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VANGELO SECONDO LORENZO

Nel momento in cui ho visto nel programma del Teatro Stabile di Torino questo spettacolo, decisi che dovevo andare assolutamente a vederlo. Fu un desiderio dettato dalla profonda stima che nutro verso la grande persona che fu Don Lorenzo Milani. Ero inoltre molto curiosa di sapere come avrebbero affrontato in palcoscenico una storia come la sua.

E’ stata “colpa” del mio ex insegnante di psicologia del mio liceo se mi sono imbattuta in questo personaggio, che oltre essere stato molto attivo a livello sociale e politico, ha dato un importante contributo alle successive riflessioni sulla didattica scolastica.

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SHOWCASE – vetrina giovani coreografi

Avere un milione di idee in mente, progetti artistici, sperimentazioni e non sapere da dove partire per mettere in atto la moltitudine di collegamenti tra studio e azione. Noi iscritti al Dams conosciamo bene questa situazione che ci angustia dal primo anno di università. Parole stampate e nient’altro, a meno che non sia tu a metterti in gioco. Il mondo del quale abbiamo scelto di far parte è così, e questo tipo di preparazione ci mette davanti la cruda realtà: il punto di partenza devi essere tu.
Rapahel Bianco conosce bene la situazione dei giovani artisti, spesso con troppe cose da dire e pochi mezzi. Decide così di creare “Showcase”: un’opportunità per giovani coreografi di esprimere la loro visione utilizzando i mezzi di una compagnia professionale.
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Va Pensiero – una settima con la compagnia Teatro delle Albe

Può la parola farsi vita? Con certezza rispondo negativamente a questa domanda: nell’eterna lotta con la vita la parola scritta perde. La sua salvezza è tornare alla fonte, alla vita, alla carne. È questo che cerco che e che trovo nel teatro che più mi segna.

Accompagnato da queste riflessioni vado  un pomeriggio, nello studio del  mio docente di Storia del teatro con l’intenzione di farmi indicare le strade più interessanti da seguire in questa forma d’arte così antica, eppure per me ventenne pressoché inesplorata.

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AGNESE – FERDINANDO PAËR

Risale al 1809 l’opera Agnese, rappresentata questo marzo al Teatro Regio “in prima assoluta in epoca moderna”. Composto da Ferdinando Paër su libretto di Luigi Buonavoglia il melodramma semiserio riscosse da subito un successo non indifferente, incontrando l’approvazione di Berlioz e Chopin. Grazie a equilibrio drammaturgico e forte espressività musicale, quest’opera esercitò una profonda influenza sulla generazione successiva.

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Egribiancodanza e il BALLETTO DI GYOR alle fonderie limone di moncalieri

Sabato 2 marzo, alle Fonderie Limone di Moncalieri, si è esibito il Balletto Nazionale di Gyor, ospite internazionale all’interno della stagione IPUNTIDANZA 2018/2019 della Fondazione Egri per la Danza.

La serata è iniziata con un caloroso saluto di benvenuto da parte di Susanna Egri seguita da una breve introduzione agli spettacoli Apparizione #5 della compagnia EgriBiancoDanza, PianoPlays e Passage del Balletto Nazionale di Gyor.

La piacevole pièce di apertura è stata quella della compagnia EgriBiancoDanza: uno spettacolo estratto dal lavoro “APPARIZIONI”, coreografia di Raphael Bianco.

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Matilde e il tram per San Vittore

Il sipario è aperto quando ci sediamo in platea. Delle grandi e alte lastre di ferro sovrastano il fondo del palco in una fila orizzontale che sembra infinita, e in mezzo alla scena vediamo solo un tavolo con due panche, anch’essi di ferro. L’atmosfera è quindi fredda, pesante, inquietante, come lo è il tempo in cui saremo catapultati a breve.

Del resto siamo in una fabbrica, e l’ambiente non può altro che essere grigio e opprimente. Ce lo rivela la prima attrice che entra in scena, iniziando a raccontare la storia dei tre grandi scioperi partiti dalle fabbriche di Milano dal 1943, durante la seconda guerra mondiale. Migliaia di operai, stanchi delle condizioni di lavoro inumane, della fame, della vita che stavano conducendo sotto la scure fascista, si ribellano con fierezza alla logica della guerra: se non si fabbricano più le armi, forse anche la guerra finirà. A seguito dello sciopero del 1943 ce ne furono altri due, nel ’44 e nel ’45: una lenta marcia verso la deportazione e la morte per centinaia di operai.

Presto scopriamo che le attrici in scena saranno tre, ma le anime a cui daranno voce sono molte di più: tratto dal libro Dalla fabbrica ai lager di Renato Sarti, lo spettacolo rende giustizia alle storie delle donne, madri, figlie, sorelle degli uomini deportati nei campi nazisti, che prendono vita attraverso l’impeccabile performance artistica di Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola: emozionanti, emozionate, ci trasportano in un epoca buia con le loro parole e azioni taglienti come lame.

Le vicissitudini di queste famiglie si susseguono senza sosta, dando vita a un puzzle che sembra quasi impossibile: la paralisi dei grandi stabilimenti del milanese porta alla paura di essere trovati dalla polizia nazifascista, allo smarrimento di non sapere che fine abbiano fatto i propri uomini.

