“Mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”: Natale in casa Cupiello

Martedì 10 Gennaio 2017 debutta al Teatro Carignano di Torino “Natale in Casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, con laregia di Antonio Latella.

La tragicommedia è stata scritta nel 1931 e De Filippo la porta in scena con la sua compagnia fino agli anni Settanta, apportando continue modifiche. Attraverso la figura del protagonista Luca Cupiello, che cerca di riunire la famiglia ispirandosi all’ideale del presepe, che diventa per lui quasi un’ossessione, l’autore vuole mettere in evidenza l’impossibilità di ricreare il nucleo familiare, ormai sfasciato, solo durante una ricorrenza annuale come il Natale.

Antonio Latella supera il naturalismo della rappresentazione di De Filippo, rivolgendosi al pubblico attraverso simboli e invitandolo a immaginare il contesto in cui si svolge la storia. Il sipario si apre rivelando una disposizione lineare e simmetrica degli attori, con al centro il protagonista, Luca Cupiello, interpretato da Francesco Manetti, vestito di bianco, diversamente dagli altri personaggi che indossano abiti di tonalità scure e con gli occhi coperti da una mascherina. Al segnale del bastone di Luca, immagine della malattia incombente, tutti i personaggi iniziano a camminare verso il proscenio mentre dietro di loro viene calata una grande stella cometa, che rimanda al presepe tanto amato dal protagonista, e unico oggetto della scenografia presente nel primo atto. Latella utilizza pochi oggetti di scena, ma fortemente simbolici. Infatti ad ogni personaggio nel corso del secondo atto verrà attribuito un “pupazzo” raffigurante un animale che lo rappresenta (ad esempio Nicolino ha un maiale che rimanda ai suoi comportamenti rudi verso la moglie Ninuccia), ad eccezione di Concetta, moglie di Luca, che traina un carro grande quanto il peso delle vicende familiari che ricadono tutte sulle sue spalle. Nel terzo atto invece l’oggetto predominante è una grande culla, all’interno della quale si trova Luca ormai in fin di vita, circondato dai familiari disposti a formare il presepe, che richiama il tanto agognato sogno familiare del protagonista, che a quanto pare può realizzarsi solo in prossimità della morte. È chiaro dunque che Latella riduca la scenografia lavorando su immagini metaforiche che diventano macroscopiche.

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Tornando al primo atto, dopo il posizionamento della stella cometa, gli attori, sempre su segnale del bastone di Luca, iniziano a recitare coralmente e fedelmente le didascalie mentre vediamo Luca che muove la mano come se stesse scrivendo: Latella sembra così voler sottolineare la fedeltà al testo eduardiano immettendo eccessi di teatralità, ad esempio quando gli attori pronunciano, all’interno delle battute, anche gli accenti (gravi, acuti o circonflessi) accompagnandoli con movimenti che ricordano passi di danza. Inoltre Luca “scrive” l’opera mentre si sta compiendo quasi per ricordare al pubblico la presenza dell’autore, poiché la storia dello spettacolo è un patrimonio di confronto che non deve essere dimenticato tanto che, nel secondo atto, risuona costantemente la voce di Eduardo De Filippo “mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”, per rammentare la sua presenza persistente, mentre gli attori si guardano spaesati attorno, come per cercarlo.

Da segnalare sono sicuramente due aspetti: in primo luogo l’uso sapiente delle luci, statiche per quasi tutto lo spettacolo e che mettono così in risalto l’intensità delle azioni e dei sentimenti, che diventano poi intermittenti e artificiose a metà del secondo atto, dove la tensione accumulata a causa del triangolo amoroso che vede protagonisti Nicolino, Ninuccia e Vittorio, esplode in una danza frenetica durante la quale risuonano versi di animali come in una “giungla” di conflitti familiari. Nel finale le luci tornano a creare un’atmosfera cupa, che rimanda all’incombenza della morte, e forti chiaroscuri che rendono la scena come un dipinto. In secondo luogo, gli attori sono molto abili a passare dall’italiano delle didascalie al dialetto napoletano delle battute e dei dialoghi repentinamente, in particolare possiamo mettere in evidenza la bravura di Monica Piseddu, che interpreta Concetta.

