L’ANGELO DELLA STORIA – INTERVISTA A DANIELE VILLA

Venerdì 14 ottobre, per il Festival delle Colline Torinesi, al Teatro Astra è andato in scena L’angelo della storia, l’ultima creazione del collettivo Sotterraneo. Abbiamo recensito lo spettacolo qui, e colto l’occasione per intervistare Daniele Villa, che ne firma la drammaturgia.

L’angelo della storia, da quello che sappiamo, ha due grandi linee interpretative che lo sorreggono: le ricerche storiche di Yuval Noah Harari e il filosofo Walter Benjamin. A proposito delle teorie di Harari mi viene da chiederti, provocatoriamente: tra tutti i racconti che costellano la vostra scena – che in quanto Sapiens ci sono serviti e ci servono a ordinare il mondo del passato e del presente – rientra anche quel racconto secondo cui ci raccontiamo dei racconti?

Sì, molto vero che questi due nomi sono linee interpretative ma in realtà possiamo citarne tre, sono “gli angeli custodi”. Uno è Walter Benjamin che ci da le coordinate concettuali, la costellazione, ci dà la struttura formale dello spettacolo; uno è Yuval Noah Harari che ci da la coordinata tematica di storia come susseguirsi da narrazioni ai quali i Sapiens aderiscono, per informare la realtà e quindi poter agire nella realtà; il terzo è Daniel Kahneman che è un neuroscienziato Premio Nobel per l’economia che ha scritto Pensieri lenti e veloci che è un trattato su come funziona il nostro cervello, in alternanza fra la parte primitiva e la corteccia prefrontale che invece è quella che processa l’informazione in modo complesso. Questi sono i tre fratelli maggiori che abbiamo rapito, la domanda che tu mi fai in realtà li attraversa tutti e tre. Walter Benjamin parla dell’angelo della storia come di un angelo che da le spalle al futuro, guarda il susseguirsi di crolli della civiltà, viene trascinato dalla tempesta che è il progresso e vorrebbe ricomporre l’infranto – che di fatto vuol dire che vorrebbe rinarrare la storia in termini politici: di intervento sul presente alla luce della storia. E quindi non concepire la storia come susseguirsi di fatti, nemmeno come un progresso sicuro ma come qualcosa che va sempre rinarrato per cambiare il presente, per lui in termini rivoluzionari, con una simpatica sintesi fra messianismo ebraico e marxismo non ortodosso, quindi un bel problema che lasciamo a lui! Per Harari la storia è un sistema di narrazioni e quello che spiega è: appena tu vuoi emanciparti, tu minoranza, devi rinarrare la tua storia, e cambiare la narrazione del tuo luogo e tempo di provenienza rispetto al racconto che ne hanno fatto i vincitori – siamo di nuovo al livello di come l’umano trasmette realtà attraverso il racconto. Per Kahneman il problema è che noi ci facciamo sempre un racconto sulla realtà e che nove volte su dieci quello intuitivo è sbagliato, perché la realtà è controintuitiva: io guardo il sole che ci sorvola e dico toh, il sole gira intorno alla terra, invece poi abbiamo il metodo scientifico e altri strumenti critici per dire” no, un momento,” siamo noi che giriamo intorno al sole!, per l’appunto non siamo al centro del sistema solare, per l’appunto non siamo al centro dell’universo: siamo una scimmia su una palla di fango in un vuoto incommensurabile – il problema è che tutti questi racconti sono la cosa più potente che abbiamo, ci permettono di cambiare la realtà, ma non sempre corrispondono alla realtà. Noi dobbiamo usare i racconti ma non subirli, sempre filtrarli in senso critico. È facile semplificare la realtà attraverso un racconto e farci credere cose, farci agire sulle cose alla luce di un racconto che falsifica la realtà tout court.

A proposito del sole che ruota: in scena, una delle attrici ricorda come nell’antichità il sacrificio umano servisse a garantire l’alba del giorno dopo, il sorgere del sole; ieri, nel seguire con lo sguardo gli attori che intervenivano nel modo più vario e concitato, lì, per noi, mi è venuta in mente questa immagine dell’attore come vittima del rito “sacrificale” che è il teatro, immagine anche frequente negli ecosistemi del teatro contemporaneo. C’è in voi un’idea di questo tipo nel lavoro degli attori?

Con la parola sacrificio non tanto, perché mi sembra postulare una qualche imposizione da fuori che il performer subisce. D’altra parte ce una spesa fisica e celebrare molto forte, gli viene chiesto di tutto perché si usano i codici della danza, del testo, si usano partiture di gruppo che non sono coreografie, muovono dei crops, hanno indicazioni di spazio piuttosto ossessivo compulsive, tutto lo spazio viene investito continuamente e con appuntamenti di timing che riguardano sempre tutti e cinque i performers: quando qualcuno sta facendo qualcosa in primo piano, stai sicuro che gli altri quattro non sono in vacanza, hanno altre cose da fare e da preparare; però preferirei parlare di – citando se non sbaglio Artaud, che fa sempre figo – atletismo del cuore. Lui ne parla in termini di continua esposizione emotiva da parte del performer, perché per Artaud era tutto veramente viscerale, noi siamo un po’ più freddi, un po’ più saggisti che poeti. Però, con tutto che Artaud è un maestro e noi siamo umili subumani che si arrampicano ai suoi polpacci ma, chiusa la parentesi, parlerei di atletismo – cioè di una tenuta atletica, sia da un punto di vista fisico che di lucidità, di concentrazione, che vuol dire spendersi appieno per la scena, far funzionare tutta la macchina, ma loro sono la macchina, non è la colonia penale di Kafka dove loro vengono martirizzati dal macchinario, loro sono il macchinario. In realtà ti ho descritto lo spettacolo, perché potremmo dire che tutto questo avviene nel vuoto, la macchina che noi vediamo infatti è il frutto della loro azione, e devono essere quei performers che hanno fatto nove mesi di ricerca, studio e improvvisazione con noi, perché hanno inciso nelle mappe neurali, anche con giornate di inferno, questa macchina qua! Non potrebbe farlo un’altra persona.

E in questo quadro quindi la temporalità come s’inserisce? Poco dopo l’inizio dello spettacolo, al pubblico è stato chiesto di impostare il timer del cellulare al minuto 53, quando avrebbe dovuto squillare. I performers immagino debbano arrivare puntali al momento, non c’è una magia, vero?

Non c’è una scappatoia, abbiamo 45 secondi di finestra perché avvenga quello che deve avvenire in tempo.

Magnifico.

È un’ansia terribile, non è magnifico! Però va bene se è magnifico per il pubblico, quello è l’obbiettivo. Sì, diciamo che tutto il lavoro, in generale, quello che facciamo noi, è cercare in ogni spettacolo di avere dei meccanismi a orologeria molto stringenti, un lavoro molto attento che facciamo sul ritmo: inteso sia come tenuta dello spettacolo che come controllo dei vari appuntamenti, di picco, o flat. Abbiamo un po’ l’ossessione di esplicitare questo lavoro: che sia attraverso il testo – in spettacoli precedenti avevamo dei veri a propri countdown – o magari giocare con degli orologi come facciamo qua; cioè ricordare sempre questo livello di meccanismo a orologeria che attraversa lo spettacolo, rimetterlo sempre al centro dell’attenzione degli spettatori. Ci piace come dispositivo teatrale. E poi come fuga, da una punto di vista di senso, ci ricorda un’apocalisse incombente, che c’è sempre nella sensazione di essere umani perché siamo una specie che sa di dover morire ma c’è anche come civiltà, perché sappiamo che le civiltà scompaiono, e di anno in anno è sempre più pressante come apocalisse ambientale, quindi un po’ come un reminder. Così che, nel fare cultura, si pensa sempre alla scomparsa di questa cultura stessa, alla caducità di quello che facciamo e condividiamo. Il teatro, se ha una cosa che lo rende competitivo rispetto gli altri media ed ecosistemi culturali, è quello di accadere sempre in un hic et nunc, con un pubblico; quindi noi lavoriamo a tutti i meccanismi che valorizzano questo essere lì presenti. Certe volte a teatro è come guardare uno schermo perché si lavora ancora con la quarta parte murata e inattraversabile e ho quasi la sensazione di potermene andare perché sono più o meno irrilevante, in termini di fruizione passiva. A noi invece piace ricordare che siamo qui e ora, noi, sul palco, siete qui e ora voi, pubblico, e usare quei meccanismi che ci ricordano il momento immediato.