Poi c’è la speranza di poterli rivedere, di potergli portare vestiti e viveri prima che siano trasferiti a “lavorare” in Germania: là fa freddo, ci ricordano le voci che aleggiano come fantasmi disperati intorno a noi, ed è necessario riuscire a portare ai cari in partenza almeno il cappotto. La frenesia del viaggio attraverso le stazioni lombarde di queste donne viene resa perfettamente dalla recitazione che si fa sempre più ritmata, come una marcia, quasi esasperata, fino ad arrivare alla partenza del treno, verso una meta ignota. Tante donne non erano nemmeno riuscite, nella calca impazzita, a salutare i figli, i mariti, i fratelli, a dargli il maglione o il tozzo di pane che avevano preso repentinamente da casa prima di andare di corsa alla stazione più vicina per raggiungerli.

E tante donne non parleranno nemmeno più con i loro familiari, amici: l’ultima parte dello spettacolo è infatti dedicata alle storie di chi non è più tornato, del vuoto che ha lasciato nel cuore e nelle case di molte famiglie. Ma anche a chi è riuscito a tornare, e negli occhi e nel cuore non ha più avuto lo stesso vigore con il quale era partito: uomini che non riusciranno mai a esprimere la sofferenza che hanno visto e vissuto sulla loro pelle, ma che ogni notte piangeranno in silenzio accanto alle mogli apparentemente addormentate.

Notevole la regia, che attraverso le luci ha esaltato perfettamente i sentimenti di panico, dolore, paura, smarrimento provati dalle tante donne che hanno avuto il coraggio di raccontare la loro storia. Inoltre è stato dato grande rilievo alla componente uditiva, soprattutto durante i racconti delle retate notturne nazifasciste: grazie all’uso abile delle componenti scenografiche in ferro, le attrici riuscivano a far emergere, almeno in parte, quella che doveva essere la confusione e il terrore dato anche dai forti rumori e suoni che rimbombavano nella notte silenziosa.

Una Resistenza, quindi, narrata in modo commovente dal punto di vista femminile di donne forti che si sono trovate improvvisamente a gestire situazioni impensabili, di violenza, miseria e dolore. Come ricorda infatti il regista Renato Sarti: “Fin dalle tragedie greche la voce delle donne è quella che meglio di ogni altra riesce a rievocare l’orrore della guerra, che sempre nuovo, purtroppo, si ripete”.

 

Di Alice Del Mutolo

 

di Renato Sarti
dal libro di Giuseppe Valota Dalla fabbrica ai lager
con Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola
regia Renato Sarti
scena e costumi Carlo Sala
musiche Carlo Boccadoro
luci Claudio De Pace
progetto audio Luca De Marinis
dramaturg Marco Di Stefano
Teatro della Cooperativa
sostenuto da NEXT 2017/18 – Regione Lombardia con il patrocinio di ANPI, Istituto Nazionale Ferruccio Parri
e ISEC e dei comuni di Albiate, Bresso, Cinisello Balsamo, Monza e Muggiò con il sostegno di ANED

 

 

 

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa

Ogni persona che ha letto La metamorfosi di Kafka si è chiesta: chi era prima Gregor Samsa? Quali sogni demoniaci lo hanno trasformato in un insetto?

Lo spettacolo che abbiamo visto domenica 20 gennaio 2019 al Teatro Astra cerca di rispondere a queste domande focalizzandosi sull’incomunicabilità di Gregorio con il mondo circostante. Proprio per questo il protagonista si esprime attraverso la danza, cercando di trasmettere così la sua interiorità. In questo modo si isola nella sua arte, non c’è confine tra le prove e la vita vera. Gregorio si ritrova intrappolato all’interno della sua condizione di danzatore. Questa ricerca ossessiva avviene tramite ripetizioni altrettanto morbose dei movimenti che vanno ad intaccare la sua vita sentimentale e la sua quotidianità attraverso una sorta di frammentazione. Il protagonista è impegnato nella continua memorizzazione della coreografia in vista di un imminente debutto. La meticolosità con cui replica i movimenti è vista come una sfida con se stesso e la voglia di dimostrare agli altri la propria intimità che a parole non riesce ad esprimere. Una ricerca che non solo mira ad un perfezionamento artistico, ma soprattutto ad un senso di libertà. Il suo è un lavoro senza fine verso un’incessante ricerca della perfezione. Un mondo ideale nel quale rifugiarsi dalle frustrazioni che subisce e da tutto ciò che lo circonda.

Gregorio non sa gestire il suo spazio, il suo tempo e la sua routine, perché troppo immerso nella ricerca di ciò che non ha ancora individuato. In questo senso è significativo il finale, quando Gregorio corre, sul posto, verso una palla di luce accecante. Rincorrere qualcosa di indefinito è il dilemma del protagonista.

Lorenzo Gleijeses recita in uno spettacolo della durata di circa un’ora in una pura sospensione del tempo, dove l’immaginario si mescola con la realtà e l’atmosfera è sospesa in una dimensione astratta. La concretezza della vita quotidiana è identificata dalla televisione (che verrà simbolicamente distrutta) e da un robot che vaga per il palco senza meta, proprio come Gregorio.

Progetto di lunga gestazione, Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è il prodotto di quattro anni di prove e cinque di idee. Nasce come creazione di Mirto Baliani (luci e musiche) e Lorenzo Gleijeses, con l’obiettivo di farlo rielaborare da diversi maestri per far sì che ognuno di loro apporti modifiche individuali. Il primo di questi è Michele Di Stefano, coreografo e performer, vincitore del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia nel 2014. Il suo contributo si orienta verso la danza contemporanea.