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È rilevante il cambiamento apportato da Latella al finale: il figlio Tommasino uccide, soffocandolo con un cuscino, Luca, con l’approvazione di tutti i presenti, ponendo così fine alle sue sofferenze. Da un lato questo può essere considerato un gesto di amore e pietà nei confronti del padre, nonostante per tutta la vicenda Tommasino si sia dimostrato ingrato e scansafatiche, dall’altro potrebbe anche essere uno spunto del regista per esortare le nuove generazioni a fare tesoro dell’insegnamento della tradizione ma, al contempo, a superarla, rinnovando e sperimentando, facendo così rinascere il teatro.

Alice Del Mutolo
Stefania Pero

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone,
Emilio Vacca, Alessandra Borgia
drammaturga del progetto Linda Dalisi
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino – luci Simone De Angelis – musiche Franco Visioli
Teatro di Roma

 

La notte porta consiglio

Niente di più attuale del testo di Hanoch Levin portato in scena da Andrèe Ruth Shammah, considerato negli anni della sua stesura “scomodo”, il quale affronta una crisi esistenziale tra le mura domestiche avuta dal protagonista Yona Popoch, interpretato da Carlo Cecchi. Una crisi, più di mezza età che coniugale, che porterà a riflessioni filosofiche e a considerazioni sulla vita e sulla morte, quasi preannunciata nelle battute iniziali dal dolore al petto di Yona che si manifesta più volte durante lo spettacolo.

Sipario aperto, letto matrimoniale ben in vista grazie al pavimento inclinato, si spengono le luci ed entra la coppia. Lui, beffardo e duro tanto da definire la moglie un“culo”, lei, Leviva (Fulvia Carotenuto), onesta, come spesso si definisce, e incredula alla reazione improvvisa del marito nel cuore della notte il quale, preso dai pensieri e, apparentemente, dal timore che la moglie lo tradisca, la butta giù dal letto insieme al materasso. Battute comiche si alternano a scene patetiche in cui viene messa a nudo la tristezza e la sofferenza dei personaggi, l’incapacità di comprendere a fondo questa loro vita e ti trovare una scappatoia. I personaggi, infatti, trascorrono più tempo a parlare, a lamentarsi e a insultarsi che ad agire. Leviva minaccia il suicidio ma tenterà sempre e solo di convincere il marito a restare e a invecchiare accanto a lei; Yona proverà ad andarsene di casa per rifarsi una nuova vita senza la moglie, ma nel momento decisivo ecco che sopraggiunge un loro amico, Gunkel (Massimo Loreto), un uomo solo, senza moglie, invidioso di loro. Sarà poi la solitudine di quest’ultimo e la sua infelicità a far cambiare idea a Yona, più che per amore verso la moglie per paura di morire solo. Gli atteggiamenti si invertono: Yona più remissivo, Leviva più audace. E’ lei ora a prendersi beffa del marito, servendosi dello stesso sarcasmo riservatole prima, chiedendo anche sostegno al pubblico, anime dell’aldilà che osservano la loro vita, tra cui si cela anche lo spirito della madre del suo compagno “che se la ride”. Rottura della quarta parete, dunque, così che il pubblico è costretto a vedere la finzione sotto una nuova luce e a guardare meno passivamente, forse un richiamo a Brecht, ben noto per rompere deliberatamente la quarta parete, per incoraggiare il suo pubblico a pensare in modo più critico ciò che stava guardando. Lo spazio del palcoscenico è dominato da Cecchi, quasi mai fermo, il quale trascina il pubblico nel suo sogno di libertà, ma è la voce di Fulvia Carotenuto a prevalere maggiormente, ad attirare l’attenzione del pubblico ed a riportarci con i piedi per terra. Intanto il tempo scorre. Il lavoro di vivere è un testo conflittuale, una commedia crudele e ironica, con battute pungenti. Niente è lasciato al caso come il rumore delle gocce d’acqua: durante l’arco dello spettacolo è possibile udire lo scarico del gabinetto che perde, goccia dopo goccia, come a scandire i secondi che passano, forse un altro modo per farci intuire che Yona ha i minuti contanti.

“Mistero Buffo” in Valsesia

Il sipario si apre e in scena niente, non una sedia, non uno sfondo, nessun elemento scenografico. Dopo alcuni secondi esce Ugo Dighero in maglietta e pantaloni neri, inizia a parlare agli spettatori di quello che vedranno in scena e, ancora prima che inizi veramente lo spettacolo il pubblico in sala è già conquistato.

