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SORELLE

Parole, parole, parole, parole, parole soltanto parole, parole tra noi

(Parole Parole – Fierro, Chiosso, Del re)

Le parole diventano flusso di coscienza, denso come magma che lentamente investe e rapidamente brucia senza lasciare niente.

Lo spazio scenico è completamente aperto, non c’è un palco, non ci sono quinte, la macchina teatrale è a vista. Per terra un enorme cerata bianca crea un quadrato che lascia fuori un perimetro non troppo grande che conduce alla parete di fondo e alle pareti laterali dove sono ubicate le porte delle uscite di sicurezza, sia a destra che a sinistra. Sul quadrato bianco pende dalle traverse superiori un secondo quadrato fatto di luci al neon, linee parallele come trattini bianchi e freddi. Pile di sedie colorate fuori nel perimetro esterno, un carrello appendiabiti con dei vestiti e un pulpito bianco su rotelle anche quelli fuori dal quadrato bianco. Il pubblico in sala sta ancora parlando e quando le due attrici entrano da dietro le scalinate, dove sono seduti gli spettatori, l’assenza del cambio di luci disorienta un po’ e ci vogliono alcuni istanti prima di rendersi conto che lo spettacolo è già cominciato. Del resto l’energia con cui entrano le due attrici forse non è del tutto efficace e si vede che devono far ricorso ad una parte di “mestiere” per tenere su un momento che sarebbe dovuto partire probabilmente con maggiore mordente.

Aprire la scena con un conflitto in atto non è mai semplice. Si capisce subito che sarà uno spettacolo impegnativo per le due attrici visto che è previsto un atto unico di più di un’ora e mezza. Dal punto di vista drammaturgico il conflitto iniziale fa presagire una parabola evolutiva che porterà inevitabilmente alla frattura definitiva di un già così fragile equilibrio tra due sorelle, queste due donne in bilico tra l’accettazione di sé e l’accettazione dell’altra, capaci di definirsi solo come alterità dall’altra. La scena più che un ring, come molti l’hanno definita, appare piuttosto come un foglio bianco che attende di essere riempito.

Perché questo, in fondo, è uno spettacolo sull’attesa. Si attende di comprendere le ragioni del conflitto, si attende di vedere quando e come si raggiungerà il culmine del contrasto tra le due sorelle, si attende di vedere a cosa servono e come verranno usati gli oggetti che sono a vista fuori dal foglio bianco ma evidentemente in relazione con la scena, si attende che tutte le sedie colorate vengano disposte all’interno dello spazio bianco. Quando poi all’interno della diatriba verbale tra le due donne entrano in gioco visioni di conflitti geopolitici, l’estinzione delle api con accenni a problemi ecologici, ecco che si attende di capire dove si voglia andare a parare e quando si capisce che non si vuole andare a parare da nessuna parte a quel punto, si attende che tutto finisca.

Lo spettacolo senza dubbio denota la bravura delle due attrici ma questo forse è uno di quegli spettacoli più interessanti da interpretare che belli da vedere. Eppure c’è molto potenziale (“bello da vedere”) che rimane insondato. Gli oggetti di scena poco utilizzati in alcuni casi quasi per nulla esplorati, messi lì a giustificare un contesto che viene ampiamente spiegato con le parole. L’unico interessante movimento che compie una delle sorelle, disporre in maniera ordinata le file di sedie colorate all’interno di quella chiazza bianca, viene giustificata ribadendo la necessità di allestire la sala per una conferenza che si svolgerà di lì a poco. Così non appena la mente prova a fare dei panegirici immaginativi riguardo a quel colore (quello delle sedie) che comincia finalmente ad animare quel foglio bianco, le parole castrano ogni possibilità creativa, obbligandoti con una perentoria spiegazione a prendere quell’azione per quello che è, vincolandoti ad immagini incastonate su montature precostituite, riportandoci su percorsi rigidamente prestabiliti, su binari difficili da scardinare. Ma la natura di quello spazio, quei colori che prepotentemente riempiono il bianco della scena sono mille volte più evocative di quelle infinite, inarrestabili parole che continuano a pronunciare senza sosta le due attrici. Perché il teatro è azione che accade qui ed ora.

Le parole lontane dall’essere evocative sono descrittive, non evocano veri vissuti ma foto in banco e nero, realtà filtrate da un mondo emotivo confuso e non risolto. Niente è lasciato all’immaginazione, tutto è giustificato. Ci si sarebbe aspettato qualcosa di più da un coreografo come Pascal Rambert soprattutto avendo a disposizione uno spazio con un potenziale così interessante, con tutti quegli oggetti che rimangono sterili e inutilizzati, con due attrici dalla grande energia che rimane compressa e anche quella mai pienamente utilizzata. Il vero problema è che in scena non accade nulla, tutto quello che ci viene raccontato è già accaduto e noi non assistiamo a nulla, il conflitto rimane verbale, l’energia implode entro ognuna di loro anziché esplodere l’una sull’altra come ci saremmo aspettati.

L’autore non sembra credere abbastanza al dramma familiare come materia sufficiente per la messa in scena e il racconto diventa il resoconto di una famiglia radical chic usato come pretesto per accennare a parlare di geopolitica, inquinamento, escatologia della parola, insomma di tanto altro, di troppo altro.

E nonostante tutta quella energia sprigionata a tratti ma non vissuta, tutti quegli oggetti che vengono solo spostati da un punto a un altro ma non utilizzati, di tutta questa materia quello che resta è ancora quel foglio bianco.

Così ora che lo spettacolo è finito, lontano da quel forzato orientamento dato dalle parole, posso ritornare con la mente alle sedie colorate disposte su quel foglio bianco che come i chiodini conficcati nei fori di una lavagnetta bianca come quella con cui giocano i bambini, le due donne/bambine in scena avrebbero potuto disegnare, con la stessa disarmante semplicità dei bambini, il loro vissuto interiore. Allora penso che il dramma familiare sarebbe stato più che sufficiente, se gli fosse stata data la possibilità di “essere” nel qui ed ora della scena.

Nina Margeri

Testo, messa in scena e spazio scenico di Pascal Rambert

Con Sara Bertelà e Anna Della Rosa

Traduzione italiana di Chiara Elefante

Produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts