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FDCT23 – RITRATTO DI DONNA ARABA CHE GUARDA IL MARE

Il 5 giugno alle Lavanderie a Vapore, quarta giornata della 23esima edizione del Festival delle Colline, è andato in scena  Ritratto di donna araba che guarda il mare. Il contrasto tra culture è essenzialmente al centro di questo spettacolo del regista Claudio Autelli e della compagnia milanese Lab121, che mettono  in scena il testo di Davide Carnevali, vincitore del 52° Premio Riccione per il Teatro nel 2013. 

La compagnia ha scelto di non apportare tagli al testo, ma di usarlo integralmente, accludendo sia didascalie che titoli dei capitoli. Per trasformare le parole di Carnevali in suono e immagini, hanno utilizzato una handycam, che durante la narrazione riprende piccoli luoghi creati del modellino attorno a cui gli attori recitano. La scenografa Maria Paola Di Francesco si è occupata anche della realizzazione del modellino: molto bello e preciso nei dettagli, mette lo  spettatore  davanti a luoghi creati con la carta. Grazie alle riprese della macchina si entra a far parte di posti misteriosi dei quali non conosciamo i nomi. Si intuisce solo di essere in una città del Nordafrica. È in queste riprese, utilizzate come fondale scenografico con l’aiuto di un videoproiettore, che ci viene raccontata la storia dei due personaggi principali. Un turista europeo che incontra una donna araba al tramontar del sole, di fronte al mare. Da qui nasce la curiosità da parte di entrambi di rincorrersi e conoscersi. Una storia che parla di amore, della condizione della donna e del potere dell’uomo. Le inquadrature che si creano davanti ai nostri occhi sembrano rappresentare dei quadri che ci ricordano per certi versi quelli di Hopper.

L’obiettivo dello spettacolo consiste nel tentativo di creare qualcosa che si componga pezzo per pezzo, come fosse un puzzle, mettendo insieme piccole parti che solo alla fine, unendosi, mostrino un disegno più grande. Il testo di per sé è, purtroppo, fin troppo statico e alcune delle scene potrebbero godere di un ritmo più incalzante, al fine di favorire la fluidità dell’azione. Quello su cui sembra giusto focalizzarsi, quando si va a vedere questo spettacolo, è la grande componente narrativa che ne costituisce l’ossatura: è il rapido articolarsi di un turbinio di battute, una “guerra verbale”, come l’ha definito il regista Claudio Autelli. Un testo che mostra quanto a volte la differenza di linguaggio, l’impossibilità comunicativa e le divergenze culturali non siano solo frutto di origini geografiche eterogenee ma anche di tradizioni sociali e radici etniche diverse. Una diatriba verbale che genera lontananza e fomenta malintesi, fino a degenerare nel disastro.

Quando la donna araba parla di “fratelli” non parla solo di parenti di sangue ma si porta dietro l’idea di “famiglia”, di onore, di protezione verso le “proprie” donne, di senso di possesso, di controllo. Da spettatrice italiana vedo queste dinamiche non totalmente estranee ad alcune delle nostre tradizioni. Poco cambia dalle situazioni che si verificano soprattutto al Sud Italia, come ha voluto aggiungere Giacomo Ferraù dopo lo spettacolo durante la “Mezz’ora con…”, essendo lui siciliano.

I personaggi sono quattro, tutti contornati da un’aura di mistero. Vengono usati soprattutto come simboli per manifestare dinamiche relative a differenti costumi e di abitudini sociali.

L’uomo europeo, interpretato da Michele Di Giacomo, è un personaggio molto schivo che vuole ammaliare la donna senza però riuscire a prendere coscienza di non essere in Europa ma di avere a che fare con una quotidianità totalmente diversa dalla sua. Uomo di grande presunzione, dai comportamenti egoistici, crede di poter ottenere tutto ciò che vuole.

Alice Conti veste i panni della donna araba, donna che non accetta il rigido stereotipo femminile inseguendo un desiderio di libertà non raggiunto appieno, nonostante le vedute decisamente aperte della sua famiglia. Si sente più indipendente rispetto alle amiche che è costretta ad accompagnare una ad una fino all’uscio di casa, anche a tarda notte. Però, nonostante la sua apparente forza interiore, chiama i suoi fratelli perché rivendichino il suo onore ne confronti dell’uomo che l’ha ferita.

Giulia Viana interpreta invece il bambino, fratello minore della donna, che si porta dietro un sentimento di inquietudine. È soprattutto sul finire della vicenda che si fa avanti il dubbio sulla sua reale natura: buona oppure no? Il suo compito è quello di aiutare veramente l’uomo europeo o, come per gli altri fratelli, ha gli occhi offuscati dalla vendetta? È una domanda a cui Davide Carnevali non vuole dar risposta, ma alla quale preferisce sia lo spettatore, a modo suo, a dare una soluzione interpretativa.

L’ultimo dei quattro, impersonato da Giacomo Ferraù, è il fratello maggiore della donna. Ci è dipinto come uomo compassionevole, nonostante si abbia l’impressione che non sia l’unica sfumatura della sua vera essenza. Si può essere caritatevoli e buoni anche quando un uomo ha fatto del male e ha approfittato della propria sorella? La sua rabbia è dovuta solo al senso di protezione verso la famiglia di appartenenza, o è invece la rivelazione di qualcosa di più oscuro?

L’autore, oltre a proporre una riflessione su migrazioni di popoli e scontri tra culture, se di speranza vuole parlare, non può che lasciar il messaggio finale al bambino. Si può, in questo caso, intravvedere uno spiraglio di ottimismo, vista l’ultima scena dello spettacolo? Possiamo credere inoltre che il confronto tra i due uomini (tra le due culture, aggiungerei) non si sia rivelato fatale? Anche questo non è esplicitato da Carnevali, stimolando così lo spettatore a concludere la storia in base al proprio pensiero e alla personale visione del mondo in cui vive.

Alessandra Botta

di Davide Carnevali
regia Claudio Autelli

con Alice Conti, Michele Di Giacomo , Giacomo Ferraù e Giulia Viana
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
suono Gianluca Agostini
luci Marco D’Andrea
responsabile tecnico Stefano Capra
organizzazione Camilla Galloni e Carolina Pedrizzetti
distribuzione Monica Giacchetto
ufficio stampa e comunicazione Cristina Pileggi
assistente alla regia Marco Fragnelli

produzione LAB121
in coproduzione con Riccione Teatro
con il sostegno di Next/laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo in collaborazione con Teatro San Teodoro Cantù

Marco Cavallo per i 40 anni della Legge Basaglia

Il secondo appuntamento della rassegna Quello che tutti chiamavano manicomio, promossa da Lavanderia a Vapore, Fondazione Piemonte dal Vivo, Regione Piemonte e Comune di Collegno in occasione del quarantennale della Legge Basaglia, ha ospitato il 7 Marzo sul palco della Lavanderia La storia di Marco Cavallo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Selve. La regia è di Franco Acquaviva, che è anche l’attore solista presente sulla scena, e l’aiuto alla regia è di Anna Olivero.

All’interno della cornice della rassegna occorre mettere in luce lo spirito col quale nasce il Teatro delle Selve: fondato nel 1998 da Franco Acquaviva e Anna Olivero, si impegna a promuovere una idea di cultura teatrale in grado di valorizzare le relazioni tra l’ambiente e la memoria che lo abita. Appare chiara l’aderenza rispetto al tema proposto dall’iniziativa e al luogo dello spettacolo: l’attuale Lavanderia a Vapore nasce infatti dalla ristrutturazione di quelle che erano le originarie lavanderie del manicomio di Collegno (questo l’ambiente) ed entra in pieno contatto con il tema proposto, volto a ricordare e riattualizzare il problema dell’esclusione sociale (questa la memoria collettiva). Come ci ricorda lo stesso regista infatti lo spettacolo “appare necessario oggi che molte delle conquiste sociali e civili di quegli anni sono messe in discussione” e la sua idea nasce principalmente da un bisogno di dialogo e di apertura sociale.

La storia di Marco Cavallo parla di quella che fu la prima esperienza di animazione teatrale condotta all’interno di un manicomio. Nel 1973 a Trieste, su idea di Franco Basaglia, un gruppo eterogeneo di persone (fra cui pittori, registi, insegnanti, scrittori, fotografi, animatori) decise di mettere a disposizione la propria professionalità per cercare un nuovo modo di stare insieme e modificare la realtà ancora chiusa e crudele del manicomio. Attraverso la creazione di un grande cavallo di legno e cartapesta dal colore azzurro, simbolo della gioia di vivere, e dalla pancia simbolicamente piena dei desideri di tutti i pazienti, l’esperienza aprì il manicomio alla città e contribuì a cambiare il modo di essere del teatro e della cura. Portata a termine la costruzione del cavallo venne infatti organizzata una grande parata per le vie di Trieste e il quadrupede di cartapesta divenne immediatamente il simbolo per eccellenza della liberazione manicomiale.

Il testo di Franco Acquaviva nasce dalla convergenza di diverse fonti rielaborate all’interno di una cornice drammaturgica creata specificamente per lo spettacolo. Marco Cavallo, il testo a cura di Giuliano Scabia, uno dei maggiori protagonisti dell’azione teatrale del ’73, è l’opera di riferimento, alla quale si aggiungono frammenti di altri testi che disegnano una situazione di teatro nel teatro con tre personaggi e diverse figure minori. Un teatro di narrazione, quello che il regista ci propone, attraverso una e-vocazione (più che una ri-evocazione) dell’atmosfera, delle idee e delle difficoltà proprie di quell’esperienza. L’attore, attraverso la forza della sua fisicità, crea un ricco tessuto di voci che dialogano nel corso della vicenda seguendo un ritmo sempre sostenuto, mai scontato. Il tutto prende avvio da un personaggio che ricorda un’esperienza risalente agli anni universitari, nei quali fu mandato a Trieste dal suo professore di Storia del teatro, nel manicomio quasi dismesso della città. Il suo compito era intervistare il responsabile di un laboratorio teatrale che si sarebbe realizzato nei padiglioni coi pazienti, ma inaspettatamente si ritrovò ad essere parte attiva dello spettacolo, dedicato appunto a Marco Cavallo.

Alle curiosità, ingenuità e resistenze del ragazzo si intrecciano il racconto dell’esperienza storica e le manie bizzarre e divertenti della compagnia dei matti. Nel reparto P troviamo un teatro partecipato, sudato, vissuto in comunità, “un gioco che però impegna”, nel quale i malati riescono a vedere un’attività libera, in cui poter fare ciò che desiderano. Lo studente, inizialmente scettico e dubbioso riguardo all’utilità dell’esperienza, grazie alla sua prolungata permanenza e al dialogo creato a mano a mano con la realtà che lo avvolge, riesce a comprenderne il valore, superando la crisi nata in lui in seguito all’uscita dall’ambiente universitario. Il ragazzo fa così ritorno dal professore senza aver compiuto l’intervista, ma portando con sé una diversa consapevolezza. L’attenzione portata dal regista sui muri interni alla mente dello studente ne è solo un esempio. Muri che, inoltre, ci riportano con un tuffo spontaneo nel presente, ai tanti muri, reali o simbolici, che la contemporaneità continua ad erigere nei confronti dell’altro. Uno spettacolo che, pur portando in scena un’esperienza passata, si dimostra nei suoi contenuti quanto mai attuale, rivolgendosi ad un pubblico appositamente composto da studenti liceali e universitari.

