INTERVISTA A PAOLO NANI

Paolo Nani, attore, regista e trainer teatrale, classe 1956. Originario di Ferrara, stabilitosi poi in Danimarca, da anni gira il mondo con i suoi spettacoli: tra i quali ricordiamo La Lettera, L’Arte di Morire e Jekyll on Ice.

A cavallo tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, Paolo Nani torna in scena a Torino, al Teatro Gobetti, proprio con il più rodato dei suoi capolavori: La Lettera. Una splendida occasione per vedere dal vivo questo attore, molto attivo anche sui canali social, e per potergli fare qualche domanda.

Organizziamo dunque un’intervista telefonica per il 23 dicembre. Mentre il telefono squilla, il registratore è pronto a fermare ogni attimo della conversazione, e l’emozione è alle stelle. Non capita tutti i giorni di avere a che fare con un attore che si è esibito in oltre 40 paesi diversi con così tanto successo. Soprattutto quando la sera precedente si ha avuto la fortuna di assistere al suo spettacolo, di cui potete trovare anche la recensione su questo blog.

Di seguito riporto la trascrizione della nostra conversazione.

Buongiorno, innanzitutto ci tenevo a ringraziarla per aver dedicato il suo tempo a questa intervista e poi per la sua performance di ieri sera. Ho assistito a una delle repliche de La Lettera al Teatro Gobetti e ho pianto dalle risate dall’inizio alla fine.

P. N. Bene! Mi diverto anch’io, mi sembra si veda. In effetti, è uno dei miei segreti: riuscire a imparare a divertirsi, anche quando è difficile. Ci sono dei trucchi, come dicevo alla fine dello spettacolo, parlando con il pubblico. Mi concentro sul timing, per giocare a una specie di jazz. Certe volte però il pubblico non risponde, in certe situazioni… Per esempio, in Finlandia del nord certe volte è dura! Oppure in Corea e in Giappone: non fanno nessun rumore. Allora bisogna trovare un modo per staccarsi da quello che il pubblico può pensare, se gli piace bene e se non gli piace va bene lo stesso, io mi diverto. E questo è importante perché poi la gente lo percepisce.

Partendo dalle Sue esperienze con l’estero, visto che tra l’altro Lei abita in Danimarca da diversi anni ormai… Quali sono le differenze che ha notato con l’Italia, sia per quanto riguarda il teatro sia per quanto riguarda la vita quotidiana? In che modo questo ha cambiato la Sua visione del mondo?

P.N. Bhe, ecco, io dovevo stare in Danimarca un anno e invece ci sono rimasto per 31 anni. Qualcosa mi ha colpito da subito. Immediatamente, dopo 2 ore che ero lì, ho pensato “Wow”. Pensavo che i danesi fossero freddi, invece… Avendo sbagliato stazione, dopo un viaggio in treno di 24 ore, mi sono trovato in una stazione che non conoscevo. Ero senza soldi danesi, avevo solo quelli italiani per arrivare alla destinazione corretta. Allora subito mi hanno permesso di usare le lire, senza problemi. Quindi direi che lì sono molto pratici e tranquilli. E poi sono molto ospitali. I danesi si danno tutti del “tu”. Non perché esiste solo il “tu”, come in inglese, il “Lei” esiste, ma non si usa. Per cui dai del “tu” anche al novantenne o al poliziotto. E questo è un atteggiamento mentale danese che mi è piaciuto subito e rispecchia un certo modo di affrontare la vita.

E rispetto al teatro, c’è molta attenzione, soprattutto al teatro-ragazzi. C’è un festival di teatro-ragazzi in aprile, dove ci sono trecento spettacoli in un week-end. Vengono persone da tutta la Danimarca a mostrare il proprio spettacolo gratis, perché poi verrà gente a comprarlo. Ogni anno il festival è in una città diversa ed è aperto a tutto il pubblico.

A proposito del rapporto con i ragazzi e le nuove generazioni. Da diversi anni Lei organizza anche workshop di teatro. C’è un motivo particolare per cui ha iniziato ad occuparsene? Oltre all’aspetto economico.

