Archivi categoria: Danza

TEMPORAL – BTT, JULIA KENT

Se mi venisse richiesto di definire questo spettacolo con poche parole, immediatamente penserei a : flusso – energia – libertà.

Sono effettivamente queste le sensazioni che ho percepito nella sera di sabato 18 gennaio 2020 nella sala della Lavanderia a Vapore di Collegno.

Ho assistito a Temporal, uno spettacolo di danza, che vede come protagonista il Balletto Teatro di Torino, accompagnato dal vivo dalle note di Julia Kent, violoncellista canadese di fama internazionale.

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PALCOSCENICO DANZA 2020

Definito come eclettico, ricco, e danzato, il programma di Palcoscenico Danza è stato presentato mercoledì 15 gennaio presso il teatro Astra, casa e cuore artistico sia della fondazione TPE che del lavoro di Paolo Mohovich, direttore artistico e pioniere di questa rassegna che si prospetta da subito un contenitore di tanta italianità ma con una mano tesa a numerose realtà estere.

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FUTURE MAN – spellbound contemporary ballet

Sentiamo l’esigenza di capire, dare un senso a tutto quello che osserviamo: fuori, dentro accanto al nostro corpo. Non sempre il significato emerge ad una prima visione, e senz’altro “Future man” necessita di più sedute per poterne cogliere particolari necessari alla comprensione della narrazione, che a volte si fa elusiva per lasciare spazio ad un movimento stimolante per l’occhio dell’osservatore.

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COLLECTIVE TRIP – una questione di gender

Martedì 12 novembre è stato ospitato alla Lavanderia a Vapore Collective Trip, spettacolo che inaugura la 36esima Stagione di Danza del Balletto Teatro di Torino.
Gli artisti della compagnia salernitana Borderline Danza, partendo dal loro interesse di esplorare le specificità e i confini della creazione artistica e compositiva, si sono confrontati con temi quali l’amore nelle sue differenti sfaccettature, le trasformazioni, la propria identità, il gender.

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nid platform 2019 – Open studios

Si è tenuta dal 10 al 13 ottobre di quest’anno la nuova edizione della NID Platform, la vetrina della nuova danza contemporanea che porta in scena le migliori produzioni di danza italiana e le presenta a un pubblico mirato di operatori teatrali italiani e stranieri (direttori di teatri, di festival, di circuiti, ecc.) affinché essi acquistino tali produzioni per inserirle nei propri cartelloni. La precedente NID risaliva al 2017 e si era tenuta a Gorizia, in Friuli-Venezia-Giulia. Quest’anno la vetrina è stata ospitata dalla città di Reggio Emilia, con il supporto di Ministero, Regione e Comune oltre a quello ormai consueto del grande raggruppamento di numerosi operatori italiani. A questi si sono poi aggiunte le due più importanti realtà della città emiliana, la Fondazione I Teatri Reggio Emilia e la Fondazione Nazionale della Danza Aterballetto, due punte di diamante nella produzione e distribuzione di danza in terra nostrana.

Per il nostro blog abbiamo assistito la mattina di sabato agli Open Studios che si sono tenuti nella Fonderia, lo spazio dove di norma prova e lavora Aterballetto. Quello degli Open Studios è un formato breve, pensato apposta per consentire la presentazione di più spettacoli in un tempo ridotto: massimo venti minuti di durata per ogni compagnia. Grazie a questo pretesto i lavori possono essere presentati anche non ancora ultimati, di modo da cercare un supporto produttivo che ne consenta la continuazione creativa. Un pratico mercatino allestito a fianco al palco consente agli operatori di chiarirsi le idee discutendo con i rappresentati delle produzioni presentate. Sette dunque, grazie al formato breve, gli ‘studi aperti’ che abbiamo potuto vedere e commentare.

Il primo lavoro, OPACITY #5 di Salvo Lombardo, è una delle diverse estensioni del suo spettacolo Excelsior, nel quale l’autore aveva tentato una possibile riattualizzazione in chiave post-coloniale dell’ottocentesco Gran Ballo Excelsior. Queste estensioni, raccolte sotto il titolo Opacity, sono dunque un formato più adattabile del progetto Excelsior, pensato per un solo performer e di esito più performativo che coreutico. Queste iniziative, utilizzando narrazioni alternative a quelle del sapere etnocentrico dominante, mirano a decostruire l’immaginario neo-coloniale dell’Occidente contemporaneo. Per sviluppare questa serie di “eventi cornice” allo spettacolo Excelsior (originariamente definita Around Excelsior), lo ricordiamo per i lettori torinesi, il giovane autore fu ospite nel 2018 della Lavanderia a Vapore dove ebbe la possibilità di incontrare curatori e insegnanti di arte, studiosi di antropologia, di teatro e di danza. In OPACITY #5 Lombardo ha voluto riflettere sul tema dell’oscenità: all’inizio del lavoro lo stesso autore entrando in scena parla a un microfono, esponendo teatralmente alcune elucubrazioni sul tema (“Io sono osceno, osceno è tutto ciò che mette fine allo sguardo, osceno è ciò che pone fine al teatro, ecc.”), dopodiché prende a ondeggiare leggermente con il bacino, mentre sullo schermo collocato al centro del palco va in onda un porno gay, sulla musica del Nabucco verdiano. L’idea del video porno e la stessa performance di Salvo non ci sono sembrate entusiasmanti, ma vedremo come e se procederà il lavoro, che sta ancora cercando sostegni alla produzione per essere ultimato, così come gli altri Opacity stanno cercando una distribuzione.