L’autore ci lascia con un messaggio: “la follia è un modo per uscire da se stessi”. Il teatro può rappresentare questa via, laddove esso non è semplicemente vita, ma “vita più follia”. Follia che deve essere insegnata a tutti perché è elemento positivo della vita, come l’acqua e il fuoco.

Si ricorda infine che il 19 marzo si è tenuto un prezioso incontro pubblico organizzato da Fondazione Piemonte dal Vivo e Lavanderia a Vapore presso il Polo del ‘900, nel quale sono intervenute importanti figure: Giuliano Scabia, Peppe dell’Acqua, Renato Sarti e Massimo Cirri. La riunione ha voluto rievocare il clima e le esperienze di quegli anni unitamente alla storia di Franco Basaglia per coinvolgere il pubblico in una riflessione partecipata sulla psichiatria.

 

recensione di Linda Casoli

La storia di Marco Cavallo

di e con Franco Acquaviva

aiuto regia Anna Olivero

produzione Teatro delle Selve 2014

con il patrocinio e il sostegno di: Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal vivo – Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo di Torino, Comune di San Maurizio d’Opaglio, Compagnia di San Paolo

 

Uno Schiaccianoci politically correct

Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli tornano sul palco della Lavanderia a Vapore con una rivisitazione contemporanea del grande classico di Tchaikovsky e Petipa, Lo Schiaccianoci. La versione, riletta e rivitalizzata, rasenta il “mastodontico”: sulla scena non si conta il numero di comparse, presumibilmente una cinquantina, tra danzatori professionisti (compagnia Natiscalzi DT), il coro di bambini della scuola Marconi di Collegno, in collaborazione con la Cooperativa 360, le studentesse delle scuole di danza Stabilimento delle arti di Alessandria e Lab 22 di Collegno. Di “mastodontico”, oltre i numeri, ci sono anche le aspettative di coinvolgimento e di partecipazione che il balletto mette in campo. La complessa idea progettuale mira infatti a far dialogare molteplici e diversificate realtà locali: a quelle già citate si aggiungono l’Accademia Albertina di Torino, presso la quale gli studenti hanno illustrato in un fumetto i testi di Arianna Perrone, ex allieva della Scuola Holden, scritti a contatto con il processo di creazione della coreografia, avvenuto l’anno scorso, sempre fra le mura della Lavanderia. Tali testi costituiscono inoltre parte consistente della drammaturgia dello spettacolo stesso. Non ultima, l’introduzione alla storia del balletto russo tenuta dal prof. Alessandro Pontremoli dell’Università di Torino. Facile intuire che, a fianco della nobile volontà da cui è animato il progetto, la resa coerente e solida dello stesso si prospetta ardua.

Un evento a trecentosessanta gradi della durata di un’ora e mezza (come del resto il balletto originale) che avvicina ambiti professionali diversi, pubblici variegati, famiglie, bambini, ragazzi e studenti. Un evento che tuttavia, in virtù di questa sua natura eterogenea, non si dichiara mai esplicitamente appartenente a una definita etichetta critica: sarà teatro ragazzi o danza d’autore? Un progetto di sostegno a un coreografo emergente o un re-enactment di un classico della danza? O ancora uno spettacolo per le famiglie, sulla falsa riga di un saggio di fine anno? Da un punto di vista drammaturgico la narrazione percorre la vita e i sogni dei personaggi incarnati dai danzatori, che vogliono presumibilmente avvicinarsi alla vita e ai sogni di ognuno di noi, ma con i quali, a livello partecipativo, si fa fatica a identificarsi. La causa è l’addizione di scene eccellenti che prese singolarmente basterebbero a giustificare un intero spettacolo dedicato, ma che susseguendosi rapidamente in una bulimia di cose da dire non rimangono, come meriterebbero, impresse nella memoria dello spettatore. Sul palco, inoltre, si accumulano una serie di oggetti e di strumenti non sufficientemente valorizzati: tra gli altri un grosso tappeto elastico, un giradischi, una moltitudine di giocattoli, costumi variopinti, un vinile, un diario, un microfono, un clarinetto… Viene da chiedersi quanto potere effettivamente abbiano (o non abbiano) avuto i due giovani autori dello spettacolo, Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli, su questi numerosi aspetti importanti e preziosi, costitutivi della loro opera. L’elenco dei coproduttori (Compagnia Abbondanza Bertoni – Cid Cantieri – Festival Oriente Occidente) e dei sostenitori (Lavanderia a Vapore di Collegno, Fonderia 39 – Aterballetto – Reggio Emilia) è ricco e prestigioso. La mancanza tuttavia di una riconoscibilità propria di questo re-enactment dello Schiaccianoci, se non si fa apprezzare dagli addetti ai lavori, è una scommessa per quel che riguarda la ricezione del pubblico, non precisamente avvezzo, come si sa, alla danza accademica e neanche a quella contemporaneità con cui si è soliti oggi reinterpretare i classici. Lo amerà? Lo comprenderà? O gli basterà riconoscere sul palco qualcuno della sua famiglia, magari un suo bambino, perché l’esito del progetto possa dirsi positivo?

L’aspetto più meritevole è certamente la mole inimmaginabile di lavoro e di competenze che stanno dietro allo spettacolo, e che sicuramente hanno richiesto lo spostamento e il coordinamento di grosse masse di partecipanti, ancora più complesse da gestire se si pensa alle diverse fasce di età e alle diverse provenienze (pensiamo soprattutto ai numerosissimi bambini e adolescenti presenti sul palco). Una cultura del corpo che travalica le generazioni e i generi per avvicinare tutti, in una sana e salutare pratica motoria che si è consacrata nella briosa messa in scena finale cui abbiamo assistito alla Lavanderia.