P.N. Io ho sempre fatto workshop, già dopo un anno da quando ho iniziato con il teatro avevo qualcosa da insegnare. Nel teatro Nucleo, in cui ho lavorato dal 1978 al 1990. Quello è stato il primo gruppo in cui ho lavorato. Lì si facevano workshop per insegnare alle persone le nostre tecniche, il nostro modo di fare teatro. Ed era anche un atteggiamento mentale quello che si imparava. E quindi l’ho sempre fatto. Mi piaceva molto questa idea di imparare e poi dare, dare a chi ne ha bisogno. Per cui ho continuato a fare così. Ovviamente all’inizio insegnavo quello che ero in grado di trasmettere, adesso insegno altre cose. Quindi l’acrobatica la lascio insegnare a qualcuno che la conosce meglio di me. Insegno le cose che ho imparato facendo teatro. In particolare, mi sono concentrato sul capire perché una scena funziona o meno. E quindi quando insegno parlo di gioco drammaturgico, stile, timing e intenzioni. Si tratta di un gioco, con dei conflitti o delle regole, come ne La Lettera. Per esempio, fare la scena “senza mani” crea un conflitto da circo. Il circo è tutto un conflitto, come quando c’è un uomo che cammina su un filo. In tutto il teatro c’è conflitto, in qualche forma. Se Giulietta e Romeo si sposano, dopo un po’ non ci interessa più. Ci interessano i conflitti, i fraintendimenti. Questo cattura la nostra attenzione. Non per un motivo culturale, ma per un motivo biologico! Una parte del nostro cervello è attento ai conflitti, perché vuole che tutto sia a posto. Se mi dai una notizia buona e una cattiva, io voglio sapere prima quella cattiva, per assicurarmi che poi tutto vada bene.

Ricollegandomi alle abilità richieste dal circo, nel corso della Sua carriera Lei ha imparato a fare tantissime cose. So che tra le sue prime fonti d’ispirazione ci fu l’Odin Teatret. Mi chiedo quali siano le sue fonti d’ispirazione adesso. C’è qualcosa che vorrebbe approfondire o imparare in questo periodo?

P.N. Ho sempre qualcuno che è una fonte d’ispirazione. Faccio sempre attenzione ad essere curioso abbastanza. Perché penso sia importante, è un segno di giovinezza matura, diciamo così. Bisogna cercare costantemente quello che ti sorprende, che ti stimola, che ti fa sognare. Per anni ho avuto tanti maestri, senza che loro lo sapessero, li prendevo come immagine di riferimento, come fonte d’ispirazione.  Ho avuto Iben dell’Odin Teatret.  Torgeir dell’Odin Teatret è stato il primo in assoluto che ho visto, quando vidi il mio primo spettacolo dell’Odin Teatret che mi cambiò la vita, nel ‘77. All’epoca pensavo che il teatro in generale fosse una noia mortale e quando vidi quello spettacolo pensai che era ciò che davvero volevo fare nella vita. Così dopo anni in cui avevo studiato arte e pittura (avevo studiato all’Istituto d’Arte di Ferrara), sono passato al DAMS. E poi ho avuto tanti maestri a partire proprio dall’Istituto d’Arte, ma anche dalla Cecoslovacchia, e poi altri come Victor Borge. Victor Borge era un pianista danese e comico, che è morto nel 2000 a circa 90 anni, tre giorni dopo il suo ultimo spettacolo. Ecco, questo è quello che mi piace come idea.

Ad un certo punto, dunque, da aspirante pittore Lei ha deciso di cambiare carriera. C’è mai stato un momento in cui ha pensato di mettere da parte anche il teatro per dedicarsi ad altro?

