diventare questo testo soltanto un testo di maniera, cercare quindi di tirar fuori una verità: quello che è venuto fuori è la totale verità di Mirandolina, in tutto quello che dice , da quando è maliziosa a quando è innamorata… perciò se dovessimo avvicinarla all’oggi o comunque al secolo passato diciamo che rappresenterebbe un personaggio dalle più svariate sfacettature.

Silvia [interviene Sabelli] ha molte verità ma tutte estremamente credibili, una contraria all’altra, non va per schemi, ed è proprio lì che risiede la sua modernità.

Perché la scelta di ambientare la vicenda negli anni ’50?

Il tutto parte da un’analisi del personaggio di Mirandolina, unica protagonista femminile di tutta la drammaturgia goldoniana, la quale rappresenta il carattere di una donna che non è rivoluzionaria, dal momento che utilizza ancora la malizia delle arti femminili per irretire gli uomini, ma che inizia a presentare tratti di emancipazione femminile. Si tratta infatti di una donna che cerca di affermare una propria identità su tutto e su tutti. Negli anni’50, quando lo abbiamo ambientato noi, sta succedendo esattamente la stessa cosa: io mi sono ispirato a Riso Amaro di De Santis perché lì le mondine diventano in qualche modo partecipi della loro vita, prendendone le redini nelle  loro mani; non dimentichiamoci poi del suffragio universale in Italia del ’46 che segna un periodo di svolta nella storia femminile.

Ovvio Mirandolina non è Rosa Luxemburg , non è nemmeno una femminista lineare, può essere però immaginata come una donna in una fase di pre contemporaneità e dunque di pre modernità in cui decide di rendersi indipendente e libera, esclusivamente con i propri mezzi di seduzione e di spirito d’accoglienza; concetto che peraltro è andato tristemente scomparendo nel nostro Paese.

Mirandolina di fatto è accogliente con i propri ospiti, ma questo, a parer mio, è una dote!

Nella nostra lettura abbiamo inoltre reso la donna maggiormente intrigata dal Cavaliere di Ripafratta, rispetto a quanto lo sia nel testo originale, spingendo su certi tratti di passione amorosa ambigui e non del tutto svelati.

Che ruolo ha la musica in questo spettacolo?

La musica è molto presente: abbiamo deciso di utilizzare il personaggio del marchese di Forlimpopoli (Andrea Ortis) che peraltro parla in veneto e rappresenta una sorta di “dandy fuorimoda”, come baluardo di quel gusto popolare per l’opera lirica, che è tipico della zona della Padania (Parma, Reggio, Ferrara). Per cui per tutta la durata della messa in scena, parla e canta indistintamente arie d’opera e arie di canzonette, come ad esempio “Ma l’amore no” e tante altre dell’epoca. Subentrano poi gli swing di Glenn Miller. Anche per la musica ritorna il riferimento a Riso Amaro e a Ossessione di Visconti, ma anche a De Sica in Ieri oggi e domani: ho infatti ripreso una scena proprio dal duetto tra la Loren e Mastroianni.

Possiamo dire allora che le tue messe in scena risentono parecchio dell’influenza del cinema?

Assolutamente, il cinema influisce particolarmente, soprattutto come linguaggio. Non solo il cinema però, anche l’arte contemporanea. Peraltro a me piace lavorare sui classici in maniera moderna: quest’anno ho deciso di fare un lavoro sul Saul, che ha debuttato su diversi palchi già qualche tempo fa, dando una matrice tutta yiddish, tutta legata alla musica Klezmer mischiata al Requiem di Mozart (contemporaneo di Alfieri) data la sua estrema modernità di linguaggio.