Si rivela particolarmente apprezzabile l’estetica che caratterizza l’opera: un tripudio tipicamente italiano, potremmo dire felliniano, che tramite l’accumulo di immagini celebra il sogno e la festa, resi cinematograficamente dallo spostamento, già citato, di considerevoli masse sulla scena, di una scenografia giocosa e di sequenze coreografiche numerose che sembrano omaggiare le dolcezze della vita in chiave sociale, sostenibile, comunitaria. Forse più ancora che lo spirito natalizio della fonte drammaturgica, lo stile della rappresentazione sposa un gusto e una propensione festosa dello spirito tipicamente made in Italy. Non a caso il coro di voci bianche richiama alla recente memoria quello che, altrettanto fellinianamente, ha cantato e decantato la Vita in vacanza al Festival della canzone italiana di Sanremo poche settimane fa.

Uno Schiaccianoci molto ricco, molto lungo e molto popolato, che in definitiva, come dice uno dei protagonisti nei confronti del signor Drosselmeyer, “affascina ma non è limpido”.

Senza filtro – Uno spettacolo per Alda Merini

È il primo novembre, siamo al Bar Charlie sui navigli di Milano. L’atmosfera è in stile anni Sessanta. La scena davanti a noi è caotica, onirica e suggestiva: sedie rotte, impilate una sull’altra, tazzine da caffè sporche, pagine sparse sul pavimento. Al centro, un tavolino, due seggiole e una macchina da scrivere. Sullo sfondo un musicista, Marco Pagani, commenta la scena con chitarra e pad elettronico. In primo piano, Rossella Rapisarda, co-autrice della pièce con Fabrizio Visconti, è l’unica attrice. Indossa le vesti di un angelo biondo, un po’ spettinato, in attesa di qualcuno che non ci è dato conoscere. Attesa che trasformandosi in racconto dà vita allo spettacolo.

Senza filtro – Uno spettacolo per Alda Merini è la produzione teatrale della compagnia Eccentrici Dadarò andata in scena venerdì 16 Febbraio alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Come da titolo, la rappresentazione omaggia la poetessa e scrittrice milanese, vittima, insieme a molti altri, dell’esperienza di ricovero in manicomio. La Lavanderia, insieme alla Regione Piemonte, al Comune di Collegno e alla Fondazione Piemonte dal Vivo, ha infatti scelto di inaugurare con questo spettacolo la rassegna intitolata Quello che tutti chiamavano manicomio, organizzata in occasione del quarantennale della legge n. 180/1978, meglio conosciuta come Legge Basaglia. Per chi non fosse adeguatamente informato sull’argomento, cercheremo qui di riassumere brevemente i complessi e significativi avvenimenti cui si deve la programmazione dello spettacolo.

Era il 13 maggio 1978 quando venne promulgata la legge “Accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori”, la quale sanciva la chiusura definitiva dei manicomi in Italia. Il luogo scelto per portare in scena lo spettacolo non è casuale: la Lavanderia a Vapore era infatti il luogo deputato al lavaggio dei panni e della biancheria all’interno del manicomio di Collegno, il più grande d’Europa al suo tempo. Qui tuttavia, già nel 1977, anticipando di un anno la legge, su iniziativa dell’Amministrazione Comunale venne abbattuto un primo tratto del muro di cinta che separava la struttura dalla città. Fu un gesto di grande importanza poiché il varco permise per la prima volta a migliaia di cittadini di entrare nel manicomio per visitare una mostra dedicata alla tematica dal titolo Collegno: proposte e documenti. Quell’evento aprì una finestra sulle condizioni di vita dei ricoverati creando così un dialogo tra istituzione psichiatrica e città. Nel 1979 venne infine completata l’opera di demolizione delle mura e il manicomio, da luogo di coercizione, si trasformò definitivamente in un parco pubblico aperto a tutti. Ancora oggi i cittadini collegnesi ricordano vivamente il momento in cui per la prima volta videro camminare liberamente nel parco i tanti pazienti che fino a poco prima avevano vissuto, segregati, a fianco delle loro case. Nel 2008 un’ulteriore trasformazione dello spazio inaugurò l’attuale padiglione multiculturale conosciuto col nome di Lavanderia a Vapore. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile se non fosse stato per la lungimirante battaglia intrapresa dall’intellettuale veneto Franco Basaglia, psichiatra e neurologo.

Quello che ha ospitato lo spettacolo in questione è dunque uno spazio trasformatosi negli anni da luogo di dolore e malattia a terreno fertile per la cultura. Sappiamo come all’interno dell’istituzione manicomiale il sapere e il potere medico venissero usati per creare un’idea di malattia mentale tale da giustificare l’esistenza stessa del manicomio e dei suoi metodi coercitvi. Su queste tematiche si confrontarono importanti studiosi come Foucault, Goffman, Szasz e lo stesso Basaglia, giungendo ad esisti che tutt’ora si rivelano estremamente attuali. Oggi, attraverso una forma di sapere differente, più propriamente culturale, l’ex luogo manicomiale si sta trasformando in una possibilità concreta di condivisione e crescita per il soggetto, attraverso un processo di conoscenza, scoperta e sperimentazione di sé, contribuendo alla formazione di un cittadino, si spera, più critico e consapevole.