Il secondo è Eugenio Barba, raggiunto in Danimarca all’Odin Teatret. Quando il regista vide Lorenzo Gleijeses recitare, suggerì subito La Metamorfosi perché i suoi movimenti gli ricordarono lo scrittore praghese. In una notte, proprio come la trasformazione di Gregor nel racconto, gli artisti Gleijeses e Baliani ibridarono il loro lavoro con i testi di Kafka. Questo entusiasmò Barba, che strutturò lo spettacolo in più fasi, tra cui l’inizio, focalizzato sulle prove, e la parte centrale sulla routine quotidiana. Possiamo individuare il lavoro registico di Eugenio Barba anche nell’attenzione dell’attore di “mettersi in forma” che, con estrema precisione dei movimenti, attira su di sé lo sguardo dello spettatore, riuscendo a trasmettere la drammaticità del suo corpo.

I suoni coincidono con le azioni e fanno concretizzare con l’immaginazione dello spettatore oggetti scenici inesistenti.

Nonostante Gregorio sia solo sulla scena, interagisce con altre figure attraverso diverse voci off.

Per cogliere ogni movimento ed effetto scenico altrimenti impercepibile, lo spettatore deve trovarsi frontale al palcoscenico. Proprio per questo il Teatro Astra ha delimitato i posti accessibili, modificando la conformazione stessa del teatro e creando uno spazio diverso.

Qual è il confine tra la sana ricerca artistica e la pulsione patologica? Dove si costruisce qualcosa e dove si distrugge se stessi e gli altri?

Accrescere la propria arte è il tema centrale sia realmente, per la modalità di creazione di questo spettacolo, sia metaforicamente all’interno dell’opera stessa.

E’ questo che causa la crisi dei rapporti tra Gregorio e gli altri personaggi ed è forse l’unico scopo del danzatore: trovare e, in un certo senso, trovarsi.

Alessandra Bina e Alessandra Botta

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, diretto da Eugenio Barba insieme a Julia Varley e allo stesso Gleijeses, prodotto da TPE, Nordisk Teaterlaboratorium e Gitiesse Artisti Riuniti. La consulenza drammaturgica è di Chiara Lagani.

Lo spettacolo ha avuto un’anteprima a inizio dicembre 2018, al Teatro Studio di Scandicci per la stagione del Teatro Nazionale della Toscana. Dopo le repliche all’Astra fino a domenica 20 gennaio andrà a Milano (Triennale Teatro dell’Arte, da giovedì 24 a domenica 27 gennaio) e a Bologna (Centro Teatrale La Soffitta, Dams, martedì 30 gennaio).

CON LORENZO GLEIJESES

REGIA E DRAMMATURGIA EUGENIO BARBA, LORENZO GLEIJESES, JULIA VARLEY

SUONO E LUCI MIRTO BALIANI

VOCI OFF EUGENIO BARBA, GEPPY GLEIJESES, MARIA ALBERTA NAVELLO, JULIA VARLEY

ASSISTENTE ALLA REGIA MANOLO MUOIO

CONSULENZA DRAMMATURGICA CHIARA LAGANI

SPAZIO SCENICO ROBERTO CREA

GLI OGGETTI COREOGRAFICI SONO FRUTTO DELL’INCONTRO CON MICHELE DI STEFANO NELL’AMBITO DEL PROGETTO58° PARALLELO NORD PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA – NORDISK TEATERLABORATORIUM – GITIESSE ARTISTI RIUNITI IN COLLABORAZIONE CON CENTRO COREOGRAFICO KÖRPER

Il capitalismo in tre atti. Lehman Trilogy di Stefano Massini

C’è un libro che tutti gli studenti di economia dovrebbero leggere: Lehman Trilogy di Stefano Massini (Einaudi). E’ un testo teatrale del 2014 che segue la storia della banca americana Lehman Brothers, dalla nascita nel 1850 al fallimento nel 2008. Un fallimento con debiti per 613 miliardi di dollari, considerato una della cause principali della crisi attuale. Ma Lehman Trilogy non è solo una lezione di economia, è un testo scritto con perizia tecnica e molto divertente, in cui l’elemento centrale sono i singoli personaggi che dirigono la banca, che Massini ritrae in modo veramente originale.

Nel 1850 Hayum Lehmann, ventiduenne ebreo di origini tedesche, sbarca a New York e il suo nome diventa Henry Lehman; apre un negozio di stoffe a Montgomery, capitale dell’Alabama, dove lo raggiungono i fratelli Emanuel e Mayer. Questo è il punto di partenza della Lehman Brothers. Da qui in poi la loro storia non sarà che un scalata nel mondo del commercio, una scalata che inizia per caso e forse nemmeno desiderata, portata avanti con umiltà, profondo senso religioso e capacità di adattamento. Quando le piantagioni della città vanno a fuoco Lehman Brothers diventa un’azienda di compravendita di cotone; quando la guerra civile devasta gli Stati Uniti Mayer trasforma l’azienda in banca con l’incarico di finanziare la ricostruzione del Sud. Poi il trasferimento a New York e l’ingresso a Wall Street: la banca è tra le più importanti al mondo e investe in carbone, caffè, ferro, in tutto. Nel frattempo il figlio di Emanuel, Philip, un calcolatore, un parlatore, già a dieci anni un banchiere perfetto, diventa direttore della banca e non sbaglia una mossa: è lui che investe sulle sigarette, sulle ferrovie, sulla costruzione del canale di Panama. E’ lui soprattutto che trasforma la Lehman Brothers in una banca che non investe più in oggetti concreti come il caffè o la stoffa, ma in denaro: ecco la borsa valori. Il figlio Robert lo affianca nella direzione, ma nel frattempo siamo già al 24 ottobre del ’29…