Il secondo lavoro è di Daniele Ninarello, che ha presentato un pezzo che debutterà a novembre, Pastorale. Il coreografo afferma di aver voluto descrivere il ritorno a una passata vita idilliaca nella quale gli esseri umani erano tutti in grado di vivere all’unisono. Lo stesso Ninarello ha preferito non definirsi coreografo di quest’opera, poiché essa è più un sistema di movimento che una coreografia vera e propria. Ed effettivamente è così dal momento che i quattro danzatori vestiti casual si muovono delicatamente sulla scena senza mai arrestarsi, eseguendo prevalentemente camminate nello spazio, alle quali aggiungono lentamente alcuni semplici schemi di movimento degli arti superiori, reagendo ognuno in base al movimento degli altri. Molto vicino concettualmente al precedente ed apprezzabile lavoro di Ninarello, il giacomettiano Still, questo ci sembra meno chiaro e meno originale, forse penalizzato dai venti minuti richiesti dal formato. Se è effettivamente interessante l’aleatorietà intrinseca all’idea compositiva, la nostalgia per una atavica dinamica di cooperazione non basta da sola a darle contenuto.

Il terzo lavoro, Annotazioni per un Faust/Evocazioni, di Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli (artisti associati alla Compagnia Abbondanza/Bertoni) a primo impatto ci convince di più: sei danzatori, un chitarrista, musiche originali, un tronco sospeso in mezzo alla scena. È buono il lavoro di composizione, sono apprezzabili le coreografie d’insieme, il tutto è abbastanza ben danzato, ma soprattutto è danzato ed è anche coreografato, a differenza delle due presentazioni precedenti. Non è chiarissimo dove il lavoro voglia andare a parare, e se si vuole trovare un difetto va detto che al tutto manca un poco di carattere, ma forse la colpa è di nuovo del formato obbligato. In questo caso infatti i minuti si riducono a dieci, dal momento che gli spettacoli presentati da Monza e Rossi Valli sono due: il primo, Annotazioni per un Faust si interrompe a metà per lasciar spazio subito dopo al secondo, Evocazioni, un pezzo di teatrodanza realizzato con il supporto delle testimonianze dell’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano.

Nel quarto lavoro Claudio Massari riflette con tutt’altro registro linguistico sui luoghi comuni del contemporaneo, dalle questioni politiche a quelle di genere, ovviamente interconnesse. Comico fin dalle entrate iniziali, lo spettacolo funziona molto bene presentando un impianto drammaturgico solido e coerente. Quattro stravaganti creature con ridicolo corpetto nero e parrucche arancioni sostengono un buonissimo ritmo fatto di danza, gesti pantomimici, versi e cori, giocando con gli stereotipi della società italiana. Il pezzo forte dello spettacolo sono infatti le sagaci canzoncine che i quattro intonano, prendendosi gioco della media borghesia, dei politicanti, della crisi e del decreto sicurezza. Tra coreografia e cabaret, ritorna alla mente quel Tavolo Verde di joossiana memoria, che qui diviene un tavolo decisamente postmoderno e italiota, forse più post-coloniale di altri progetti che si dichiarano tali. Il pubblico concede il meritato applauso a dei C&C effettivamente brillanti, forse gli unici che hanno tratto vantaggio dallo short format.

È di Francesca Foscarini e Cosimo Lopalco il quinto lavoro, PUNK. KILL ME PLEASE, ispirato alle figure di Sid Vicious e Nancy Spungen e al fenomeno musicale punk. Due danzatrici, la Foscarini stessa e Melina Sofocleous, con due coperte colorate legate sulla testa con del nastro adesivo alla maniera degli sceicchi arabi, fanno le disc jockey con vari brani di musica punk attraverso un rudimentale giradischi appoggiato per terra sulla destra del palco. Con le coperte e il nastro di carta realizzano poi varie performance, liberamente ispirate al mondo punk, vagamente anni Settanta, non particolarmente coinvolgenti. Niente coreografia dunque per questo lavoro embrionale, ancora in cerca di finanziamenti per essere sviluppato. Piuttosto che performativamente british (o forse poi soltanto mitteleuropea) la preferivamo nella corporeità più “israeliana”, ricordandola nel bel lavoro Gut Gift di Yasmeen Godder.