Tornando allo spettacolo su Alda Merini, non si fa difficoltà a trovarvi forti parallelismi con questi stessi discorsi. L’angelo biondo sulla scena è un personaggio ripreso da una poesia della scrittrice intitolata Al mio angelo custode che non ha mai imparato a fumare che possiamo vedere come un suo doppio, quello stesso doppio che nella follia spesso partecipa della soggettività dell’individuo. Protagonisti della pièce sono la macchina da scrivere e la musica. Ventiquattromila baci di Adriano Celentano è il brano con il quale inizia la scrittura, che si rivelerà travagliata durante il corso di tutto lo spettacolo: “senza musica – ci dice l’angelo – non c’è amore”. Torna alla mente il momento narrato dalla Merini nel suo testo L’altra verità. Diario di una diversa in cui, durante uno dei numerosi ricoveri in manicomio, il suo medico le diede una macchina da scrivere, invitandola a ritrovare il piacere della scrittura. Com’è la protagonista a ricordarci, in maniera a volte fin troppo retorica, la vita di Alda Merini fu un inno alla vita e all’amore. Una fame d’amore caratteristica dell’uomo che se dura incontrollata tutta una vita comporta facilmente un vuoto, nel quale può emergere il disagio psichico. La poetessa milanese scrisse che “la malattia mentale non esiste, che esistono i dolori e le mancanze ma non la malattia”. In questo troviamo una grande vicinanza con il pensiero di Basaglia il quale sostenne per tutta una vita la distruzione del mito della malattia mentale. Due controverse personalità che, pur da posizioni diverse, hanno dato voce ad una stessa “folle” e visionaria idea.

 

recensione di Linda Casoli

 

Il dramaturg come figura di potere

Per il ciclo “Partecipare” alla Lavanderia a Vapore di Collegno continuano gli incontri di teoria sulla danza e sullo spettacolo dal vivo aperti a tutti, e che in questo caso premiano i partecipanti con agevolazioni, grazie alla nuova carta “IO PARTECIPO”. La ragione della conferenza è da ricercare in un simposio svoltosi nell’intera giornata del 3 dicembre del 2016 intorno alla figura del dramaturg, convegno del quale sono da poco stati pubblicati gli atti. Ospiti di questa presentazione, Alessandro Pontremoli e Carlo Salone (entrambi dell’Università di Torino, rispettivamente Dipartimento di Studi Umanistici e DIST), in dialogo con Workspace Ricerca X e Piemonte dal Vivo, il cui nuovo direttore, Matteo Negrin, si è presentato al pubblico della Lavanderia in apertura all’incontro. Per inciso, Negrin ha specificato l’intenzione di capitalizzare il prezioso lavoro svolto nello scorso triennio da Paolo Cantù e migliorarne l’andamento confrontandosi con i risultati già ottenuti.

Dalle riflessioni di Bourriaud a quelle di Foucault, passando per de Certau, si nota subito di come la semplice presentazione di un convegno sulla discutibile figura del dramaturg conduca in zone del dibattito teorico ben più vaste ed urgenti del solo mercato dello spettacolo. Il sistema teatrale, il suo sviluppo, e soprattutto il suo presunto inviluppo, si confermano strettamente legati alla vita politica di un paese, muovendosi fra sociologia e tradizione impresariale. Titolo del convegno del 2016 era RE: SEARCH DANCE DRAMATURGY, laddove si cercava di identificare un preciso ruolo professionale che si distinguesse da quello del semplice drammaturgo. Se quest’ultimo è per definizione colui che firma il testo teatrale da mettere in scena attraverso l’interpretazione di un regista e della sua compagnia, il dramaturg sarebbe invece quell’individuo, ma anche quel processo creativo in senso più generale, che sta all’origine della contemporanea creazione artistica post-moderna (o post-drammatica, secondo una fortunata definizione di Hans-Thies Lehmann) ormai ampiamente svincolata dalla narratività intesa in senso classico, quella della tradizione aristotelica e della costruzione di situazioni e personaggi facilmente riconoscibili e condivisibili.

Figura tanto ricercata quanto temuta per l’importanza che evidentemente riveste nella riuscita di uno spettacolo, il dramaturg da un lato dona speranza agli operatori che si ritrovano assistiti nel difficile compito di produrre e distribuire spettacoli impossibili, dall’altro preoccupa oltremodo gli artisti che richiedono una libertà d’azione sempre più ampia, ma che facilmente sfocia in un apparente caos. Specialmente se si parla di artisti della danza contemporanea (ricordiamo che la Lavanderia a Vapore, in quanto centro europeo per la coreografia, ha molto a cuore l’argomento). La danza cosiddetta “del terzo paesaggio” (la puntuale definizione è di Fabio Acca) sappiamo infatti essere una disciplina che, in virtù forse del suo linguaggio strettamente fisico, ha con la cultura letteraria e/o drammaturgica, da sempre, un cattivo rapporto. Ma se fosse solo una questione di fisicità sarebbe tutto molto più facile. Se invece la risoluzione dei problemi relativi alla fruizione della danza non è così scontata, e questo convegno ne è una delle molte conferme, si tratta di ricercarne le cause, più audacemente, alla radice.

La definizione di Fabio Acca, per esempio, ci induce a pensare che possa essere proprio la sua innata tendenza allo sconfinamento ad impoverire le manifestazioni della performance contemporanea, non consentendole mai acquisire fondamento sociale, culturale, etico e politico. Di diventare, in altre parole, una disciplina, con una sua più o meno ben delineata identità. Identità che, per statuto, necessita di limiti per definirsi, e in mancanza della quale non può consolidarsi un interesse spettatoriale che vada al di là della mera fascinazione passeggera.

La problematica “danza contemporanea” richiede forse una rivalutazione del suo statuto, ma da parte degli stessi artisti. Non più un terzo paesaggio nel senso di un luogo abbandonato dall’uomo, come vorrebbe la natura della definizione, mutuata da un celebre saggio di Clément, ma nel senso di un luogo certamente altro dal paesaggio comune, ma pur tuttavia dotato di tutte quelle caratteristiche che fanno di un paesaggio un territorio.

Chissà poi se sarà più corretto farlo sfruttando l’apporto di nuove circostanze progettuali o, al contrario, sfoltendo considerevolmente la mole di labirintiche strutture produttive fra le quali il nuovo addetto ai lavori si trova suo malgrado a doversi orientare?

Per risposte a queste ed altre domande invitiamo a consultare il libro in questione, RE:SEARCH_DANCE DRAMATURGY, Prinp Editore, 2017.