Dicevamo prima che la forma dello spettacolo è una costellazione di aneddoti storici, in Iperstoria, un vostro precedente lavoro da fruire in streaming, che, se non sbaglio, è stata una creazione preparatoria e anticipatrice di questo Angelo della storia, raccontavate altri aneddoti: penso all’allunaggio, che invece nell’angelo della storia è solo citato, poi c’era il personaggio di Darwin, ci sono i ritocchi fotografici sovietici che eliminavano dai documenti gli attori scomodi. Ebbene, come avete scelto quelli rimasti e perché avete scartato gli altri?

La prima fase è stata una raccolta di aneddoti in cui succedeva qualcosa di assurdo che riuscivamo a trovare da internet, libri, film… eravamo arrivati a una collezione di 150 – che sono tantini per fare uno spettacolo! La prima scrematura è partita dal fatto che non c’interessava usare nello spettacolo aneddoti di gesti ribelli, ti faccio un esempio: August Landmesser, tedesco che alla parata di Hitler nel centro di Berlino dove migliaia di persone salutano il passaggio dell’auto col braccio teso, lui si rifiuta, perché ha una moglie ebrea e una serie di circostanze sue personali; insomma, fa questo gesto, e se tu guardi la foto ci sono mille persone che fanno il saluto romano, e una col cerchietto attorno che non lo fa. Mentre gli passa davanti la macchina di Hitler. Quello è un aneddoto che poteva tranquillamente stare dentro L’angelo della storia, ma abbiamo escluso tutti quei gesti che ci portavano a uno schieramento automatico: sì! è giusto perché ti sei ribellato a una situazione data, e noi ti vogliamo bene… Ci siamo concentrati più sugli aneddoti spiazzanti, che ti portassero a domandare “com’è possibile che questa persona ha interpretato la realtà in questo senso, che senso aveva per lui fare questa scelta. Perché c’interessa più produrre il dubbio che la certezza, nello spettacolo. Questa è stata la prima scrematura. Poi ci siamo dati l’obbligo di attraversare quante più epoche possibile, senza compiti di enciclopedia ossessivi, però partiamo dal 10.000 a.C. e arriviamo al 2022, con una forte bolla del Novecento, perché è il tempo da cui veniamo noi e di chi viene a teatro, ma non solo noi, anche i giovanissimi comunque si portano dietro il novecento, inesorabilmente. Abbiamo avuto adesso delle elezioni che sembrano parlare più del secolo scorso che di quello in cui ci troviamo, quindi è evidente che da quel secolo tanta roba proviene. Dopodiché, ha scelto il teatro. Noi partiamo dalla antropologia, dalla filosofia, dalle impalcature teoriche forti ma poi quello che vogliamo fare sono corpi sulla scena che devono accendere un pubblico, funzionare come materialità teatrale. Quindi hanno vinto gli aneddoti che ci portavano intuizioni, idee, che funzionavano nel racconto, che creavano una dinamica che squadernasse tutto il palco e da lì ti fai guidare dal teatro. Per cui “Mad” Mike che si lancia con un razzo, che fai?, non ce lo metti? Ti diverti troppo a fare quello che si lancia col razzo e quindi ce lo metti.