Il sesto lavoro è quello di Vincent Giampino, danzatore recentemente tornato dall’esperienza olandese dell’S.N.D.O., intitolato Grand Prix, nel quale l’autore cerca di instaurare un ponte intergenerazionale con Cristina Rizzo, autrice di culto della danza contemporanea italiana. Ciononostante, quello che al pubblico di operatori è concesso di vedere sono dei minimi movimenti in scena di Giampino e su due schermi alcune riprese a mezzo busto di Giampino e Rizzo che danzano in pieno stile Rizzo. Il tutto su un sottofondo musicale che alterna il barocco alla techno. Troppo poco per decretare le sorti di uno spettacolo che, almeno a un primo sguardo, odora di arte concettuale volutamente ermetica.

Settimo e ultimo lavoro, Home di Daniele Albanese, anch’esso in cerca di finanziamenti, “dedicato a chi non ha casa o a chi deve abbandonarla, ma senza essere un lavoro politico” (queste le dichiarazioni dell’autore). Albanese spiega agli operatori che i formati possibili del lavoro potranno essere molteplici, ma che dipenderanno ovviamente dal processo creativo e soprattutto dai sostegni che arriveranno o meno. Per la NID l’autore si limita a mostrare alcuni movimenti semplici, slegati l’uno dall’altro, che si incastrano ad alcuni concetti che contemporaneamente lo stesso Albanese enuncia danzando, con gli occhi bendati. Evidentemente molto deve essere ancora pensato e creato di questo Home, il quale di nuovo ci presenta troppo poco perché se ne possano trarre delle considerazioni.

A mattinata terminata la prima riflessione che emerge da uno sguardo critico è così riassumibile: in questi Open Studios c’è tanta performance e poca coreografia. Che l’idea di un formato così breve abbia intimorito i giovani coreografi, che per scrupolo avrebbero optato per la realizzazione di un “prodotto artistico” piuttosto che di uno coreutico tout court? O che forse le nuove tendenze della danza italiana stiano andando effettivamente verso uno stile più performativo che non danzato, sulla scorta dei classici francesi della non-danza? Se così fosse potremmo vedere la prossima NID ribattezzata in NIDP, New Italian Dance and Performance. Nonostante le facili critiche, il risultato della vetrina è generalmente positivo, un buon bilancio di pubblico, di networking, di progettualità e si presume anche un buon ritorno economico per la città di Reggio Emilia. È infine doveroso rivolgere i complimenti all’organizzazione generale della NID, che in quanto ad allestimenti, tempistiche, spostamenti, servizi e disponibilità si conferma assolutamente imbattibile.

Tobia Rossetti

LA FAMIGLIA DI PEEPING TOM SPIEGATA DA YI-CHUN LIU

Il pubblico di Torinodanza ha assistito alle creazioni della Peeping Tom, l’acclamata compagnia belga fondata da Gabriela Carrizo e Frank Chartier, che per la prima volta presenta in Italia la trilogia della famiglia. In tre serate abbiamo visto Vater(padre), Moeder(madre) e Kind(Figlio) a testimoniare la lunga ricerca con cui la Peeping Tom ha esplorato i più inquietanti meccanismi che governano i nuclei familiari dei nostri tempi.

Tra rappresentazione della realtà così come è e vivificazione di una fantasia evasiva, tra il concreto della vita e l’astratto dei sogni la ricerca coreografica condotta ha portato alla formazione di una danza surrealista, a una chiara drammaturgia che si avvale di una personale visione della scena e del suo utilizzo. Ma come un coreografo riesce a produrre un’opera danzata? Qual è il lavoro di inscrizione corporea che si effettua coi danzatori? Tutto questo ci viene spiegato da Yi-chun Liu.

Classe 1985, originaria di Taiwan, Liu inizia il proprio percorso di formazione artistica alla tenera età di 5 anni studiando la tecnica marziale del Kung-fu e avvicinandosi allo studio del balletto, della danza contemporanea e proseguendo con le analisi dell’improvvisazione, della Martial Arts e del Tai-Chi-Dao-In. Entrando nella compagnia Peeping Tom nel 2013 ha partecipato alla creazione di Vader come anche nelle successive due creazioni della trilogia nel 2016 e del recentissimo Kind.

Questa volta però Liu viene invitata dai danzatori del Balletto Teatro di Torino e dagli allievi della scuola per analizzare assieme i personaggi delle tre pièce, caratteri molto diversi tra loro seppur frutto dell’ingegno di un unico coreografo.

“Certo è che anche i danzatori hanno partecipato attivamente alla genesi e costituzione di questi caratteri”, afferma la danzatrice “eppure non posso spiegarvi il processo e la danza pensata che abbiamo pensato, creato e proposto; quello che posso fare e raccontarvi come io l’ho vissuta, quello che ho imparato e quello che mi è stato trasmesso”.

Dalle parole di Liu emerge l’immagine di un prodotto collettivo, un processo creativo che trova scaturigine dalla ricerca di figure, immagini e idee. A prevalere sono quelle costrittive che limitano i danzatori – “come esseri intrappolati nella carnalità corporea. Vedere solo uno spiraglio … una finestra, forse posta un po’ troppo in alto … non si può raggiungere”.