Per una panoramica dei due spettacoli che hanno seguito la conferenza alla Lavanderia (Why are we so f***ing dramatic, produzione Fattoria Vittadini e Peurbleue, di C&C Company) rimandiamo alla recensione di Lucrezia Collimato.

Lezioni di Teoria alla Lavanderia a Vapore – Esperienza e Memoria

Nella serata del 13 dicembre, presso la Lavanderia a Vapore di Collegno, la celebre compagnia belga ROSAS ha presentato il suo nuovo ed attesissimo lavoro, A Love Supreme, un’intensa coreografia di cinquanta minuti scritta sulle musiche dell’omonimo disco di John Coltrane. L’egregio dialogo tra scrittura musicale e coreica, messo a punto da Anne Teresa De Keersmaeker e Salva Sanchis, ha motivato alcuni incontri storico-teorici tenutisi nelle ore precedenti allo spettacolo, negli spazi della stessa Lavanderia. Le lezioni hanno visto la partecipazione di Susanne Franco, studiosa dell’Università Ca’ Foscari Venezia, e del musicologo Luca Bragalini.

La prima, svoltasi nel pomeriggio all’interno della sala prove, si inserisce nel percorso di formazione Botteghe d’Arte, che la Lavanderia a Vapore (con il supporto di Piemonte dal Vivo) ha avviato insieme alla Rete Anticorpi XL in collaborazione con la  NOD (Nuova Officina della Danza), offrendo una buona commistione di pratica e teoria ai professionisti del settore. Susanne Franco ha illustrato quelle peculiarità proprie della teoria della danza che ne fanno una disciplina tanto difficile quanto affascinante da approcciare. Esistono infatti, ci insegna la studiosa, due tipi di archivi dai quali attingere la storia della danza: i documenti segnici (foto, video, scritti, disegni, che raccontano di una determinata produzione coreografica) e i corpi dei danzatori sui quali la coreografia stessa è stata scritta. Dall’incontro di questi due serbatoi di memoria, ontologicamente molto diversi, emergono molteplici modalità di ricostruzione del passato coreutico che Susanne Franco, attingendo dal saggio di André Lepecki Il corpo come archivio, ha delineato attraverso alcuni casi topici. Primo quello di Lamentation, celebre solo di Martha Graham presentato dalla stessa autrice negli anni trenta, la quale ne modificò considerevolmente alcuni tratti quando, quarant’anni dopo, lo ricostruì, interpretato da Peggy Lyman. Secondo caso, il dissacrante pezzo che Jerome Bel ha scritto nel 2004 per la danzatrice Véronique Doisneau, ballerina del corpo di ballo dell’Opera di Parigi, la quale racconta, in scena, di come gli agi e i disagi del suo lavoro e del suo ruolo professionale abbiano influito sulla sua vita personale.

Susanne Franco ha poi invitato i partecipanti, prevalentemente addetti ai lavori (danzatori e/o coreografi) a riflettere sul complesso concetto di copyright applicato alla danza. A chi appartiene un’opera creata e firmata da un autore ma scritta sul e con il corpo di un interprete, il quale ne rende a sua volta possibile l’esistenza e la trasmissione? La studiosa ha preso a esempio il caso clamoroso di Richard Move, danzatore in grado di imitare lo stile e il carattere di Martha Graham in maniera tanto fedele da addossarsi più denunce da parte dei possessori dei diritti della Graham. Il processo ha interessato avvocati, critici e teorici, tra i quali lo stesso Lepecki. Addirittura Yvonne Rainer, storica coreografa della post-modern dance, si è cimentata nel tentativo di una “trasmissione impossibile”, cercando di insegnare (con scarsi risultati) i passi del suo Trio A alla finta Martha Graham interpretata da Move. L’ultimo caso di studio analizzato dalla ricercatrice è stato quello della Seasons March, semplice sequenza coreografica scritta da Pina Bausch per i danzatori della sua compagnia, i quali oggi insegnano la stessa sequenza ad amatori di tutto il mondo attraverso video tutorial accessibili a chinque. Sono così gli stessi fan della coreografa tedesca a farne rivivere la memoria attraverso il loro corpo, “appropriandosi” fisicamente dell’opera d’arte. I numerosi cortocircuiti culturali e coreografici esposti da Susanne Franco, in ultima istanza, dimostrano come la memoria necessiti di essere esperita per non perdere il suo profondo significato. Soprattutto nel campo della danza.

Foto di Fabio Melotti

Successivamente, nel corso della serata, si sono succeduti altri due incontri, interni al nuovo programma di formazione del pubblico avviato dalla casa della danza collegnese, denominato Scuola dello Spettatore. Gli interventi, propedeutici allo spettacolo A Love Supreme ed aperti a tutti, hanno trattato il primo la carriera musicale di John Coltrane e l’intrecciarsi di questa con la ricerca spirituale, il secondo la vita e la poetica dell’apprezzatissima coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker. Luca Bragalini ha introdotto gli spettatori al mondo intimo e creativo di uno tra i più geniali compositori nella storia della musica jazz, capace di reinventarsi ad ogni incisione, il quale, proprio nell’ultima traccia di A Love Supreme (1965), ha spinto la sperimentazione compositiva all’estremo, registrando una parte di sassofono fedelmente suonata secondo la metrica del testo di una preghiera da lui precedentemente scritta. Similmente, la coreografia presentata in prima regionale la stessa sera alla Lavanderia a Vapore, traduce la fitta partitura musicale di ogni singolo strumento presente nel disco in un tessuto di precisissimi movimenti affidati ad ognuno dei quattro danzatori in scena. Ancora Susanne Franco, infatti, ha poi illustrato la coretica dell’autrice belga, unica nel suo genere, e non a caso estremamente influenzata dallo studio della musica (la giovane De Keersmaeker ha infatti frequentato il conservatorio per qualche anno prima di virare verso la danza ed iscriversi alla Scuola Mudra di Maurice Béjart). “È una coreografa che pensa da musicologa – racconta la Franco – e che ha sviluppato uno stile compositivo di una complessità disarmante”. La lezione ripercorre esaustivamente le tappe dell’avvincente biografia dell’artista, dalle prime produzioni della compagnia al femminile ROSAS, fino all’apertura del P.A.R.T.S. a Bruxelles, forse ad oggi il più celebre e discusso centro di formazione di danza contemporanea di tutta Europa.