Quando lavoro sui versi penso sempre al cinema, sarebbe impossibile il contrario! Mi sono reso conto che ci sono ormai delle convenzioni teatrali che oggi non reggono più: ho messo in scena , ormai nel 2003, un Romeo e Giulietta che era tutto itinerante, ambientato negli anni ’30 fra il jazz e lo swing, tra due famiglie italo-americane, ho dovuto prendere Diego Florio, che peraltro qui interpreta Fabrizio, ma che ai tempi interpretava appunto Romeo e mia figlia Eva che interpretava Giulietta, qui Dejanira, in quel caso uno aveva 20 anni e l’altra 16, quindi possedevano un’età coerente col testo, ed è stato in quel momento che ho capito che se avessi voluto prendere attori più maturi questo sarebbe stato impossibile, poiché lo spettatore di teatro, come quello del cinema, non crede più ad una Giulietta di 40 anni! Ecco allora, in questo senso, oggi, mi ritrovo “costretto” ad assumere certi linguaggi del cinema, così come sono costretto a tener conto di certe verità. Ed è proprio il cinema che ti costringe oggi a recitare a teatro in maniera non barocca.

Rimane poi il fatto che è bello, secondo me, portare nei classici delle suggestioni che ci sono oggi! Ho fatto ad esempio un Amleto nel 2005 con Giorgio Careccia, portandolo tutto in un’ambientazione giapponese fra samurai, con costumi tipici quali il kimono, e con riferimenti al linguaggio giapponese, inserendoci e mischiando dell’altra musica: all’inizio lo spettacolo si apre sulle note di Elvis Presley per confluire nel duello con le katane fra Amleto e Polonio scandito da “All along the watchtower” di Bob Dylan eseguita da Jimi Hendrix.

(Sorride) La mia cultura in fondo è quella del rock ed esso è il mio vademecum, anche nella mia esperienza teatrale; penso sia proprio questa la bellezza di linguaggi diversi.

A proposito di influssi non occidentali: lei è fondatore del Teatro del Loto, allestito secondo il gusto orientale e curato in ogni minimo dettaglio per garantire versatilità, perché questa scelta di allestimento?

Devo dire che è stata una scommessa, io ero direttore artistico del Teatro Savoia di Campobasso, un giorno entrai in questa sala parrocchiale in occasione di un invito di amici per vedere una commedia di Pirandello, e vidi questo spazio che offriva parecchie possibilità di trasformazione, quindi già da lì mi feci un’idea molto precisa per l’allestimento. Ottenni poi dalla curia la possibilità di rilevarla. Insomma ho fatto un investimento insieme alla cooperativa che ho fondato, e soprattutto privatamente, perché volevo creare uno spazio per i giovani, volevo creare uno spazio propedeutico a tale professione. Ho cercato di creare un luogo il più accogliente possibile, dove gli artisti si potessero sentire a casa.

Oggi molte personalità importanti considerano il Loto come il più bel piccolo teatro d’Italia, e devo dire che sono passati parecchi artisti: da Silvia Orlando a Elio Germano, da Fabrizio Gifuni a Silvia Gallerano, altri come Nanni Moretti, Sgarbi e Gassman ci hanno donato, secondo un’usanza tipica del teatro, la sedia in platea.

Posso affermare con orgoglio che oggi siamo riusciti a creare una compagnia che ha permesso di “coltivare” il nostro territorio, creando delle professionalità assenti prima nel nostro territorio; il cast attoriale e la troupe tecnica è infatti composta totalmente da enti molisani.

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Perché ha scelto di adottare il nome di un fiore?

Nella cultura buddista il fiore del Loto è un fiore che nasce nella stagnazione e i suoi petali sono perfetti nonostante la matrice di melma da cui si formano, questo sta a significare che le cose più preziose si originano da ambienti spesso impervi e dai quali nessuno si aspetterebbe nulla di buono… Io poi l’ho utilizzato anche come acronimo di LIBERO OPIFICIO TEATRALE OCCIDENTALE.

Quanto tempo ha impiegato per la realizzazione del suo teatro?

Eh, ci ho messo ben cinque anni. Mi serviva anche del tempo per trovare i soldi! Penso però che ne sia valsa la pena perché ha reso più felice qualcuno; penso anche a molti attori della compagnia, come Giulio Maroncelli, che qui interpreta il servo, che è proprio cresciuto nel Loto, e come lui, così tanti altri, i quali sono entrati nella compagnia ancora liceali e ne sono usciti professionisti.