La ricerca di un movimento significativo procede inoltre con la coesistenza di due dimensioni, quelle che la forma del teatro per sua natura richiede sia presenti: una è data della scena, fisica e reale, l’altra è costituita dall’immaginario mentale, da forme e situazioni che risiedono nella mente degli esecutori. I danzatori studiano il “cosa possono dare” e “come posso agire” nell’ambiente creato dai coreografi. La realtà dei danzatori si presenta molto più ampia e dettagliata rispetto a quello che il pubblico riesce a percepire eppure è proprio questa dimensione immateriale che dona significato allo spazio fisico della scena che si fa simbolo vuoto da riempire di senso.

Il workshop proposto da Liu di Dance Physical Theatre ha cercato di spiegare questa filosofia di costruzione artistica. Sentire lo spazio che ci circonda e che abitiamo, i suoi colori e i suoi suoni. Conosciamo gli attori che con noi condividono la “scena dalla sala”? Imponiamoci dei limiti, delimitiamo il nostro spazio di azione: è un cubo. La testa e piedi sono i limito del corpo.

Procede così una ricerca personale: dal limite al movimento, dallo sguardo alle motivazioni o sviluppo intenzionale … l’effetto emozionale arriva da una sensazione fisica o da uno stato d’essere. “Così facendo l’azione che agiremo non sarà mai attoriale ma naturale”.

SUTRA – TorinoDanza

Collegare con un filo due necessità: quella di esprimere l’immagine personale ed intima di un viaggio alla riscoperta del proprio ruolo nella società e della propria persona, insieme ad una volontà di strizzare l’occhio allo spettatore componendo uno spettacolo di forte impatto visivo. 

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D.A.K.I.N.I.

L’im-possibilità di un’isola

“Divenuto totalmente dipendente, conosco il tremito dell’essere, l’esitazione a sparire.”

(Michel Houellebecq)

“Vita mia, vita mia, mia antichissima vita,

mio primo voto mal richiuso,

mio primo amore infirmato,

sei dovuta ritornare.

Chi sono queste creature misteriose e imperturbabili che da una distanza di millenni contemplano la sparizione dell’antica umanità, il suicidio collettivo che ha spalancato all’uomo le porte dell’immortalità? Le gioie dell’essere umano restano loro inconoscibili, i suoi dolori e desideri quasi impercettibili, le loro notti non vibrano più di terrore né di estasi…

Il suo ultimo clone (nel nostro caso cyborg ndr) riscoprirà il fascino della sofferenza e della libertà, e il gusto della ribellione … In fondo all’abisso del nichilismo verrà così rivelata l’ultima verità e speranza: …

 … in cui tutto è facile,

in cui tutto è dato nell’attimo;

esiste in mezzo al tempo

la possibilità di un’isola.”

Queste parole che potrebbero in maniera incredibilmente appropriate riferirsi allo spettacolo D.A.K.I.N.I. in realtà si riferiscono a un romanzo di Michel Houellebecq: “La possibilità di un’isola”.

Mi sono chiesta cosa esattamente mi avesse colpito di D.A.K.I.N.I. tanto da rievocare nella mia memoria le parole esatte di un romanzo che avevo letto oltre 10 anni prima e la risposta è proprio: la memoria, o meglio l’importanza che si dà alla memoria. Infatti, in entrambi i casi vengono descritti scenari apocalittici di un futuro lontano e fanta-scientifico nei quali l’unica cosa che può ancora renderci umani è la sopravvivenza di una memoria personale e collettiva non solo per la costruzione di un’identità ma per la sopravvivenza stessa dell’identità. La sopravvivenza di una memoria ancora prima che di un corpo, indica la necessità di un’umanità data da una coscienza ancora prima che da una genetica. Può una coscienza “re-(e)sistere” a prescindere da un corpo? In apparenza, lo spettacolo portando alle estreme conseguenze l’alienazione dal corpo, sembrerebbe rispondere di sì.

Questo dualismo soggetto-oggetto vede contrapposti i due aspetti di coscienza e corpo come entità separate a cui il pensiero filosofico spesso si vede costretto ad affermare il primato dell’uno sull’altro. Più spesso, come in questo caso, il primato della coscienza sul corpo.

Lo spettacolo D.A.K.I.N.I. racconta di una società ormai esclusivamente maschile che ha sostituito le donne con cyborg, Intelligenze Artificiali, a cui periodicamente viene cancellata la memoria per evitare che possa insorgere in loro, attraverso la rimembranza delle esperienze, la coscienza di un’identità.

