Martedì 9 e mercoledì 10 novembre, per il Festival delle Colline Torinesi, è andato in scena alle ‘Lavanderie a vapore’ di Collegno, lo spettacolo Sonora Desert della compagnia Muta Imago, composta da Claudia Sorace (regista) e Riccardo Fazi (drammaturgo/sound designer).
«È la prima volta che realizziamo un lavoro dove non c’è il teatro, non c’è la performance, non c’è un evento dal vivo di fronte allo spettatore, ma c’è un’esperienza proposta direttamente su di te che la fai» dice Riccardo Fazi, che si è gentilmente fatto intervistare.
Il nuovo spettacolo dei Muta Imago è un’installazione allestita in tre diverse stanze. Cinque, se si prendono in considerazione anche la stanza di ingresso, in corrispondenza della biglietteria, e l’uscita, dove si depositano e si recuperano gli effetti personali riposti in appositi contenitori trasparenti.
«È una scommessa che richiede una disponibilità da parte di chi partecipa.»
Il primo momento di fiducia e di partecipazione attiva allo spettacolo arriva appena prima che lo spettacolo inizi. Due maschere, che guidano e orientano il pubblico, offrono alcune indicazioni. Gli spettatori sono pochi, non più di venti, e devono lasciare le giacche, gli effetti personali e le scarpe, ricevendo in cambio un paio di morbide calze da indossare durante il percorso.
La prima sala è circolare ed è strutturata con semplicità: al centro vi è una luce, attorno alla quale ruota una struttura con sagome smussate e irregolari, che crea un’atmosfera intima e accogliente; alle pareti sono appesi frammenti di un diario, scritto durante il viaggio compiuto nel 2019 dai Muta Imago nei deserti americani, a cui sono allegati pensieri e citazioni di autori che li hanno influenzati.
«Partendo dagli studi della fisica teorica, tutto ciò che ci unisce e ci rende parte dell’universo, dalla stella più lontana al granello di sabbia, è uno stato di vibrazione continua. Questo ci ha condotti verso un’indagine sul suono che si è affiancata agli studi di neurologia sulla percezione dello stesso e sulle vibrazioni che produce il cervello nei diversi stati di coscienza, le onde binaurali alfa, beta e theta.»
Come per la prima parte, anche la seconda è introdotta dalle maschere che, senza svelare nulla di specifico sull’esperienza cui il pubblico andrà incontro, lo forniscono di tappi per le orecchie, di mascherine-filtro per gli occhi e spiegano come andarsi a posizionare sulle amache e come avvertire nel caso non si volesse più partecipare all’esperienza.
«Sonora Desert è anche e soprattutto un oggetto artistico che ha un andamento e una drammaturgia costruiti sulla base di tutte le drammaturgie dei riti classici, dai riti sciamanici a quelli di risurrezione dopo una morte apparente.»
«Tutto in Sonora Desert è costruito in modo che lo spettatore possa stare con se stesso, all’interno di un vuoto di comunicazione e di segni, come se si trovasse una notte in un deserto.»
Ogni spettatore si accomoda e si stende su un’amaca a proprio piacimento. Qualcuno si accomoda con calma, mentre altri sono già distesi e con la copertina che accarezza loro il mento.
Dopo aver posizionato la mascherina sugli occhi, iniziano i suoni e la luce.
Fasci di luce colorata vengono proiettati da fari posizionati ognuno di fronte ad un’amaca. Il filtro diffonde il fascio di luce e lo priva di una forma precisa. Si passa dall’arancio al giallo, attraverso tonalità di rosso, blu e rosa con diverse intensità luminose.
In alcuni momenti, la luce è talmente intensa che in tutto il raggio visivo c’è un’unica distesa di colore tendenzialmente uniforme.
Le vibrazioni luminose, come le definisce Riccardo Fazi, non sono l’unica componente dell’esperienza. La colonna sonora di Alvin Curran, composta di vibrazioni e suoni dal ritmo apparentemente irregolare, immerge lo spettatore anche nella dimensione sonora.
«Il suono è un linguaggio più evocativo rispetto a quello dell’immagine.»
Le vibrazioni luminose e sonore si fanno ora più intense, ora più tenui; ora vi sono picchi di acuti, ora vi è solo una distesa di bassi e vibrazioni che smuovono le amache e i loro ospiti.
L’esperienza che si fa del tempo è soggettiva, così come lo sono le sensazioni ed emozioni che emergono.