Siamo poi riusciti a farci riconoscere come Compagnia dal Ministero dei Beni e della Cultura, nonostante ci siano ancora delle difficoltà a gestire questo spazio, tipiche del mestiere.

Il Loto prevede dei corsi di formazione teatrale anche per bambini, c’è quindi una volontà di “investire” sulle generazioni future nonostante questo momento di crisi per il teatro e per tutta la cultura?

Direi proprio di sì, ritorna infatti il concetto di “arte per vincere”, l’arte per vincere le paure della propria vita, l’arte per vincere la propria condizione sociale, poiché se si ha talento nessuno può fermarti; certo, siamo in un Paese dove questo non viene riconosciuto, ma se lo si possiede ci si può allora permettere di “scappare”, di abbandonare qualunque condizione si abbia, sia essa di povertà o di ricchezza. Il talento, difatti, aiuta a vincere la vita, a superare i propri limiti, è l’unica possibilità, secondo me, nel mondo occidentale…

L’arte poi sta anche per mestiere, dunque l’Arte per vincere è l’industriarsi per vincere, il mettere in gioco se stessi, che è poi quello che fa qui Mirandolina e che dovrebbe fare anche questo Paese, dunque anche qui i bambini imparano a mettersi in gioco con loro stessi sin da subito.

È solo l’arte che consente di andare oltre al proprio limite, permettendo un riscatto personale e aiutando gli altri a stare bene. In fondo avrei potuto inserire come sottotitolo l’Arte per vincere appunto o l’Arte per essere felici e sarebbe stata la stessa cosa!

Adesso quali sono i suoi progetti futuri?

Subito dopo la Locandiera, mi accingo a interpretare Re Lear, attraverso uno studio sulla pazzia nella senilità del potere e nella famiglia. Mi auguro possa andare al meglio!

 

Martina Di Nolfo

 

 

ASTI TEATRO 38

Direzione Artistica: Comune di Asti

 

Mercoledì 29 giugno – ore 20

Giovedì 30 giugno 2016 – ore 19

 

presenta

in Prima Nazionale

 

una produzione

 

Teatro del LOTO

Libero Opificio Teatrale Occidentale

di TeatriMolisani – Ferrazzano CB

 

 

Silvia Gallerano (Mirandolina)

Claudio Botosso (Cavaliere di Ripafratta)

 

in

LOCANDIERA

o l’Arte di Vincere

di Carlo Goldoni

 

 

 

 

 

adattamento e regia Stefano Sabelli

 

con

Giorgio Careccia – Conte di Albafiorita

Andrea Ortis – Marchese di Forlimpopoli

Chiara Cavalieri – Ortensia

Eva Sabelli – Dejanira

Diego Florio – Fabrizio

Giulio Maroncelli – il Servo

Piero Ricci – il Fisarmonicista muto

 

scene Lara Carissimi

decorazioni sceniche Michelangelo Tomaro

costumi Martina Eschini

disegno luci Daniele Passeri

aiuto regia Giulio Maroncelli

foto di scena Mauro Presutti

 

Teatro Giraudi (Asti)

PPP. ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE omaggio a Pier Paolo Pasolini

Carignano mezzo pieno, in scena una montagna di pneumatici bianchi

Un uomo entra e urla al pubblico parole forti, di impatto, quasi aggressive.  Viene raggiunto da cinque donne che iniziano una coreografia fatta di movimenti nevrotci e ripetitivi su una musica rock e martellante.

Questo il primo quadro dello spettacolo firmato Ricci/Forte andato in scena la sera del 10 giugno al Teatro Carignano in occasione del Festival delle Colline Torinesi.