Per raccontare il primato della coscienza sul corpo si fa ricorso alla danza, linguaggio che ha come statuto ontologico stesso il corpo dichiarando sin dall’inizio il desiderio di partire dal corpo per arrivare alla sua “smaterializzazione”. È nella qualità dei corpi che si manifesta il linguaggio della danza. Così un corpo per terra trascinato via come fosse un involucro vuoto, una bambola di lattice, ci introduce subito, proprio per quell’incredibile qualità che manifesta, nella dimensione della danza a prescindere dalla componente musicale o ritmica. Anche nell’immobilità le caratteristiche di quei corpi, attraverso per esempio la tensione dei muscoli che definiscono un fisico asciutto e scolpito, raccontano la permanenza della danza impressa nella carne.

La musica in questo spettacolo è spesso sostituita da suoni ed elementi che evocano scenari cibernetici, o da voci alterate, dal timbro grave, ricavato come conseguenza di un lavoro sul corpo più che da modificatori sintetici come ci aspetteremo in un contesto del genere. La musica viene spesso utilizzata per rievocare un passato che non sembra esistere più ma che, con la riacquisizione della memoria, riemerge per definire atmosfere e stati d’animo.

Lo spazio è completamente vuoto, un grande schermo bianco riempie tutta la parete di fondo, anche questo metafora di una memoria vuota sul quale sarà necessario far scorrere i filmati del passato per ricostruire la coscienza di cui abbiamo parlato. Solo in proscenio in prossimità degli spettatori vediamo un isolotto tecnologico delimitato da led all’interno del quale due figure androgine, attraverso l’utilizzo di computer, mixer, videoproiettori e microfoni, orchestrano l’intero spettacolo. Luogo della regia di questa umanità maschile, posto sotto gli occhi degli spettatori, che dirige simulacri con fattezze femminili per e a suo piacimento. Eppure il vero luogo dove accadono le cose è e rimane per tutto lo spettacolo il corpo. Il corpo che frapponendosi tra i proiettore e il telo bianco del fondo, diventa schermo su cui proiettare le immagini, su cui innestare luci e parti cibernetiche, il corpo che privato di una sua coscienza diventa oggetto per riacquisire con la memoria, attraverso un percorso di coraggio e ribellione, la propria soggettività.

In questo senso e con questo senso danzatrici donne danzano e narrano i soprusi di un maschile che incombe come ombra minacciosa e silenziosa, presente solo nelle cicatrici che lascia sui corpi, deturpati e annienti, involucri apparentemente vuoti privati della propria identità/memoria. Il nome D.A.I.K.I.N.I. è fortemente e volutamente evocativo. Dakini sono nella tradizione indiana figure femminili, ancelle di Kali, che si nutrono di carne umana, spiriti matrigni carnefici dei propri figli e dei propri uomini. Ma sono anche secondo la traduzione buddista tibetana “le Danzatrici del Cielo” traducendo in maniera più poetica la parola “khandro“, che letteralmente significa “colei che va in cielo”, o “colei che si muove nel cielo”. Colei che danza nel cielo, quindi, che è libera, libera grazie all’aver superato gli ostacoli e i limiti della mente comune. La parola Dakini che nello spettacolo si riferisce a un cyborg specifico in realtà è plurale, una pluralità di Dee, una pluralità di forme della Dakini che sono diverse fra loro come possono esserlo le singole fiamme dell’unico fuoco.

D.A.K.I.N.I. è dunque metafora posta ad indicare tutte le donne o se vogliamo il femminile in generale. Questo però è uno spettacolo di genere che vuole andare oltre il genere dimostrando come labili siano oggi i confini delle categorie che siamo abituati a conoscere. Il cyborg infatti è una creatura che vive in un mondo post-genere in cui natura e cultura sono rimodellate, le distinzioni tra naturale e artificiale, corpo e mente, maschile e femminile, autosviluppo e creazione e altre ancora che permettevano di distinguere gli organismi dalle macchine, sono divenute molto vaghe.

Secondo la studiosa statunitense Donna Haraway, capo-scuola della Teoria cyborg come branca del pensiero femminista che studia il rapporto tra scienza e identità di genere, la cultura occidentale è sempre stata caratterizzata da una struttura binaria che non è simmetrica, ma che è basata sul predominio di un elemento sull’altro. Come già anticipato in precedenza parlando della dualità tra soggetto-oggetto, nella tradizione occidentale sono esistiti persistenti dualismi che, come sostiene Haraway:

sono stati tutti funzionali alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, sulla gente di colore, sulla natura, sui lavoratori, sugli animali: dal dominio cioè di chiunque fosse costruito come altro col compito di rispecchiare il sé.

Haraway introduce quindi la figura del cyborg, che da invenzione fantascientifica diventa anche questa metafora della condizione umana. Di fronte a questa nuova realtà utopica, che potrà essere resa possibile dai crescenti progressi della tecnologia informatica, i concetti tradizionali di classe, razza, sesso, genere, corpo, identità, sono destinati a sparire.

Eppure già nel 1942 lo stesso Merleau-Ponty intravedeva una tesi anti-dualistica, cominciando a proporre il superamento dei dualismi almeno nella relazione soggetto-oggetto, individuando il corpo umano come luogo della relazione unitaria tra corpo e mente. Aprirsi al mondo partendo da un corpo significa guardarlo da una prospettiva situata in uno spazio e in un tempo.