Tornando agli “angeli custodi”, un tema noto, che troviamo nelle Tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin, l’opera in cui elabora il suo particolare concetto di storia, è l’idea che ogni documento di cultura sia anche e allo stesso tempo documento di barbarie. Qual è la barbarie che sottende questo documento di cultura che è il vostro spettacolo?

Questa è un’affermazione condivisibile in termini appunto di provocazione: Benjamin era un filosofo del divenire quindi era ossessionato dalle grandi trasformazioni che attraversavano la società, non a caso partiva più dalla critica che dalla filosofia (parlava delle opere, di artisti, di film, di fotografia, di moda, perché attraverso questo percorso indiretto leggeva le trasformazioni della società. Quindi se noi postuliamo che ogni documento di cultura è documento di barbarie, postuliamo anche che non c’è mai un punto di arrivo in termini di emancipazione, di evoluzione e sviluppo culturale. Partiamo dal presupposto che – rilancio con un altro neuroscienziato che è Sam Harris – noi abbiamo la certezza che imbarazzeremo i nostri discendenti come i nostri avi imbarazzano noi adesso; per cui quella che era la Roma antica, che era culturalmente la normalità, contiene degli elementi che sono raccapriccianti. E così noi stiamo facendo adesso cose che saranno raccapriccianti per le civiltà del futuro. Quindi, la barbarie che noi esercitiamo nello spettacolo… direi che non c’è l’intenzione di produrla, ma di riflettere su una barbarie che però è metastorica, che attraversa tutte le epoche, cioè tutte le volte che io come individuo o collettività aderisco a una narrazione che non coincide alla realtà, ma, in questo senso, favorisco una presa di potere sulla realtà da parte di chi porta quella narrazione. Quindi, ogni volta che quella famosa frase di Nietzsche, che poi viene molto malinterpretata, “non esistono fatti, solo interpretazioni” – che peraltro è negli opuscoli della nuova stagione TPE – la si usa come pretesto per far vincere l’idea secondo cui posso credere a quello che voglio, credo a quello che mi piace, e quindi sostengo chi esercita potere a partire da quella credenza, è la barbarie. Noi dovremmo sempre, a partire da quello che dice Kahneman, sforzarci di innescare il sistema due: fermarci, dubitare, domandarci, approfondire – ed è una cosa che non siamo programmati per fare. Quindi la barbarie è ogni volta che usiamo il sistema uno, ogni volta che invece di approfondire ci facciamo prendere per la pancia e diciamo sì e facciamo il saluto romano. In tutte le sue possibili forme, non c’è solo il fascismo storico. Credo che fra cento anni pensare che il pianeta stava collassando e noi stavamo facendo finta di niente sarà davvero imbarazzante.

Vorrei chiarire questo punto, l’opera di Benjamin è attraversata da questa polarità che è il conflitto fra oppressi e oppressori; ovviamente c’è una barbarie di specie, però c’è anche una barbarie che mette in luce Benjamin, nella storia, che è il dominio tra uomo e uomo, quindi mi domando: nella vostra opera, ci sono questi oppressi e oppressori che attraversano il concetto di storia di Benjamin?