 

Il testo è di sicuro una lezione di storia dell’economia. Viene spiegato come la Lehman Brothers è organizzata internamente, come discute un progetto che deve finanziare, come si crea la propria rete di collaboratori. Come un padre tiene lontano un figlio dalla banca, o un neolaureato arriva a essere dirigente. E’ molto interessante vedere che quando si affacciano sul mercato le invenzioni che cambieranno il mondo, l’aereo, la televisione, il cinema, alcuni perplessi non vogliono investire. Nascono nuovi campi in cui allargarsi, situazioni da sfruttare e perciò scelte da fare: scopriamo che è grazie alla Lehman Brothers che certi prodotti sono entrati nelle case di tutti. In generale il libro mostra la trasformazione dell’economia nel corso del tempo, fino al concetto di agenzia di trading.

 

Ma Lehman Trilogy è particolare anche per altre cose, a cominciare dal modo in cui sono descritti i personaggi. E’ un testo teatrale, ma non ci sono parti: un’unica voce racconta, parla dei personaggi in terza persona, in versi, interrotta qua è là da schegge di discorsi diretti o dialoghi. Questo permette di raccontare la vita dei personaggi e scrivere i loro pensieri come in un romanzo, ma è chiaro che a teatro si sarà costretti ad adottare soluzioni insolite. Baricco ha scritto: “Avevo pensato: impossibile farla a teatro. Mica per altro, è che il testo non ha le parti per gli attori, non ha dei personaggi, non ha una struttura da testo teatrale: è un fiume, in cui le voci si mescolano, i dialoghi nuotano dentro il racconto, la voce narrante compare e scompare, cose così. È molto più un romanzo o un poema epico” (Luca, Vanity Fair del 9 dicembre 2016). Così nel fortunatissimo spettacolo che ne è stato tratto, l’ultima regia di Luca Ronconi, gli attori parlavano in terza persona di se stessi.

 

Massini affronta le figure di questi banchieri con pagine veloci, con tecniche che spiegano il personaggio in poche righe. Per esempio, a ognuno è attribuito un oggetto che lo rappresenta: Henry è la testa, Emanuel il braccio, Mayer una patata. Philip è l’agenda, dove segna in stampatello tutti i suoi problemi/ e giorno per giorno deve scrivere anche la soluzione. Con strumenti come questo l’autore costruisce i personaggi, anche estremizzando alcune personalità, e scrive pagine a volte divertenti, a volte profonde, ma sempre immediate. Un esempio, il matrimonio di Philip Lehman. Philip è talmente quadrato che sceglie la moglie con una classifica sull’agenda, con una stretta selezione tra 12 candidate, del tipo:

 

MESE: NISSAN

CANDIDATA: ADA LUTMAN-DISRAELI

PORTAMENTO: AUSTERO

SPIRITO: ACCIGLIATO

CULTURA: MASSIMA

SINTESI: UN RABBINO

PUNTEGGIO: 120 SU 200

 

MESE: TAMUZ

CANDIDATA: ELGA ROSENBERG

PORTAMENTO: DECORATO

SPIRITO: INGESSATO

CULTURA: ELEMENTARE

SINTESI: CERAMICA DIPINTA

PUNTEGGIO: 71 SU 200

 

I tre fratelli fondatori, invece, sono ritratti da Massini con molto più affetto, sottolineandone l’umanità e la semplice voglia di farsi strada. Ecco come Emanuel corteggia una ragazza, ma da bravo braccio non sa cosa sia la diplomazia:

 

“Non potreste fare un matrimonio migliore

e al tempo stesso un affare:

vendiamo il cotone di 24 piantagioni.”

“Complimenti, ma io che c’entro?”

“C’entrate molto

 dal momento che ci sposeremo

 io e voi.”

“Io e voi?”

“Lascio vostro padre

 decidere la data e la ketubàh.”

“E a me cosa lasciate?”

“Perché? Volete qualcosa?”

Quando la porta di casa Sondheim

si chiuse

violentemente

sulla sua faccia

Emanuel Lehman non si perse d’animo:

dette a se stesso appuntamento

lì davanti

fra non più di una settimana

e mise il mazzolino di fiori dentro un vaso

per non doverlo ricomprare.

 

Questi sono estratti divertenti; soprattutto nella seconda e terza parte però i personaggi sono tormentati, frustrati, e comunque raffigurati con pagine limpide. Con Robert Lehman, figlio di Philip, l’autore costruisce il personaggio più complicato del libro. Robert ha la passione dei cavalli, delle corse e delle scommesse, e il cavallo ovviamente sarà il suo simbolo: su cui puntare, ma che deve correre, che può anche perdere. Che a pochi secondi dalla fine improvvisamente supera tutti e vince. Pur essendo a capo della Lehman Brohers, Robert è oscurato dal cugino Herbert, governatore di New York dal ’33 al ’42, e lo sforzo immane che sta facendo per tirare la banca fuori dalla crisi passa inosservato; eppure è lui è quello che capisce che bisogna investire nel cinema e nei computer. La parte del libro dedicata a Robert è quella più complessa perché si mischiano molti stili, i sogni si sovrappongono alla realtà, l’ebraismo diventa protagonista (Robert si convince di essere Mosé).