«Il nostro cervello […] se viene sottoposto a specifiche vibrazioni, attraverso il lavoro sul suono, può essere indotto e indirizzato a modalità differenti dell’essere.»
Una volta terminata questa sezione, ci si può dirigere nella terza stanza, allestita con un tappeto e con dei puff distribuiti equamente lungo i bordi, intervallati dai libri che hanno influenzato Sonora Desert e i Muta Imago; da un lato del tappeto c’è un carrellino con volantini, alcune copie del diario dello spettacolo, appeso nella prima stanza, e un termos colmo di tisana calda servita da Riccardo Fazi in persona, l’ideale per riscaldarsi e per riprendere contatto con il mondo.
Si può andare direttamente nell’ultima stanza a riprendere i propri indumenti per uscire, se non si vuole rimanere; altrimenti si possono consultare i libri, commentare lo spettacolo in compagnia di volti conosciuti o incontrati allo spettacolo, scambiare quattro chiacchiere con Riccardo Fazi o gustarsi il calore della tisana appoggiandosi al puff.
«È la prima volta che realizziamo un lavoro dove non c’è il teatro, non c’è la performance, non c’è un evento dal vivo di fronte allo spettatore.»
Ci si potrebbe porre la seguente domanda: Sonora Desert si può considerare teatro, almeno in senso stretto? La risposta potrebbe non essere scontata e il lavoro di Claudia Sorace e di Riccardo Fazi si porta appresso la domanda come un mantra.
«La scienza dice che, a seconda degli stati di coscienza in cui si trova, il nostro cervello nel suo agire – ma anche il tessuto nervoso e le cellule nervose – produce vibrazioni con determinate frequenze»
I riferimenti dello spettacolo sono le ricerche scientifiche, svolte negli anni ’50 e ’60 in America, sulla percezione del tempo e degli stati di coscienza. Come una ricerca scientifica che si svolge in laboratorio, Sonora Desert si interroga e interroga il proprio pubblico, dando suggestioni nella prima stanza, sviluppandole nella seconda e raccogliendo dati nella terza. Questa ricerca, tuttavia, non viene imposta al pubblico, essendo libero in qualsiasi momento di lasciare lo spettacolo e di non farsi influenzare da esso, e non viene nemmeno ricercata apertamente con gli spettatori.
«Nello spettacolo c’è uno svuotamento molto forte e radicale ed è un tentativo di lavorare con il teatro della mente di chi lo fruisce e, pertanto, molto dipende anche dalla disponibilità e dal desiderio di chi partecipa: può non accadere nulla o possono accadere cose straordinarie»
La tecnologia, in un certo senso, prova a guidare lo spettatore, simulando una situazione specifica e organizzandone alcuni passaggi, ma la ricezione di ciascuno è personale e unica. È un momento, specialmente quello nella stanza con le amache e gli altri impianti tecnologici, in cui lo spettatore può stare solo con se stesso; starà a lei o a lui, decidere come viverlo e decidere se condividere l’esperienza.
La tecnologia, nelle sue varie declinazioni – dal foglio di carta scritto con la penna fino agli impianti audio e luce – è lo strumento scelto per permettere un distacco dalla realtà di tutti i giorni; di fare un’esperienza unica del vuoto e dell’assenza di segni che possano dare una precisa collocazione nel tempo e nello spazio alle sensazioni scaturite dalle vibrazioni. La tecnologia simula una realtà naturale, come il deserto, e la proietta nella dimensione artificiale umana, attraverso le grammatiche dell’installazione artistica, della ricerca scientifica, della colonna sonora – composta, coerentemente in tale contesto, dal compositore di musica elettronica Alvin Curran – e del teatro.
—-
«Nella presentazione dello spettacolo si fa riferimento a Jean Baudrillard che, parlando dell’America, dice che “il deserto è spazio assoluto, vuoto di cultura e di senso, assenza di socialità e relazioni”.
Questi vuoti e queste assenze sono stati un’esperienza forte e significativa a partire dall’inizio della pandemia. Che ruolo ha avuto la pandemia, con i suoi vuoti e le sue assenze, nella creazione di Sonora Desert? Lo spettacolo era stato pensato in questo modo sin dagli albori o è mutato in relazione alla pandemia? Se sì, in che modo?»