Guarda, le tematiche che abbiamo portato nel lavoro sono più trasversali, rispetto la dicotomia oppressi e oppressori che oggi è più sfumata, ma comunque in essere, Benjamin ne fa un discorso di classe, che non penso abbia perso di attualità, penso semmai vada ripensato su scala globale; ma è un conflitto di classe, di proletariato, è un concetto di rivoluzione marxista. Nel nostro spettacolo non c’è un discorso sull’oppressione in termini di classe, però è chiaro che quando tu mi porti questo contenuto mi viene da dirti – e torniamo ad Harari – che per millenni nell’umanità l’oppressione è stata vissuta come un dato di natura e di realtà, ma in realtà era una narrazione. Quindi ci sono voluti, non so, diecimila anni, perché l’umanità concepisse l’idea che forse non è vero che il re è una manifestazione del divino e i suoi figli dovranno governarci per dinastie secolari perché loro sono i reali e noi siamo delle merde umane. Ci sono voluti diecimila anni perché uscissimo da questa narrazione, eppure non era una narrazione così convincente!, si poteva intuire… poi è chiaro che era una narrazione accompagnata dalla spade e dagli eserciti, quindi non c’era solo una narrazione, però è veramente interessante pensare quante volte noi prendiamo come realtà una cosa che in realtà è un modello di realtà. In questo senso non solo le neuroscienze ma anche la divulgazione, il debunking ci spiegano che noi come specie siamo più programmati a cercare un modello di realtà qualunque e crederci perché siamo a disagio psichico a non sapere, dubitare, non avere quel modello di realtà. Oggi, tutte le oppressioni di cui possiamo parlare, quelle di genere, di classe, quelle geografiche e geopolitiche, portano con se delle narrazioni – cominciare a smontare quelle, cominciare a dubitare delle narrazioni, il che non vuol dire necessariamente produrre delle narrazioni alternative, ma proprio stare fuori dalla narrazione, provare a usare altri strumenti, sarebbe il primo strumento di emancipazione, secondo me, che vale per il proletariato ma anche per il ceto medio che voglia ripensare attimo i termini del potere per come lo vediamo oggi.

Però così perderemmo i vostri spettacoli…

Guarda, c’è stato un tempo in cui – me ne sono reso conto dopo (è un lavoro che fa l’ideologia nelle testa delle persone) – che tu guardi al mondo e vedi le cose più vomitevoli del mondo, ma una parte di te ne è contenta perché tu sei quello intelligente che ha visto quanto fa schifo il mondo e la sa più lunga degli altri. Adesso mi piace anche guardare, effettivamente, alle cose positive che s’intersecano a quelle ancora mostruose che ci sono… ma ho la serenità come artista che il mondo farà sempre abbastanza cagare da dare a noi artisti abbastanza materiale su cui lavorare. Dunque non ho quell’ansia…

A proposito, Benjamin inizia le Tesi sul concetto di storia parlando della felicità, è la seconda tesi: dice più o meno che la nostra idea di felicità è qualcosa di tinto del tempo trascorso, del passato, immaginiamo la nostra felicità in un ambiente che abbiamo vissuto, con persone che avremmo potuto conoscere, con “donne che avrebbero potuto farci dono di sé”. Ho anche visto un’intervista, fatta in occasione della performance Homo ridens, dove vi viene domandato cosa sia la felicità…

Oddio, cosa rispondiamo?

Beh, tu rispondi, date risposte diverse..

Ah! è quella in cui Sara risponde “un camino è un gatto”, una cosa del genere?

No, Sara risponde “lotta” e tu approvi…

Ah, brava Sara!

Però prima tu dici una cosa come realizzarsi, nel senso di realizzare il proprio daimon. Se puoi parlare di questa cosa, se non è troppo banale, perché a me ha trasmesso un’idea di felicità L’angelo della storia, una felicità disperata ma pur sempre una felicità, vuoi parlarne?