P.N. Il teatro è sempre stato nel mio DNA. Anche se ci sono stati dei momenti in cui l’insegnamento ha acquisito più importanza. Però la pittura è sempre stata parallela, io ho continuato a dipingere. E poi per anni ho pensato a come fare per collegare le due arti: teatro e pittura. Magari con uno spettacolo in cui c’entrasse la pittura. E dato che a parte La Lettera ho fatto altri spettacoli (in questo momento giro con 5 spettacoli), là dove potevo dipingere e creare cose simili lo facevo io. Fino a che non ho fatto uno spettacolo in cui dipingo. Si chiama Piccoli Miracoli, ho iniziato a presentarlo quest’anno ed ero molto curioso di scoprire come le persone avrebbero reagito. Posso dipingere in scena senza che la gente si annoi? Allora ho provato a fare questo esperimento. Ho incontrato il regista, con cui ho lavorato per altri spettacoli, mi sono messo a disegnare e gli ho chiesto cosa ne pensasse. L’idea è piaciuta e abbiamo iniziato a creare lo spettacolo. Perché quello che facevo non era un semplice disegno, ma c’era una drammaturgia. Quello che disegnavo prima o dopo cambiava la percezione del disegno. Per dire, se io disegno prima un omino che guarda in alto, poi alla fine disegno una linea sotto di lui e scopriamo che è sul ciglio di un burrone… Crea un effetto di sorpresa. Così è nato lo spettacolo Piccoli Miracoli in cui disegno in scena per 45 minuti. In realtà però lo spettacolo dura 1 ora e un quarto e racconta la storia di chi disegna. Succede poi che la storia disegnata e quella del disegnatore si incrociano. Così quando ho chiesto un parere critico, il pubblico era sorpreso, l’ha definito ipnotico e sublime. E l’idea mi è venuta vedendo diverse volte il film Le Mystère Picasso, in cui c’è Picasso dietro una lastra bianca, che disegna, e si vede il disegno che prende forma. Così ci abbiamo provato. Io ho semplicemente un tavolo bianco retroilluminato, la gente entra e mi vede di spalle mentre inizio a disegnare su uno schermo molto grande. Parte una musica e ci si rende conto che sto disegnando me stesso, visto da dietro, assieme alla stanza in cui mi trovo, piena di quadri. Fino a che non diventa un racconto. Rimango io stesso ipnotizzato, perché è un meccanismo che non conoscevo. Sono molto contento di aver messo insieme due passioni che convivono da tanti anni. Spero di poter portare presto questo spettacolo anche in Italia.

Parlando di cinema e nuovi media: qual è il Suo rapporto con i canali social e con la televisione? Altri artisti teatrali tendono a rifuggire questi mezzi di comunicazione, mentre Lei ha condiviso diversi video su piattaforme come YouTube e Facebook negli ultimi anni.

P.N. Mi ha colpito molto vedere Marco Montemagno, così l’ho seguito e dal 2017 ho iniziato a fare video. Su Facebook in particolar modo, dove ho circa 30000 persone che mi seguono, YouTube invece lo uso praticamente come un backup. All’inizio ho fatto un po’ di fatica ad entrare in questo mondo, mi sono chiesto che cosa potessi dare in questo modo, su Facebook. E quindi ho chiesto ad altre persone che cosa interessasse loro e ho scoperto che la gente vuole sapere cosa c’è dietro le quinte. Che cosa succede, quali sono le difficoltà. Così mi sono messo a parlare di queste cose: com’è andare in tournée, lavorando da solo, quali sono le difficoltà, come si fa a farsi rispettare con un lavoro di tipo artistico, che è sempre tra i meno garantiti. E quindi ho lavorato a molti video per i social su questi argomenti. Il che va bene, perché quando sei da solo, se hai la tecnologia e una buona connessione puoi metterti in contatto con persone dall’altra parte del mondo.

In televisione, invece, non ci sono mai stato e non mi interessa. Perché non sono padrone del mezzo. Mi hanno chiesto anche diverse volte di andare al Cirque du Soleil ed ho detto di no, perché è una macchina che alla fine odierei. Però non è stato facile dire di no, ci ho pensato parecchio. L’ultima volta in particolare, perché lo spettacolo era diretto da Daniele Finzi Pasca, che è un grandissimo regista. Mi sarebbe piaciuto davvero tanto conoscere il suo modo di lavorare, ero curioso. Ho chiesto se potessi restare con loro solo per un anno, ma non è stato possibile perché come minimo dovevo stare con loro due anni. E quindi ho rifiutato: voglio poter fare le mie cose e non essere solo parte del sogno di qualcun altro. Un po’ le cose che insegno sono queste, quando faccio workshop. Do gli strumenti a persone che vogliono costruire i loro spettacoli.

Immagino che per un attore che lavora molto gestire la sfera relazionale non sia affatto semplice, specialmente quando si viaggia così tanto…

P.N. Dipende. Certe volte si tratta solo di viaggiare e fare uno spettacolo, viaggiare e fare un altro spettacolo, e così via. Quand’è così, è dura. Invece, questo è un momento di lusso per me, perché sono nello stesso posto fino al 9 di gennaio, nello stesso teatro. Per cui non devo viaggiare e in realtà ho un sacco di tempo che posso usare per scrivere o vedere cose in giro per la città. Poi ci sono altre cose che devo fare, un po’ come le persone che vanno in ufficio tutti i giorni. C’è contaminazione per le cose che si possono imparare viaggiando in giro per il mondo. Per esempio, sono andato in Giappone, a Osaka, dove ho fatto uno spettacolo che è stato faticosissimo. Però poi avevo una settimana di pausa, prima di andare in Cina per un altro spettacolo. Ho chiesto un parere ad alcuni amici, per decidere se tornare a casa in quella settimana o restare in Giappone. E mi hanno ripreso molto, perché sono un pessimo turista. Allora ho deciso di voler andare a Kyoto e mi sono dovuto arrangiare, perché mi sono reso conto che non sapevo dire nulla nella lingua, o come prendere un treno in quel luogo. Però sono riuscito a vedere Kyoto, che è una città pazzesca, ho deciso di dormire in un hotel a capsule ed ho provato altre cose nuove, che sono quelle che ti rimangono per sempre. E poi l’altra cosa importante è che incontri tante persone, per cui ho amici in tutto il mondo. Ci sono persone che non hai mai incontrato prima, ma è come se le conoscessi da sempre.

Avrebbe fatto qualcosa in modo diverso? Ha qualche consiglio per le nuove generazioni?

P.N. Sono molto contento di come sono andate le cose. Anche se non avevo niente, quando sono arrivato in teatro io stavo già facendo e imparando ciò che avrei voluto fare. Sentivo che quella era la mia strada, anche se ancora non avevo studiato. E quindi è importante imparare ad osservare veramente, perché è facile confondersi. C’è tanta confusione, tanto rumore, ed è facile desiderare cose che tutti vorrebbero in modo superficiale. Bisogna fare le cose per cui tu senti di poter morire. Ed è difficile sentire quella cosa che ti appartiene. Certe volte non corrisponde a un lavoro, ma è qualche cosa che quando la fai, ti fa perdere il senso del tempo. Per me è importante imparare ad osservarsi, cosa farei se fossi sicuro che funziona? Non deve necessariamente avere a che fare con l’economia. Quindi il mio consiglio è questo: imparare ad ascoltare. E poi, guardare e cercare parecchio. Viaggiare. Perché la mente cambia da un posto all’altro, ci si connette con altre persone e si impara a pensare in un altro modo. E si viene contagiati, è importante imparare a farsi contagiare. Rendersi conto che ci sono tanti modi di vivere la vita e nessuno è sbagliato. L’importante è trovare quello che fa per te.

Dopodiché ci scambiamo ringraziamenti per la conversazione appena avvenuta e ci salutiamo prima di terminare la telefonata: è durata 27 minuti, eppure il tempo sembra essere volato.

Perché anche a distanza, Paolo Nani ha il potere di ipnotizzare chi lo ascolta facendogli perdere il senso del tempo.

Erica Marchese

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