 

Ronconi scrive nella prefazione all’edizione Einaudi: “In questo navigare tra i due opposti rischi- egualmente retorici- di assoluta esecrazione e piena incensazione del capitalismo, Massini riesce tuttavia a consegnarci un catalogo di personaggi privi di tesi, teatralmente efficaci proprio perché mobili, inafferrabili, immuni da quella malattia che alla Walt Disney ci fa dividere agilmente la lavagna fra presunti buoni (anticapitalisti) e presunti cattivi”. E lo stesso Massini conferma in un’intervista: “Mi sono attenuto al mio obiettivo di non emettere nel modo più assoluto alcuna forma di condanna”. Questo è vero se guardiamo alla voce narrante, che non si lascia scappare nessun giudizio su quello che racconta. Tuttavia il lettore è chiamato a giudicare perché molte pagine sono scritte con una sottolineatura della degenerazione del mondo delle banche, della natura puramente speculativa dei dirigenti, che guardano alla popolazione americana come a una risorsa da sfruttare e da spremere. Nella seconda e terza parte è questa la visione del mondo della Lehman Brothers. Per noi è impossibile non giudicare:

 

Philip Lehman si è fatto furbo

-ed è il suo capolavoro-

scrivendo sull’agenda

in stampatello

NOVECENTO= NEVROSI, NEVROSI= SVAGO

E fra tutti gli svaghi da finanziare

non ha scelto quello che va per la maggiore

cioè l’acool

[…]

ha puntato sul tabacco

o meglio: sulla National Cigarettes.

 

Senza dimenticare il discorso del Direttore Ramo Pubblicità (già nel secondo dopoguerra) in una riunione:

 

“Se noi trasformeremo la fiducia fra uomini

nella fiducia in un marchio

noi otterremo ben altro che nuovi clienti

otterremo persone che su di noi

non si faranno domande.”

E’ qui che si vede di più la mediazione e la presenza di uno scrittore, che attribuisce una natura particolarmente negativa e grigia ad alcuni personaggi, discorsi e idee. Del resto nello spettacolo di Ronconi alcune figure sono state rese esplicitamente negative attraverso il modo in cui parlavano, l’abbigliamento e il trucco, come il broker Glucksman, pallido in faccia, addosso una specie di impermeabile nero, la voce stridente. Il lettore giudica perché confronta continuamente queste figure con gli umili e scrupolosi fratelli fondatori. Come dice Massimo Popolizio, che interpreta Mayer: “Questi tre ragazzi avevano un’idea del denaro diversa da quella che avranno poi i nipoti, più consona al tempo, più vicina all’umano, alle cose”.

Anche per questo ci sono riferimenti continui all’ebraismo. Dalla prima pagina viene chiarita l’importanza della religione nelle vite dei fratelli, una devozione prioritaria e scrupolosa. Quando muore Philip, invece, la Lehman Brothers non segue il rito ebraico da rispettare nei momenti di lutto e fa solo un minuto di silenzio. Questa perdita di radici coincide con la perdita della moralità della banca, con la trasformazione in squali.

 

La cosa che rimane di più del libro è la tecnica con la quale è scritto. Si mescolano più stili e il lettore riconosce non solo una perfetta conoscenza della lingua drammaturgica. C’è un certa musicalità in alcune pagine, nel senso che si costruisce un ritmo talmente incalzante che sembra di sentire sotto al testo una musica, allegra e molto veloce. Altre volte le pagine sono proprio costruite come strofa- ritornello, con un gruppo di parole sempre uguali che si ripetono durante la scena. Ma ci sono anche tecniche più nascoste: invece di scrivere semplicemente che il caffè viene spedito, Massini scrive: il caffè parte da New York/ contrattato/ firmato/ pagato/ imbarcato. Ci sono, poi, figure simboliche, come quella dell’uomo che cammina sul filo: ogni giorno, quando Philip Lehman va a Wall Street, trova un equilibrista che cammina su un filo sospeso tra due palazzi. Philip in borsa è quell’equilibrista. Già questa scena sarebbe impensabile se si girasse un film sui Lehman Brothers o se ne scrivesse un romanzo, perlomeno un romanzo con l’obiettivo del realismo. Iin verità tutte queste tecniche e questi personaggi sarebbero considerati inadeguati per altri generi, mentre questo è un testo in cui tutto è possibile, perché è una scrittura a metà tra la canzone, l’epica e il teatro.

Lehman Trilogy è un testo che certamente insegna molte cose, ma è un insegnamento che va di pari passo con la componente letteraria. E’ un libro che inizia con uomini che collaborano tra loro e finisce con uomini che cercano di superarsi e sfruttarsi a vicenda. Tu capisci i protagonisti, vivi le loro vite, i loro dolori, i pesi che hanno addosso, eppure da un certo momento in poi non stai più dalla loro parte.

Stefano Massini, Lehman Trilogy, pp 344, Torino, Einaudi, €17,50

La ballata di Johnny e Gill – Fausto Paravidino

Una linea sottile orizzontale, l’universo appiattito, come in un buco nero. L’assenza di tempo e spazio. Una visione dall’alto che è anche visione senza tempo, al di sopra di tutto, primigenia e pura. La fine e l’inizio del mondo. L’anima che si fa Assoluto. Con questi presupposti, lo spettacolo crea il mondo, mondo in cui la necessità, l’imperativo morale è la migrazione. Mondo in cui si erge incontrastata e solinga la torre di Babele, monito del peccato di ubris dell’uomo. Segno della dispersione dell’uomo, diviso in lingue diverse. Gli uomini  tutti fratelli, ben presto si dispersero, chiusi nella loro incomunicabilità, divennero estranei. Ma al centro di tutto c’è sempre un uomo, un uomo qualunque non un santo: Abramo, a cui Dio, dà il compito terrificante di andare a conoscere gli altri uomini. Abramo lascia tutto e parte, non importa se spinto davvero da Dio, o semplicemente dall’impellenza o necessità di viaggiare e conoscere l’altro. Da qui ha origine la nostra civiltà, una civiltà di migrazione continua. La necessità di cambiare la propria condizione esistenziale e materiale verso una terra promessa.

“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria / e dalla casa di tuo padre / verso il paese che io ti indicherò”, il Signore ad Abramo.

Fausto Paravidino, il Dramaturg del Teatro Stabile di Torino, mette in scena in qualità di regista e sceneggiatore, oltre che attore, lo spettacolo La Ballata di Johnny e Gill. Uno spettacolo diverso da quelli in cui siamo soliti imbatterci, se bazzichiamo tra le sue opere. Non più i kitchen sink drama degli esordi, da qualche anno Fausto Paravidino fa del teatro diverso, un teatro sempre contemporaneo, che guarda all’attualità per abbracciare tutto quello che offre, quindi anche il suo passato, la Storia tutta. I Fenomeni che vediamo non sono nuovi, ma repliche di azioni che abbiamo già fatto anni addietro. E allora viene spontaneo partire dalla Bibbia, testo cardine della nostra civiltà, testo che ci culla di nascosto fino al contemporaneo.

Lo spettacolo è una fiaba di qualcosa che non capiamo, con cui non riusciamo a fare i conti. La storia è costruita per quadri, riuniti parzialmente da delle dissolvenze in nero. Johnny e Gill sono italiani, sebbene non lo si dica apertamente. Vendono il pesce, ma non sono soddisfatti della loro condizione. Johnny, dopo uno strano sogno con uomini mascherati, forse emissari del Signore o semplicemente incarnazioni dei suoi turbamenti interiori, prende la moglie Gill e l’amico Lucky e decide di andare via dalla sua terra. Attraversano diversi luoghi, emblema di tutte le migrazioni passate e future, luoghi che portano con sé  i mali dell’uomo che non ha ancora accettato la diversità di Babele. Quindi il deserto con le sue carestie e i suoi predoni/terroristi, sciacalli perversi che spolpano la vittima lasciandola in agonia ad assaporare la sua vacanza spirituale tra la sabbia. I soldati corrotti, che invece si divertono a macerare ulteriormente questa carne sopravvissuta al deserto. E infine il mare, calma piatta di una tempesta in agguato. Sale, arsura, onde. Ma dov’è la terra promessa? Eccola! L’America, luogo della mente. Dove tutti sognano di andare. Paese dei Balocchi, dove i sogni saranno realtà. La massiccia immigrazione italiana in America in anni forse dimenticati di proposito, se si nota con quanto odio accogliamo oggi lo straniero. La xenia, l’ospitalità dell’antica Grecia. Era un dovere sacro per i greci ospitare chi chiedeva l’ospitalità. L’America che ci accoglieva, magari non per dovere, ma accoglieva. Cosa che oggi, pare, si sia persa nei meandri della storia, sia America come in Italia.

Johnny e Gill si scontrano con culture e lingue diverse , si sentono estranei. Gli attori nello spettacolo parlano inglese, francese e grammelot. La lingua può essere un ostacolo ma quando c’è volontà di capire, la si capisce. Dio ha punito gli uomini costringendoli a parlare diversamente, ma in questo spettacolo e sia all’esterno di esso, nel mondo delle migrazioni, c’è la necessità di ricongiungere quello che è stato diviso. Johnny e Gill, in questa nuova terra, fanno quello che sanno fare meglio: vendono il pesce. Incontrano il boss locale, ottengono il suo rispetto. Imbattersi nel boss locale, se si apre un’attività nella zona controllata da questo individuo, è un’usanza, un rito. Zeus proteggeva i viandanti, la xenia, Zeus Xenios. Ora a proteggerli c’è il Padrino. Nonostante gli imprevisti la loro attività avrà successo, ecco l’America che dà possibilità, il sogno americano. La loro vita scorre in parallelo a quella di Abramo: Gill/Sara non potrà avere figli e per questo tentano la strada dell’utero in affitto. Da Agar, la donna che si presta a ciò e che ha lo stesso nome anche della schiava di Abramo, nascerà il loro bambino, Ismaele. La gelosia tra Gill e Agar porterà all’allontanamento di questa e del bambino non riconosciuto. Spetterà ad un tassista vestito da Babbo Natale, annunciare la venuta di un bambino: “ Avrete un bambino, ma ricordatevi, donando la vita si dona la morte, il figlio sarà vostro ma non vi apparterrà: un giorno dovrete restituirlo”. Questo Dio camaleontico infonde speranza in ogni cosa. Ecco il bambino, ecco Isacco. Nella nostra epoca un sacrificio di un figlio come sarebbe possibile e visualizzabile? C’è sempre un sacrificio all’angolo della strada. La guerra, la patria che sacrifica i suoi figli, il figlio che torna allo zio Sam che lo richiede. La guerra in Iraq dopo gli attentati di Al-Qaeda, si presta ad inglobare i figli della terra. Ecco il sacrificio. Ma come Dio salva Isacco, anche il figlio di Johnny e Gill è salvo dalla guerra, così continueranno la loro vita in pace.