“Ci interessa che il pubblico, uscito da teatro, trovi la forza di svegliarsi, addrizzare la schiena, rimboccarsi le maniche e cambiare questa situazione drammatica che nemmeno Pasolini poteva immaginare sarebbe arrivata così presto così a fondo”

Ecco alcune parole rilasciatemi durante l’intervista con Stefano Ricci. Un’ occasione per riflettere sul senso del teatro oggi e sul senso di mettere in scena la parte poetica di un intellettuale così profetico e allo stesso tempo così frainteso e mistificato.

Sul palco si alternano scene scritte  e dirette con grande maestria dai registi, interpretate con forza e precisione dai performer. Vediamo il circo con personaggi assurdi e contemporanei, la danza con coreografie potenti e spettacolari , la video-art con fondali colorati a creare l’atmosfera e frasi proiettate semplici e d’impatto.

Il tutto legato dal filo rosso della poetica pasoliniana più profonda.

Si parte dalla letteratura, un romanzo: Petrolio. Testamento filosofico dello scrittore che ci porta a esplorare il suo universo. Attenzione però.. non si parla mai della sua vita o dei vari scandali che gli sono stati affibbiati, bensì della sua vocazione etica e di denuncia sulla società contemporanea, borghese e consumistica.

“Noi viviamo all’estero -prosegue Ricci- e ogni volta che torniamo in Italia sbattiamo contro questa realtà  opprimente e stagnante. Vogliamo con questo spettacolo segnare una svolta rispetto a tutto quello che si è detto e messo in scena su Pasolini ma soprattutto rappresentare la crisi che viviamo noi (artisti italiani del nostro tempo) davanti questa perdita di valori e dignità”

Parole forti e sentite che ho metabolizzato in un paio di giorni come studente di spettacolo e aspirante artista.

Intanto in scena ascoltiamo generi di musica che vanno dall’ elettronica più attuale  alle canzoni nazional-popolari italiane. Siamo colpiti dall’alternanza di dialoghi e  monologhi ironici,stranianti, provocanti.

Quadri con una forza comunicativa fenomenale fatti di allusultimo inventario-2ioni sessuali mai volgari, slogan contemporanei riprodotti all’infinito, climax emotivi da capogiro.

C’è spazio anche per alcune delle interviste registrate tratte da Comizi d’amore , altra opera dell’eclettico intellettuale che tutti dovrebbero conoscere.

Ecco, una critica negativa che mi viene in mente è relativa alla poca comprensibilità di alcune scene per un pubblico non così addetto ai lavori.

Conclusa la recita e dopo svariati minuti di applausi, tutti gli artisti coinvolti (performer e registi) sono stati disponibili nel rispondere alle domande della “Mezz’ora con…” , formula che permette al pubblico di confrontarsi e fare domande ai teatranti.

Vi lascio con quello che Ricci mi ha detto rispetto al rapporto con il festival di cui sono ospiti:

“Con il Festival delle Colline c’è un rapporto di amicizia e stima che dura da anni, come con tutti i partner che ci sostengono e condividono con noi l’esperienza di veder messo in scena uno spettacolo che è frutto di un lavoro comune e partecipato, nonchè sudato e modificato col tempo.”

E chi non fa questo mestiere difficilmente può capire questa magia. Mi permetto di aggiungere io.

Buon teatro a tutti!

 

di RICCI/FORTE
regia Stefano Ricci

con Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Giuseppe Sartori, Catarina Vieira
produzione RICCI/FORTE
coproduzione  CSS TEATRO STABILE DI INNOVAZIONE DEL FVG, FESTIVAL DELLE COLLINE TORINESI

in scena al Teatro Carignano

 

Intervista a Maria Luisa Abate della Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa

Qualche domanda rivolta all’attrice Maria Luisa Abate, tra i fondatori della compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa.
Il tema dell’intervista verte principalmente sullo spettacolo “Bersaglio su Molly Bloom” (in scena a Torino dal 3 all’8 maggio), passando dalla scenografia di Daniela Dal Cin, all’influenza della poetica di Marco Isidori sugli attori della compagnia.