Mercoledì 18 gennaio Ugo Dighero ha portato sul palcoscenico del Teatro Civico di Varallo, in provincia di Vercelli, due monologhi tratti dalla più celebre opera teatrale di Dario Fo, Mistero Buffo. Lui regista e unico interprete ha saputo calcare la scena brillantemente in entrambi i pezzi: Il primo miracolo di Gesù bambino e La Parpaja Topola . Composto nel 1969, Mistero Buffo è descritto (dallo stesso autore e primo interprete) come una giullarata popolare. Esso, come ci spiega Dighero, è un insieme di monologhi che si ispirano ad alcuni episodi dei Vangeli Apocrifi o a racconti popolari della vita di Gesù. La tecnica di rappresentazione è il grammelot, linguaggio inventato dal Premio Nobel. Esso è un insieme di suoni onomatopeici e di idiomi che assomigliano a diverse lingue o dialetti, i quali in realtà sono inventati. Nella fattispecie i due monologhi presentati hanno una cadenza molto vicina al lombardo, con suoni anche di altri dialetti, in particolare quelli dell’Italia centrale. Il tutto mescolato assieme crea comicità e diverte il pubblico proprio perché sconcerta vedere delle figure sacre o legate alla chiesa in questa veste, per così dire, “terrena”.

«Mi sono arrivate diverse lettere» dice Dighero «non oso immaginare a Dario Fo quante gliene siano arrivate in cui veniva accusato di blasfemia. Io però, fin dalla prima volta che ascoltai questi pezzi rimasi strabiliato e credo che lui abbia trovato un meccanismo straordinario per far empatizzare le persone con le figure sacre, che in genere […] siamo abituati a vedere con una certa distanza. Qui invece ne apprezziamo la profonda umanità, i drammi e le esperienze umane, il che ci svela un aspetto poco conosciuto e estremamente interessante.»

Il ritmo dei due monologhi è incalzante e la parlata è sciolta e spigliata. Il movimento del corpo è fluido e scomposto, non certo paragonabile alla scioltezza di Fo, ma decisamente giullaresco. Dighero pare quasi un bambino che salta, corre per il palco e a volte perde l’equilibrio. L’elasticità e la leggerezza nei movimenti sono dovute anche alla briosa interpretazione di questo attore che, da solo, entra e esce dai vari personaggi con grande maestria e, mantiene sempre, con il pubblico, un contatto diretto spiegando ciò che sta facendo; lo stesso modo in cui, come diceva Fo, i giullari medioevali intrattenevano il loro pubblico nelle piazze. I temi centrali di questi due monologhi sono il potente e il diverso, o forestiero e la difficoltà di integrazione dei nuovi arrivati in una comunità in cui non sanno cosa succeda all’interno, ma di cui vorrebbero far parte ugualmente. Così ne Il primo miracolo di Gesù bambino, che narra, a partire dalla fuga in Egitto, l’infanzia di Gesù, troviamo un episodio che inizia con un divertente sguardo al passato, l’arrivo dei tre re magi al presepe, per poi concentrarsi sulla vita del giovane Jesus a Jaffa, che per essere accettato dagli altri bambini decide di fare un miracolo, far volare con un soffio un uccellino di argilla. Arriva poi il figlio del capo del villaggio, un bambino dispettoso che distrugge tutti gli uccellini e “Palestina”, così viene soprannominato ironicamente Gesù, invoca suo padre Dio. Nella Parpaja Topola invece, il protagonista è un eremita che dopo aver ereditato una grande fortuna, per inganno sposa una giovane donna, l’amante del parroco di un paese vicino. Il monologo narra della prima notte di nozze e delle avventure di Giavanpietro alla ricerca della Parpaja smarrita, peripezie causate da un insieme di equivoci esilaranti che fanno provare empatia e tenerezza per il povero personaggio. Ogni episodio è all’insegna della comicità e della giocosità, dati da una mimica facciale policroma, fatta di tante sfaccettature che ricalcano ogni personaggio. I temi affrontati sono oggi attualissimi, conosciuti e vissuti da tante persone, ma Dighero li affronta con una tale leggerezza e ilarità che non può che suscitare risate; infondo è proprio questa l’idea di Mistero Buffo, rivisitare in chiave buffonesca temi sacri e attuali.