Ma nello spettacolo che elimina la prospettiva spazio-temporale probabilmente l’unica via possibile che rimaneva al corpo era proprio quella del cyborg, corpo su cui sono stati impiantiti elementi artificiali che ne hanno potenziato il funzionamento facendolo diventare un super-corpo al quale non rimane che ricondurre un super-io, che secondo la teoria psicoanalitica rappresenta il censore che giudica gli atti e i desideri di ogni essere umano.

Il super-io, come è noto, porta alla frantumazione dell’Io ed alla sua successiva modificazione, in quanto vengono da esso assimilati modelli derivanti da imposizioni altrui. Il cyborg/donna/super-corpo dal super-io viene di fatto costruita a posta per ricevere imposizioni dall’unico embrione di umanità rimasta quella maschile. Inoltre la danza, e più in generale lo spettacolo dal vivo, sono stati oggetto di una retorica dell’effimero portata a formulare un’ontologia dell’impermanenza e della sparizione che è come vedremo il punto di arrivo dello stesso spettacolo.

D.A.K.I.N.I. e le sue sodali creano un nuovo modo di muoversi e interconnettersi con il Tutto, la smaterializzazione dei corpi, un movimento di particelle libero nello spazio e nel tempo.

Così si conclude la nota allo spettacolo che viene distribuita prima dell’ingresso in sala.

Rifacendosi nuovamente al significato della parola dakini intesa come il nome delle divinità buddiste tibetane, in termini più generali dakini viene indicato quale principio femminile come sottile flusso di energia che attraversa tutto il mondo fenomenico e quindi in primo luogo la natura. Ecco la smaterializzazione dei corpi per interconnettersi al Tutto.

Questa solidarietà tra cyborg/donne risvegliate da una coscienza ritrovata che decidono di rinunciare ai loro corpi, sembra richiamare nuovamente Haraway quando dichiara che chiamarsi femminista e voler affermare il proprio femminismo è divenuto difficile, perché nominarsi significa anche escludere e le identità sembrano essere contraddittorie e parziali. Di fronte alla crisi dell’identità politica della sinistra e del movimento femminista, un passo in avanti può essere costituito dalla rinuncia a ricercare una unione basata sull’identità in favore di una coalizione basata sull’affinità.

Questa affinità, sun pathos, di cui parla Haraway vede la sua realizzazione nella smaterializzazione di quel corpo che avevamo riabilitato, attraverso il superamento dualistico soggetto-oggetto, a rappresentare l’identità a favore di un interconnessione con il Tutto.

Proprio perché è stato il mio primo spettacolo di danza contemporanea di cui vado a restituire un’orma come testimone di tale esperienza, la mia concentrazione massima è stata rivolta proprio allo statuto ontologico di ogni discorso sulla danza: il corpo. Così l’idea che questo spettacolo si concludesse con un anti-danza smaterializzando il corpo mi intrigava.

Durante tutto lo spettacolo ho aspettato quella “smaterializzazione dei corpi” e mi sono chiesta curiosa come intendessero rappresentarla.

Arrivati alla conclusione un drappo rosso come fosse un’amaca viene calato dall’alto fino a toccare terra e riempie da parte a parte lo schermo bianco della parete di fondo. Le due donne cyborg e le due figure androgine della regia si spogliano completamente e si sdraiano tutte e quattro dentro quel drappo rosso, si spengono le luci dei riflettori poi quelle dei led dell’isola della regia, le intelligenze artificiali tacciono, i suoni metallici e digitali scompaiono…Buio. Fine.

Mi sono chiesta: la scelta della nudità come “smaterializzazione dei corpi” (???!!!???)

Si riaccendono le luci, il pubblico applaude e applaude e applaude, qualcuno urla “brave” poi voci sommesse, applausi sempre più forti e voci tra il pubblico che si fanno sempre più nitide: “ma non escono?” “non vengono a prendere gli applausi?” E capisco… la scena vuota, il pubblico che invoca le danzatrici, l’applauso che scema, il pubblico che si alza, esce, lo spazio si svuota, rimangono i mixer, luci a led spente, drappi abbandonati, teli vuoti, faretti inermi, computer con schermi neri in standby. Mentre esco mi volto ancora una volta a guardare la sala che adesso è completamente vuota e capisco… ora è finito: “la smaterializzazione dei corpi.”

Esiste in mezzo al tempo la possibilità di un’isola? Per D.A.K.I.N.I. e le sue sodali probabilmente no ma per noi spettatori si nell’eterotopia, per citare Foucault, dell’esperienza dello spettacolo dal vivo.