L’interessante ciclo di lezioni tenutosi alla Lavanderia a Vapore le vale a pieno merito il titolo di centro regionale per la danza in Piemonte, e, oltre ad incuriosire gli spettatori, informa gli addetti ai lavori di come la ricerca storica e teorica sia necessaria alla pratica coreutica e a sua volta bisognosa di stringere un più fertile rapporto con danzatori e coreografi. Inoltre l’eterogeneità delle materie trattate ci dimostra come il rapporto tra musicologi e teorici della danza, seppur imprescindibile, sia ancora attraversato da molta timidezza. Timidezza che, se nei primi è dettata da una storica posizione di superiorità culturale, nei secondi è quanto mai, ad oggi, ingiustificata. Musica e danza devono essere studiate insieme, non tanto per evidenti affinità contenutistiche, bensì per coincidenze metodologiche e, soprattutto, di linguaggio. Perché, citando il pensiero della De Keersmaeker, che delle due discipline ha fin da subito compreso la fondamentale inseparabilità, “la danza è un modo di agire, crescere e pensare che più di altri linguaggi richiede di svilupparsi in un contesto collettivo”.

Tobia Rossetti

Foto di copertina di Fabio Melotti

 

A LOVE SUPREME_Sinestesia che danza

La Lavanderia a Vapore di Collegno è stato il primo palcoscenico Piemontese a ospitare il capolavoro di Salva Sanchis e Anne Teresa De Keersmaeker A Love Supreme, coreografia per quartetto di danzatori sulle note dell’omonimo e celeberrimo brano di John Coltrane. Lo spettacolo si apre in un sorprendente silenzio. Continua la lettura di A LOVE SUPREME_Sinestesia che danza

Lavanderia a Vapore – Collegno | Piemonte dal Vivo

Il Blog TeatroD@ms Torino, è lieto di invitare tutti i nostri cari lettori all’incontro organizzato presso l’università con la Lavanderia a Vapore, che incontrerà gli studenti e non solo, per presentarsi e raccontare i propri progetti e la sua ricca programmazione di danza e teatro dell’anno 2017/2018.

L’incontro si terrà mercoledì 22 novembre ore 12, aula 25 di Palazzo Nuovo.

Vi aspettiamo Numerosi!!

La Lavanderia è un centro coreografico di notevole importanza nel contesto italiano ed europeo, nonché sede di rassegne, progetti e programmazioni di danza e di teatro di alta qualità.

Team TeatroD@ams

L’INSONNE: MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

Il tempo si lacera […] Le stagioni hanno perduto il loro significato. Domani, ieri, che vogliono dire queste parole? Non c’è che il presente […] Tutto ciò è adesso. Non è stato, non sarà. È. Sempre. Tutto insieme. Perchè le cose vivono in me e non nel tempo. E in me tutto è presente.

Con un’eco quasi bergsoniana cala il sipario sullo spettacolo che Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli hanno liberamente tratto da Ieri, romanzo della scrittrice ungherese Agota Kristof.

Partire dalla battuta finale è quantomai appropriato: questa è infatti una storia di riemersione

Tobias nasce in un villaggio senza nome e trascorre la sua infanzia all’ombra della madre, la prostituta del paese. Un giorno, quando tra i tanti uomini che frequentano la casa individua suo padre, prende un coltello e glielo affonda nella schiena con l’intento di uccidere anche la madre, stesa sotto di lui. Tobias è allora costretto alla fuga. Cambia identità: diventa Sandor e lavora in una fabbrica di orologi. La sua giornata è un susseguirsi di gesti vuoti, l’unica cosa che pare confortarlo è la scrittura. Scrive e si rifugia nell’ ossessionante attesa di Line, una donna appartentente al passato e affidata all’immaginazione. Un giorno però Line arriva. I due si riconoscono e si amano di un amore impossibile. Potrebbe essere l’inizio di un futuro diverso, ma il passato grava sui due amanti con il suo limite di invalicabilità. Line infatti ha un terribile segreto: è la sorellastra di Tobias… ma non lo sa.

coppia

La narrazione della storia non è lineare, ma costruita su continui dislivelli. Il tempo permea di sè l’intera vicenda, senza tuttavia mai lasciarsi delimitare. I contorni sfumano in suggestioni oniriche, la percezione sfugge, tutto si fa dilatato, confuso. Passato e futuro sono entrambi destinati a confluire nel presente sotto forma di ricordo e immaginazione.

La commistione dei livelli temporali è resa con straordinaria efficacia dall’organizzazione dello spazio scenico e dalla modulazione della luce.

Al centro del palcoscenico un cubo, le cui pareti consistono in pannelli semitrasperenti. All’interno del cubo una stanza con un letto e un tavolo, all’esterno il vuoto. I due attori padroneggiano indistintamente entrambi gli spazi. Questa contrapposizione interno-esterno permette l’alternanza di scene agite e scene narrate e si presta meravigliosamente alla resa scenica di un viaggio tutto giocato sull’accavallarsi di temporalità differenti.