La guerra e le migrazioni sono fondamentali per capire il nostro tempo, per individuare il punto da sanare che è lì visibile e aspetta solo la cessazione di queste oscenità. Le persone scappano dalle guerre, dalla povertà, da condizioni esistenziali inaccettabili e ha il diritto di farlo, di migliorare la condizioni. Queste persone lasciano tutto per l’ignoto, per una fede in qualcosa che spesso idealizzano, il paradiso ci sarebbe, ma noi abbiamo deciso di chiuderlo, i porti sono chiusi. Noi abbiamo invece il dovere di accogliere, la xenia dovrebbe essere normale, la regola. Le migrazioni sono anche un fenomeno culturale, un fenomeno per ricongiungere i popoli, per riconoscersi attraverso le diversità. Questo lo spettacolo mette in scena con ironia beffarda e riso ammiccante. La fede, la necessità di poter cambiare di senso la torre di Babele, da monito di peccato a un peccato di ubris ancora maggiore, ma bello: la voglia di accogliere e comprendere il diverso. A noi non ci resta che avere fede nei pesciolini gialli: quando siamo tristi pensiamo a loro.

Emanuele Biganzoli

 

Testo e regia Fausto Paravidino
Ideazione Iris Fusetti e Fausto Paravidino
con Federico Brugnone, Iris Fusetti, Fatou Malsert, Daniele Natali, Tibor Ockenfels, Fausto Paravidino,
Aleph Viola
scene Yves Bernard
luci Pascal Noël
video Opificio Ciclope
costumi Arielle Chanty
maschere Stefano Ciammitti
musiche Enrico Melozzi
coreografia Giovanna Velardi
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
Le Liberté, scène nationale de Toulon, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Il Rossetti Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, La Criée – Théâtre National de Marseille, Pôle Arts de la Scène
Les Théâtres de la Ville de Luxembourg

Hans e Gret – Una fiaba per bambini grandi

Se ti allontani, ti avvicini

Se ti perdi, ti ritrovi

Solo nella dimensione della soglia.

Doris Cortez Villanueva

Lo spettatore non è più lo spettatore estetico che Nietzche rimpiangeva, da quando lo spettatore è diventato un occhialuto ed è diventato critico, lo spettatore dà giudizi non cerca il suo abbandono,  non cerca questo smarrimento, che è aldilà della felicità è fuori dagli ismi, è fuori dal malessere è fuori dal pessimismo e dall’ottimismo è al di là, è da un’altra parte. Si fa i conti con altri pianeti e chissà quali, siamo dei significanti.

Carmelo Bene

Il bello di avere degli spettatori bambini è che loro ricercano ancora quello smarrimento, quell’abbandono, loro non criticano, loro si divertono o si annoiano. Loro non cercano un significato a tutti i costi, cercano un significante, sono rapiti dalla forma, sono degli esteti. La bellezza per un bambino quasi sempre è una questione di proporzioni, segue canoni classici, come la simmetria. La simmetria può essere anche dettata dalle parole, e le parole possono evocare luoghi o immaginari tanto chiari e precisi da essere significanti potenti. Ma la parola in Emma Dante non è mai il motore che muove l’azione, è più simile alla musica che fa muovere i corpi, è parola musicale che evoca un mondo “antico”, “esotico”, lontano nel tempo e nello spazio, il mondo di un dialetto reinventato. La parola è quasi sempre l’effetto e non la causa del movimento.

Lo spettacolo comincia con una scenografia semplice: sedioline di legno sistemate in maniera perfettamente simmetrica rispetto al centro della scena, che coincide con il centro dell’enorme palco vuoto. Non sono semplici oggetti di scena, ma individuano luoghi deputati. Così abbiamo il luogo dove si dorme, dove ci si lava, dove si va in bagno, dove si mangia.  Avere nello stesso luogo, il “letto”, il “tavolo da pranzo” e il “water” introduce immediatamente il tema che ha spinto la regista a misurarsi con la nota fiaba dei fratelli Grimm: la povertà.

La povertà porterà il taglialegna a compiere il gesto “terribile e vile” dell’abbandono dei propri figli nel bosco, spinto dalla compagna/matrigna che in realtà è la vera strega della storia nella misura in cui è disposta a sacrificare, per la propria sopravvivenza, i “suoi” figli. Perché i figli sono di chi li cresce e non di chi li partorisce. Che li abbia cresciuti lei, lo si evince da una monotona routine che dura da sempre.

E in effetti, la casa della strega che ha gli stessi identici luoghi deputati della casa del taglialegna, realizzati con le stesse sedioline, nelle stesse posizioni, fa pensare che quella “vecchiaccia dalla vista corta”, come dice il testo stesso della strega, possa essere una sorta di doppio della matrigna anche lei “dalla vista corta”, nel senso di non essere riuscita, in maniera lungimirante, a vedere che quel gesto vile dell’abbandono di “due bocche da sfamare” non servirà comunque a salvarla. Del resto entrambe fanno la stessa scelta, quella di sacrificare i due piccoli per “sfamare” se stesse. Due donne (che in realtà sono una) accomunate dalla stessa sorte: la morte che arriva come beffa.

I malvagi vengono puniti con la loro stessa moneta, in una sorta di contrappasso “dantiano” più che “dantesco”.

 

Allora ecco l’identità delle due case, separate da un bosco fatto di “aiuole” colorate che terrorizza solo a parole e non nei fatti, nel senso che si dice “di aver paura”, ma in realtà nei fatti ci si affida e ci si fida del bosco tanto da permettere ai due bambini, nonostante siano appena stati abbandonati, di addormentarsi nel bosco. Abbandonati, si abbandonano a loro volta a una dimensione onirica dalla quale non sembrano svegliarsi mai del tutto. Un finto risveglio che mantiene nei connotati della magia, la meraviglia dell’onirico: i vestiti nuovi; la casa simile a quella delle origini ma diversa con la presenza di una figura femminile matrigna ma dai poteri sovrannaturali; l’abbondanza di cibo e di giochi, legati all’immaginario dei sogni che si realizzano.

Il bosco come luogo delle meraviglie, meraviglie mostruose, dove accadono “abbindolamenti” e tradimenti che in qualche modo servono a crescere e che evocano in quelle sfere colorate che scendono dal cielo, che segnano un cammino, i colori e le fattezze di quella casetta di zucchero e marzapane che non vedremo mai, se non nei nostri sogni.

L’immagine quindi del davanzale iniziale, evocato dalla perfezione di quella linea retta creata dalle braccia dei protagonisti è un immagine potente, estremamente evocativa, che rappresenta la vera soglia. La soglia del sogno, dell’immaginazione, del bosco. Allora forse quel bosco è davvero l’aiuola del giardino o del cortile di casa dove i bambini vengono “abbandonati” ai loro giochi e ai loro sogni per far dimenticare loro l’ora del pranzo e della cena e richiamati a rientrare a sera solo per dormire.

Allora quel davanzale è davvero la soglia fra il dentro e il fuori di sè. E’ la finestra che permette ai vari personaggi di vedere dentro quello che ognuno è e ha. La matrigna vede un carrubbo che non fiorirà mai, Hans e Gret la “possibilità” di trovare soluzioni, in una possibile fioritura, nel possibile passaggio di animali da mangiare, il padre vede un cielo azzurro dietro le nubi, la speranza di una redenzione.

Personaggi “gommosi” che ricordano i cartoons di una volta, con le loro smorfie buffe e i loro eccessi, nei sentimenti e nelle azioni. Si pensi alla matrigna e alle sue smorfie facciali o al modo sincopato di mangiare dei ragazzi quando arrivano nella casa della strega, al fuoco e al lancio dei giocattoli, scene “esagerate” da cartone animato.

Il davanzale è anche il luogo del ripensamento, è il luogo dal quale verrà evocato, più che la moglie morta, l’immancabile abito da sposa, che se non fosse una citazione alla poetica di Dante risulterebbe persin troppo didascalico, e se non fosse poetico risulterebbe persin troppo patetico.

Ma se la finestra è la “soglia”, di una potenza e di una bellezza tale da rimanerne incantati,  perché tradirla con dei sassolini che non servono davvero alla scena? Nel momento in cui i bambini staccano i gomiti che segnavano il davanzale per raccogliere a un’altezza diversa dal davanzale i sassolini che come essi dicono dovrebbero essere su quello stesso davanzale “tradito”, l’incanto si spezza, si rivela la finzione, la soglia sparisce. E’ lì, e non quando i personaggi si rivolgono con degli assoli al pubblico, che si abbatte davvero “la quarta parete”. Peccato perdere la potenza di quell’illusione. Ma forse è voluto, perché del resto “Il carrubo fiorirà” come cantano tutti insieme, con quel motivetto tanto orecchiabile che ricorda i canti parrocchiali, una rediviva matrigna e una rediviva strega,  anche la morte è una finzione.

Ma questo è un pensiero da grandi. Ai bambini lo spettacolo piace e rimane impresso probabilmente per quella simmetria. Il centro del palco, sottolineato spesso anche da un cerchio fatto con le sedioline, è il centro della scena, il luogo dove accadono le cose. Dove si raduna la famiglia per mangiare, o meglio non mangiare, dove si addormentano Hans e Gret nel bosco, dove viene imprigionato Hans per farlo ingrassare. Il centro del palco è la meta dove far atterrare i giocattoli lanciati da dietro le quinte per ricreare la stanza dei giochi nella casa della strega, il fulcro dal quale si diramano le fiamme del forno, in un balletto perfettamente simmetrico. La simmetria ritorna in quelle linee parallele delle “aiuole/bosco” che seguono il centro come punto di fuga prospettica. Simmetrico e perfettamente centrato è il davanzale della finestra formato dai gomiti dei personaggi agli estremi del quale troviamo Hans e Gret vestiti in maniera identica, simmetrica.

Uno spettacolo per tutti quegli adulti ai quali, come a Emma Dante da bambina, nessuno raccontava le fiabe, per sentirsele raccontare in carne e ossa dai personaggi. E per tutti quei bambini “grandi” che avrebbero capito anche con meno didascalie, ma che rimangono comunque ammaliati dalle simmetrie, dai colori e dalla musica di uno straordinario pifferaio magico come Emma Dante.

HANS E GRET

Scritto e diretto da Emma Dante

Con Manuela Boncaldo, Salvatore Cannova, Clara De Rose, Nunzia Lo Presti e Lorenzo Randazzo

Scene Carmine Maringola

Costumi Emma Dante

Luci Cristian Zucaro

Assistente alla regia Claudio Zappalà

Assistente di produzione Daniela Gusmano

Tecnico audio e luci Agostino Nardella

Una produzione Fondazione TRG Onlus

a cura di Nina Margeri