Performer: Federica Guarragi – Isadora Pei – Teresa Ruggeri – Camilla Soave

Regia + Visual Art: Isadora Pei

Drammaturgia: Emanuele Policante

Musica originale: Carlo Valsesia

Organizzazione: Selene D’Agostino – Sara Giorla

Nina Margeri

HARLEKING / BROTHER – FESTIVAL INTERPLAY

Immaginate la potenza di una creazione capace di influenzare le rappresentazioni a distanza di cinque secoli. La commedia dell’arte riesce in questa impresa sconfinando nel mondo della danza con Harlekingdel duo italo-tedesco Gineva Enrico.
Ad aprire la stagione del festivalInterplaysono due giovani artisti che portano in scena un contemporaneo passo a due.La frivolezza della più celebre maschera della commedia dell’improvviso segue un canovaccio che prima lascia spazio all’improvvisazione per diventare sempre più vincolante. I riflettori si scaldano sui movimenti spontanei causati dalle contrazioni muscolari dovute al riso. Il mescolarsi del sogghigno con spasmi dovuti a conati non permette allo spettatore di rallegrarsi, e ricorda la fame senza freni della maschera originale. La forte gestualità passa attraverso la valorizzazione del corpo e delle pose attribuite all’Arlecchino del passato, in questo caso senza maschera, ma facilmente riconoscibile. La partitura diventa sempre più serrata fino ad entrare in un loop magnetico. La staticità delle gambe si contrappone al continuo moto delle braccia trasformate in arti meccanici e costrette ad eseguire una sequenza infinita sempre simile ma mai identica. Sorprende come il movimento dei due performer, nonostante si faccia minuto fino a ridursi al moto delle sole falangi, riesca ad ipnotizzare il pubblico.

“Brother” è una panoramica sul mondo del movimento. Marco Da Silva Ferreira, coreografo portoghese nominato Aerowaves Twenty18, utilizza i corpi dei sette performer come malleabile argilla prima della cottura. Presentando uno ad uno ogni danzatore, l’autore dona a ciascuno un momento solistico atto a mostrare le doti personali. Il movimento viscerale che caratterizza ognuno si distingue da quello degli altri compagni di scena per intensità, stile e utilizzo del corpo, dando così allo spettatore una varietà visiva fuori dal comune. Questa diversificazione la troviamo anche durante i momenti di insieme che, pur avendo una partitura ben  definita, lasciano la possibilità ad ogni interprete di dare un’impronta  personale  al gesto. Ritroviamo sul palco movimenti che percorrono la storia della danza fino ai tempi più recenti, nobilitando linguaggi come il voguing che difficilmente vengono illuminati dai riflettori di un palcoscenico di questo genere. Il sapiente utilizzo della musica dilata oltre al visivo la creazione di Marco Da Silva Ferreira creando echi dei versi primordiali prodotti dai ballerini durante lo sforzo fisico.

di Davide Peretti

INTERPLAY 2019
Associazione Culturale Mosaico Danza

HARLEKING
di e con Ginevra Panzetti, Enrico Ticconi
sound design Demetrio Castellucci
light design Annegret Schalke
costumi Ginevra Panzetti, Enrico Ticconi
illustrazioni e grafica Ginevra Panzetti
diffusione Marco Villari

BROTHER
direzione artistica e coreografia Marco Da Silva Ferreira
performers (fase creativa) Anaísa Lopes, Cristina Planas Leitão, Duarte Valadares, Filipe Caldeira, Marco da Silva Ferreira, Max Makowski, Vitor Fontes
assistente direzione artistica Mara Andrade
direzione tecnica e design luci Wilma Moutinho
musiche dal vivo Rui Lima and Sérgio Martins