La luce è altrettanto fondamentale, perchè diventa la guida di questo viaggio. Dietro al cubo un faro mobile si sposta di continuo creando suggestivi effetti d’ombra. Seguire il fascio di questa luce è come seguire la memoria nel suo impietoso scandagliare. Le zone illuminate sono le zone del ricordo, l’oscurità invece pertiene all’oblio.

spazio

Impossibile non cogliere il riferimento alla psicanalisi. Non tanto perché il vissuto di Tobias richiama il più classico dei complessi, quello edipico, quanto perchè è lo stesso spettacolo ad assumere – fin dall’inizio – le sembianze di una seduta psicanalitica. Il tutto costruito con grande intelligenza. Non c’è l’assurda pretesa di psicanalizzare un personaggio della finzione, ma la volontà di mostrare un percorso di riemersione nel suo fluire disordinato.

La fantasia dei drammaturghi ha valorizzato la sapiente tessitura del romanzo. Il testo viene rispettato nei suoi snodi principali e nell’uso di una prosa asciutta, messa in risalto da una recitazione mai sopra le righe.

Ad essere riproposti con fedeltà anche i richiami autobiografici che costellano l’opera. La Kristof condivide con i suoi personaggi un destino fatto di fuga dalla patria e ossessione per la scrittura. Scrivere rappresenta per entrambi il tentativo di raccontare la propria storia.

Per Tobias la funzione salvifica della scrittura si carica di un valore aggiunto. È la forza che alimenta l’attesa della donna amata.

In fondo, amare e scrivere altro non sono che due facce della stessa medaglia, perchè fermano il tempo.

Cecilia Nicolotti

L’INSONNE

di Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
regia Claudio Autelli

liberamente tratto da Ieri di Agota Kristof
drammaturgia Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
con Alice Conti e Francesco Villano
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
luci Simone De Angelis
suono Fabio Cinicola
responsabile tecnico Giuliano Bottacin
assistenti alla regia Piera Mungiguerra e Andrea Sangalli
voce registrata Paola Tintinelli

co-produzione Lab121, CRT Milano
spettacolo vincitore In-Box 2015
selezione Visionari Kilowatt Festival 2015
presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo

 

Acqua di colonia

Giornali, radio, televisione, social network, politica, libri di scuola… Perché nessuno parla del colonialismo? Perché fin dall’inizio venne dimenticato? Sono proprio queste domande che i due attori Elvira Frosini e Daniele Timpano si sono posti quando due anni fa hanno ideato lo spettacolo Acqua di colonia. Uno spettacolo in cui sono riusciti a portare in scena un momento importante della storia italiana che, al contrario di come viene ricordato (ammesso che sia conosciuto), ebbe inizio sin dal 1882, e non si riduce quindi solamente ai cinque anni dell’Impero Fascista. Una storia banalizzata, schernita, nascosta e camuffata il più possibile per poi essere dimenticata. E così, come gli attori all’inizio dello spettacolo hanno fatto con il pubblico, anch’io chiedo a voi: “Qualcuno si ricorda qualcosa sul colonialismo? Qualcuno ricorda di averlo mai studiato a scuola?” Se la memoria vacilla possiamo allora affidarci alla lettura di libri, magari testi scolastici. Sapete cosa troveremmo? Nulla. Vuoto. Silenzio. Completo silenzio. Quel silenzio di chi sa e non dice, di chi ha subìto e non ha potuto gridare. Orecchie troppo sorde per udire voci ormai troppo consumate, strappate da chi non voleva che si udissero. E a questo punto, perché interessarsi? Perché scavare a fondo? Ormai le nuove generazioni non si sentono più responsabili di nulla. “Tanto erano altri tempi, non eravamo noi, chi se ne importa. È acqua passata, acqua di colonia, cosa c’entra col presente?”
Siamo attorniati da etichette già pronte, schemi di pensiero già formulati per noi, stereotipi già confezionati, dalla pubblicità alla politica, tutti ci bersagliano e noi non ce ne rendiamo conto.

I due attori, con il loro spettacolo alle Lavanderie a Vapore, di cui ho avuto l’occasione di essere spettatrice solo alla prima parte, si sono presentati al pubblico come chi deve mettere in scena un lavoro e si chiede da dove partire. Iniziano così a cercare di capire cosa sia stato il “colonialismo”, ma la disinformazione risulta un ostacolo molto difficile da superare. Cercano risposte nei filosofi, nei pensatori degli ultimi due secoli, ma hanno grandi delusioni. Allora tentano un’altra tecnica: l’immedesimazione, di se stessi e del pubblico, nella condizione di carnefici di altri uomini. Provano ad immaginare di doversi sbarazzare di alcuni peluche vecchi dell’infanzia, di immaginarli lì sul pavimento morti e di prenderli ad uno ad uno e, guardandoli, buttarli in un sacco nero dell’immondizia. Immaginare tutto il sangue sparso. Ma era necessario, andava fatto, era ormai roba vecchia, già passata.
Naturalmente il rimando alla situazione attuale dell’immigrazione, alle condizioni degli immigrati, sulla nostra consapevolezza e sul nostro dovere di agire, era spontaneo e loro non se lo sono fatti mancare.
E infatti, dopo aver provato a domandarsi come avrebbero potuto fare per capire, spiegare il colonialismo e la sua rimozione, giungono alla conclusione che è inutile preoccuparsi. Tanto vale rilassarsi, “Ora possiamo andare anche noi al mare, ma non sul fondo..!”.
Alessandra Botta

Di Daniele Timpano e Elvira Frosini

Regia: Daniele Timpano e Elvira Frosini

interpretazione: Daniele Timpano e Elvira Frosini

consulenza: Igiaba Scego

aiuto regia e drammaturgia: Francesca Blancato

scene e costumi: Alessandra Muschella e Daniela De Blasio

disegno luci: Omar Scala

progetto grafico: Antonello Santarelli e Valentina Pastorino

con la partecipazione di Suad Omar

produzione: Elvira Frosini e Daniele Timpano