Il 9 marzo [2020] stavamo ultimando il percorso di prove e di ricerca di Sonora Desert; eravamo al Teatro India, a Roma, quando arrivarono e ci dissero: «Lasciate tutto così com’è; non smontate niente, ma domani non tornate a teatro, perché si chiude tutto.» Lo spettacolo è rimasto installato nella sala prove per mesi – da solo, lì, fermo, con le amache e tutte le altre sale, in questa esperienza di estremo isolamento e di svuotamento di segni rispetto alla realtà – fino a quando non è arrivata la fine del lockdown e abbiamo potuto completare il lavoro. Poi, a giugno, abbiamo concluso il periodo di prove, lavorando altre due settimane.
Durante il periodo di chiusura tra marzo e maggio, abbiamo lavorato a ‘Sparizioni’, un ciclo di documentari radio prodotti per Radio India, un progetto del teatro di Roma creato apposta per il periodo, in cui, noi artisti, chiusi nelle nostre case, abbiamo prodotto questi materiali. È andato in onda su Radio 3 nel programma dei ‘Tre soldi’, sul cui sito sono presenti tutte e quindici le puntate.
Durante ‘Sparizioni’, chiusi in casa e impossibilitati ad andare altrove – immersi in una sorta di vuoto – siamo tornati con la memoria al viaggio compiuto nell’estate del 2019 [ndr. il viaggio ha ispirato lo spettacolo e un diario dal quale alcuni frammenti sono stati utilizzati nello stesso], durante il quale abbiamo iniziato a ragionare sulle questioni del vuoto e dell’assenza. Gran parte del lavoro di Sonora Desert era già stato fatto prima di marzo 2020, riflettendo sul rapporto tra individuo e tempo. Abbiamo esaminato questa correlazione e ci siamo domandati in che modo poter giocare con il linguaggio della scena per provare a far sperimentare agli spettatori un’esperienza di un altro ordine del tempo; un’altra modalità di relazione con il presente e con un oggetto artistico.
L’elemento del viaggio, il racconto dello stesso, l’assenza dei ‘segni’ e il vuoto delle nostre vite – un vuoto che può essere anche un vuoto positivo, da cui poter ripartire – sono arrivati durante la preparazione di Sonora Desert, su cui stavamo lavorando già da un anno e mezzo, ed è come se fossero stati confermati e rafforzati dall’esperienza della pandemia.
Tutto in Sonora Desert è costruito in modo che lo spettatore possa stare con se stesso, all’interno di un vuoto di comunicazione e di segni, come se si trovasse una notte in un deserto. È la prima volta che facciamo un lavoro senza attori, senza performer, senza storia e senza racconto. Nello spettacolo c’è uno svuotamento molto forte e radicale ed è un tentativo di lavorare con il teatro della mente di chi lo fruisce e, pertanto, molto dipende anche dalla disponibilità e dal desiderio di chi partecipa: può non accadere nulla o possono accadere cose straordinarie.
«Si parla anche della dimensione dell’inconscio, dell’esperienza percettiva e della natura del tempo che giocano un ruolo importante nell’esperienza di Sonora Desert.
Queste ricerche come si collegano ai vostri lavori precedenti e come e in che cosa si innovano nello spettacolo?»
La questione del tempo è sempre stata molto importante per noi. Tanti nostri lavori hanno a che fare con il rapporto tra memoria e identità, ciò che chiamiamo ‘io’, e come ci localizziamo rispetto al nostro tempo, al nostro spazio – personale, collettivo, sociale, individuale. Uno dei nostri primi spettacoli, Lev, racconta di un soldato che perde la memoria e del suo tentativo di ricostruirsi un’identità a partire dai ricordi.
Da due anni ci siamo messi a riflettere su quali siano le possibilità del linguaggio della performance di mettere in campo un altro ordine del tempo rispetto a quello percepito dai cinque sensi, come scoperto dalla fisica teorica, dalla neurobiologia, dalla fenomenologia, dai Sufi e dalle religioni.
Ci siamo accorti che avevamo anche il desiderio di affrontarle in maniera diretta, creando un’esperienza che mettesse al centro lo spettatore, nel periodo in cui abbiamo iniziato a lavorare su Le tre sorelle di Čechov (che debutterà a maggio del prossimo anno), in cui tre donne si muovono in un punto dello spazio in cui il tempo è esploso nel quale esperiscono, al contempo, sia il tempo dell’esperienza sia quello della memoria.
È la prima volta che realizziamo un lavoro dove non c’è il teatro, non c’è la performance, non c’è un evento dal vivo di fronte allo spettatore, ma c’è un’esperienza proposta direttamente su di te che la fai.