Eh, uno degli argomenti che maneggio meno facilmente, è la… ma perché è impossibile non solo definire la felicità ma anche le strategie per avvicinarsi almeno a un’approssimazione di felicità. Condivido ancora quello che diceva Sara, che poi è molto collegato al realizzarsi, appunto il daimon, l’idea di diventare se stessi – con Socrate o Jung. Ognuno di noi è nato, e volente o nolente è programmato per delle cose, dalla genetica e dai suoi primi anni di vita – ha talenti, attitudini, cose che gli pulsano dentro, che possiamo sintetizzare nella parola daimon – e se tu riesci a realizzarle, riesci il più possibile a essere quelle cose lì, più o meno, sei diventato te stesso. Ed è già una buona approssimazione di felicità. Questo implica la lotta, perché, qualunque cosa tu voglia fare, la realtà che hai intorno non è che ti stende il tappeto rosso, ti ostacola, compete con te. Magari gli obiettivi che hai sono anche duri da raggiungere, magari sono fatti anche di cadute, e quindi magari parte di quello che vuoi diventare implica anche cambiare almeno un po’ la realtà che ti circonda – quindi anche questa è una dimensione di lotta. Noi oggi lavoriamo nella cultura, siamo artisti siamo privilegiati: ci svegliamo la mattina e ci vengono delle cose in mente assurde e le facciamo e la gente ci applaude anche, dunque partiamo dalla condizione di privilegio massima. Però lavoriamo nella cultura, e oggi come oggi che viviamo nella realtà sociale più complessa nella quale la storia umana abbia mai vissuto, attraversata da conflitti che vanno oltre la nostra capacità di comprensione, come dire, fare cultura e fare lotta sono la stessa cosa, e per noi, per come siamo fatti – parlo anche a nome di Sara e Claudio, a nome di tutto il gruppo – essere felici è avere gli strumenti per partecipare a questa lotta, essere messi nella condizione di fare questo lavoro, di avere ascolto, dalla critica, dal pubblico, da chi passa, e poter condividere le opere, essere responsabilizzati rispetto alle opere e ai discorsi che portiamo avanti, come sta succedendo qui: io ti rispondo di qualcosa che ho fatto al di là dell’opera. Essere nella condizione di poter fare cultura e quindi di poter lottare è per noi un’approssimazione di felicità. Non mi spingo… questa è la felicità che si attaglia a noi, la felicità tout court… alcune persone sono felici per cose che a me risultano totalmente incomprensibili, non sono in grado di esprimermi su orizzonti più larghi di noi tre.

Grazie, ti vorrei chiedere un’ultima cosa, riguardo le nuove generazioni. Il vostro teatro è riconosciuto come molto accessibile alle giovani generazioni, questo si percepisce in sala. Lo riconosci, lo riconoscete? È un obiettivo quello che avete di fare un teatro che sia affine e proprio delle nuove generazioni?

Non è un obiettivo. Noi nel teatro che facciamo rispondiamo molto alle classiche urgenze, quello che c’interessa fare, quello che facciamo rappresenta il nostro tono, quello che Raymond Carver definisce tono, cioè il modo che hai di guardare alle cose e quindi di riraccontarle. Il fatto che sia un teatro comunicativo, che, siccome è stratificato, è accessibile un po’ a tutti e poi ognuno trova il suo livello di profondità, e che poi in questo “tutti” ci rientrano anche le nuove generazioni, è un effetto collaterale positivo, ma è qualcosa che noi non decidiamo in termini strategici. Noi lavoriamo molto sull’immaginario collettivo, su quello che Banksy chiama l’entry level, cioè l’idea che il sistema di segni che ti metto davanti è subito accessibile, subito chiaro, poi tu penetri, entri al livello di profondità che vuoi, interpreti le cose con un certo margine di soggettività; però, appunto, lavorando sull’immaginario collettivo – buttandoci dentro il pop, la letteratura, la filosofia, per andare in alto, ma anche i videogame e le serie tv come le cose più barbare e quotidiane – è vero che abbiamo riscontrato nel tempo che per i ragazzi è qualcosa che parla, che non percepiscono come distante. È qualcosa come una piccola epifania, dicono ah okay il teatro non è solo un testo classico con dei bravissimi attori che mi rappresentano una storia, ma è anche questa cosa qua in cui ci sono degli indemoniati in scena che fanno delle cose improbabili e io devo connettere i puntini, devo fare la costellazione per capire cosa mi stanno dicendo. Per le nuove generazioni è ancora uno scalino, una cosa che gli va fatta scoprire; e a noi è capitato a volte di essere quel tipo di cerniera. Tutto questo però è davvero un effetto collaterale, noi facciamo, quando facciamo un’opera, il cazzo che ci pare, e poi il fatto che sia comunicativa è anche un po’ una fortuna di un’idea teatrale che ci siamo dati e che è venuta così, però non l’abbiamo studiata a tavolino.

Grazie

Ora vado a fare cose noiosissime come l’inventario agli attori, che tutti gli oggetti siano in posizione…

Nicolas Toselli

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