iLOVE

Le città, per loro natura, si modificano, evolvono e mutano il loro aspetto esattamente come fanno le società che le abitano. Da questa naturale tendenza è nata la volontà di ri-creare e far risplendere nuovi “spazi” culturali che ospitassero le creatività di oggi e del futuro. Tre zone periferiche di Torino si sono unite per riqualificare luoghi che risultavano insoliti e inconsueti per ospitare l’arte e il teatro. Fra questi troviamo bellARTE, un teatro sorto all’interno di una fabbrica tessile dismessa e gestito dal 2006 dall’associazione Tedacà. BellARTE, insieme a Cubo Teatro e San Pietro in Vincoli Zona Teatro, sono luoghi di incontro e dialogo, ma soprattutto si propongono come fonte di stimolo per affrontare e indagare i temi del quotidiano e del nostro sistema sociale: un “fertile terreno” da coltivare per far crescere nuove risorse culturali e artistiche. Nel programma dei tre teatri si presentano numerose opportunità per incontrare artisti di grande levatura nazionale, ma anche emergenti giovani promesse, in una dimensione di vicinanza che genera una cifra comunicativa immediata e diretta.
Il 31 marzo, in linea con la poetica e la ricerca sociale che si è andata a costituire, al Teatro bellARTE è stato presentato il duetto iLove di Fattoria Vittadini. Questa Compagnia estremamente eterogenea, è nata a Milano qualche anno dopo rispetto allo spazio bellARTE, nel 2009, dalla volontà di undici giovani (ex)allievi del corso di teatro danza della nota scuola milanese Paolo Grassi, cerca di sviluppare una ricerca personale e una poetica che spazzi all’interno della molteplice pluralità linguistica dell’arte scenica dei nostri tempi. Fattoria Vittadini è riuscita nel giro di pochi anni a conquistare l’attenzione della critica proprio per i suoi segni distintivi che hanno la capacità di avvicinare sempre nuovo pubblico a lavori artisticamente elevati e di forte impronta sociale.
Il tema presentato alla Città di Torino con il duetto iLove non risulta particolarmente innovativo: una coreografia autobiografica che parla di un amore e nella quale due personaggi si ritrovano a condividere lo stesso spazio, inizialmente lavorativo, successivamente esteso alla sfera intima e privata. “L’amore è come questo viaggio in treno. Ci si lascia e ci si ritrova …” e proprio così i due performer si incontrano, si indagano l’un l’altro, si presentano e iniziano un viaggio di condivisione. Cercano loro stessi e la propria identità, studiano la loro relazione e l’affetto reciproco che li sovrasta. I due performer non vanno mai ad annullarsi ma proprio l’unione delle loro personalità fa emergere caratteristiche individuali e strettamente personali: uno si presenta come un personaggio dai gesti chiari e decisi, che a partire dalla lingua dei segni (LIS) espande il proprio essere verso il compagno, l’altro, più introverso, proietta sé stesso in continui slanci solistici pur ricercando un legame corporeo verso l’altro.
A prima vista risulta inconsueto per il Teatro bellARTE ospitare all’interno della propria stagione di ricerca uno spettacolo come iLove. Ma in scena ci sono due uomini a presentare il loro legame amoroso al pubblico. Un amore fra due uomini? Un amore omosessuale è il tema di questo splendido duetto? Due persone dello stesso sesso, nella società odierna ormai definita evoluta, possono condividere lavoro, vita privata e sentimentale? Non per questo sono meno uomini e meno umani. Questa è l’indagine analizzata e presentata dai due giovani danzatori, Cesare Benedetti e Riccardo Olivier. La loro proposta scenica si presenta come una danza fortemente astratta che esalta la potenza del segno per portare agli occhi dello spettatore un’analisi sul significato dell’essere uomini “maschili”. Sono queste forse, come molte altre espressioni, etichette con cui i danzatori giocano in una scena spoglia.
Questo duetto è nato quando ancora Cesare e Riccardo erano una coppia; poi si sono separati continuando a condividere la sfera lavorativa. Il risultato di questa relazione è stato proprio questo elegante duetto che tocca la sensibilità del pubblico sul tema dell’individualità nella coppia e dell’amore maschile.
ILove si apre con la coppia sul palco in ombra. La loro vicenda si muove a ritroso: si sono già separati e al centro della scena, sotto un cono luminoso, campeggia un ortaggio: un finocchio. La prima e breve sezione è ricca di gesti che sottolineano l’attuale lontananza e separazione ma poi, come in un flashback cinematografico, tutto ricomincia dal principio e quello a cui assistiamo è il ricordo dei primi momenti assieme, gli attimi più felici condivisi in coppia. L’importanza degli sguardi con il pubblico e che i due si scambiano l’uno per l’altro costituiscono un elemento di forte persuasione e seduzione. Proprio da uno sguardo nasce il duetto, che pur giocoso nasconde le difficoltà tecniche come anche la difficoltà del vivere assieme. Vestiti con pantaloni e felpe i due performer si presentano come ragazzi qualunque che iniziano a giocare tra loro.
Segue un momento conviviale, intimo, un esilarante quanto serio attimo che raffigura un fugace pasto consumato assieme, dove il finocchio dell’incipit torna in scena per venire divorato dai danzatori. L’azione avviene vicino a un microfono sul proscenio, rendendo a tutti i presenti udibile il rumore dei morsi. Subito i due uomini si spogliano, sottolineando come l’abito è solo una parte di ciò che realmente siamo. Si diffonde una sensazione di smembramento e di incomunicabilità: assistiamo al progressivo allontanamento di Cesare dalla relazione creatasi, mentre Riccardo diviene “appiccicoso”, quasi morboso nel seguire il partner. La rottura finale è inevitabile e commovente: non aleggiano parole, non ci sono insulti e scontri, ma solo un senso profondo di tristezza, solitudine e vuoto.

Matteo Ravelli

Regia, Coreografia, Colonna sonora
Cesare Benedetti, Riccardo Olivier
Light design
Roberta Faiolo, Giulia Pastore
Direzione Tecnica
Giulia Pastore
Produzione
Fattoria Vittadini

Lo spettacolo è parte della rassegna di danza Il Corpo Racconta e della rassegna Amor Novo di Fertili Terreni Teatro, il progetto di Acti Teatri Indipendenti, Cubo Teatro, Tedacà, Il Mulino di Amleto dedicato alla drammaturgia contemporanea e al teatro di innovazione. Realizzazione in collaborazione con Associazione Quore, Arcigay, Queever e progetto "Omofobia. No Grazie"