È una scommessa che richiede una disponibilità da parte di chi partecipa.
«E in questo modo, i vari linguaggi presenti – la musica, il cinema, il teatro – come vengono intersecati?»
Partendo dagli studi della fisica teorica, tutto ciò che ci unisce e ci rende parte dell’universo, dalla stella più lontana al granello di sabbia, è uno stato di vibrazione continua. Questo ci ha condotti verso un’indagine sul suono che si è affiancata agli studi di neurologia sulla percezione dello stesso e sulle vibrazioni che produce il cervello nei diversi stati di coscienza, le onde binaurali alfa, beta e theta.
La scienza dice che, a seconda degli stati di coscienza in cui si trova, il nostro cervello nel suo agire – ma anche il tessuto nervoso e le cellule nervose – produce vibrazioni con determinate frequenze; la pseudoscienza suggerisce che se esso viene sottoposto a specifiche vibrazioni, attraverso il lavoro sul suono, può essere indotto e indirizzato a modalità differenti dell’essere.
Il suono è una componente fondamentale per realizzare la performance. Abbiamo collaborato con il musicista Alvin Curran, oggi ottantaduenne – è stato uno dei padri della musica minimalista statunitense; si trasferì a Roma negli anni Sessanta dove vive tuttora – che ha composto per lo spettacolo una partitura di vibrazioni sulla quale si innestano suoni connessi al tema della memoria condivisa e di quella individuale.
Il suono è un linguaggio più evocativo rispetto a quello dell’immagine, in quanto permette di essere assimilato da ogni persona in maniera diversa, consentendo un’accessibilità maggiore rispetto ai propri ricordi.
In questo non lavoro non ci sono immagini. Non c’è cinema. Non ci sono figure fisiche. Il lavoro sul rapporto tra gli stati di coscienza e le vibrazioni è divenuto centrale sia per quanto riguarda il suono sia per quanto riguarda le luci, anch’esse vibrazioni, attorno alle quali c’è stato un lavoro di composizione luminosa.
«Riguardo ad Alvin Curran. In che modo è stato coinvolto nel progetto? Come siete entrati in contatto? Come la sua musica ha influenzato la creazione di Sonora Desert?»
Abbiamo parlato di vuoto e di assenza di comunicazione, ma Sonora Desert è anche e soprattutto un oggetto artistico che ha un andamento e una drammaturgia costruiti sulla base di tutte le drammaturgie dei riti classici, dai riti sciamanici a quelli di risurrezione dopo una morte apparente. Una volta costituita la drammaturgia dello spettacolo, abbiamo iniziato il dialogo con Alvin Curran perché sentivamo il bisogno di creare un ulteriore livello di approfondimento. Oltre alle vibrazioni e al suono c’era bisogno di lavorare con qualcuno in grado di utilizzare il suono e la musica non in termini ‘musicali’; non si tratta di una composizione musicale [ndr. con melodia e armonia], ma si tratta di una composizione sonora e Alvin [Curran] in questo è perfetto, perché ha sempre lavorato rintracciando la musica nel suono, non trasformando il suono in musica. Dato che vive a Roma, è stato facile incontrarsi. Gli abbiamo raccontato il progetto ed è cominciato un dialogo alla pari tra me e lui circa la composizione della struttura. È venuto alle prove e lui stesso ha fatto l’esperienza dello spettacolo. È stato un lavoro che ha richiesto tantissimo tempo perché noi per primi dovevamo ogni volta sottometterci all’esperienza per capire che cosa funzionasse o che cosa bisognasse aggiustare.
È tutto un equilibrio di pesi molto delicato.
Riccardo Ezzu
regia, luci, scene Claudia Sorace
testi, ricerche e drammaturgia sonora Riccardo Fazi
musiche originali Alvin Curran
direzione tecnica, realizzazione scene e luci Maria Elena Fusacchia
assistenza alla direzione tecnica Simona Gallo, Camila Chiozza
guide Chiara Caimmi, Francesco di Stefano
organizzazione Martina Merico
cura Ilaria Mancia
da un’idea di Glen Blackhall, Riccardo Fazi, Claudia Sorace
produzione Muta Imago
coproduzione Teatro di Roma, Fondazione I Teatri Festival Aperto di Reggio Emilia
con il sostegno di Azienda Speciale Palaexpo, Mic