A chiusura della serata l’attore porta sul palco una poesia di sua composizione. Una “lirica populista” (definita così dallo stesso Dighero) che egli scrisse ai tempi della Guerra in Iraq, ma purtroppo sempre attuale visto come stanno andando le cose ancora oggi. Si intitola Ho deciso di esportare una merce nuova, che sarebbe poi la democrazia. Ironicamente Dighero suggerisce come le potenze occidentali siano andate a “liberare” i popoli del medio oriente, ma a modo loro, con tanto di armi, di bombe e di imposizioni culturali. «Facciamo una pazzia, esportiamo la democrazia chi non ce l’ha lo spaziamo via…» declama Ugo Dighero. La sua è una critica al potere, non solo americano ma anche europeo e italiano. Per possedere anche solo una piccola parte di oro nero, nessuno esita a spacciarsi per difensore di pace e libertà. «Pace e concordia al modo intero riempiendo il cimitero…» continua. E conclude: «Noi siamo i buoni abbiamo una mania esportare la democrazia, ma non la tua, la mia.» Il tema principale è sempre il potere, affiancato questa volta dalla bramosia di conquista di nuove terre e dall’imposizione di nuove ideologie. Ugo Dighero ha una grande forza espressiva, in grado di comunicare con chi lo sta ascoltando e, ancora una volta suscita negli spettatori la risata. Questa volta però è una risata più amara perché le ferite che queste guerre hanno lasciato e stanno lasciando sono ancora aperte.

Mi sono seduta al mio posto, prima dell’inizio dello spettacolo con qualche riserva, senza un vero motivo in verità. Alla fine però mi sono dovuta ricredere, Ugo Dighero è stato molto bravo e all’altezza delle interpretazioni del grande Fo. Il pubblico ha riso di gusto, me compresa e ha battuto le mani con calore e partecipazione, proseguendo per diversi minuti nel finale.

 

Trad-attori parricidi: il Natale in casa Latella

Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli; quando sono fedeli non sono belle (Carl Bertrand)


di Matteo Tamborrino

ph: Brunella Giolivo
Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Lino Masella (Nennillo) – ph: Brunella Giolivo

Questo estemporaneo avvio dedicato alle belles infidèles, ci permette in realtà di riflettere su quanto imprescindibile sia il nesso tra traduttologia, filologia e cultura teatrale. Si tratta di una relazione a tre che travalica le mere contingenze della messinscena  (per capirci, l’annosa questione: “Quale edizione del testo scelgo? Come lo traduco o rappresento?”), e che riguarda invece (e soprattutto) una condivisione di metodo, di approccio teorico e dunque di spirito.

Ripartiamo perciò da qui, dallo spirito. Da quella che i filosofi chiamano essenza. Siri Nergaard, docente di Lingua e letteratura norvegese all’Università di Firenze e di Teoria della traduzione presso la Scuola di studi superiori dell’Università di Bologna, ha pubblicato ormai 23 anni fa un’illuminante antologia dal titolo La teoria della traduzione nella storia (seguita poi dal volume, sempre edito per Bompiani, Teorie contemporanee della traduzione), che ripercorre – da Cicerone a Derrida – i maggiori contributi in merito alla questione della “trasposizione di codici e linguaggi”, un tema da cui registi e attori non possono prescindere.

Lettera o spirito? Erompiamo così dalla selva di richiami accademici e giungiamo lesti a ciò che più ci compete. Natale in casa Cupiello, per la regia di Antonio Latella, calca il palco del Teatro Carignano  – con il suo nutritissimo e meritevole ensemble di interpreti – tra il 10 e il 22 gennaio, destando – come prevedibile – reazioni alterne. Come costruire una relazione ottimale con un pubblico che, almeno in parte, si turba al solo pensiero di veder “stravolto” (sull’opinabilità poi di tale assunto torneremo) il divin Eduardo? «Non possiamo adeguarci supinamente alla domanda» è la risposta perentoria di Francesco Villano. «Noi dobbiamo imitare l’essenza di Eduardo, non scimmiottarne la forma attorica. Dobbiamo insomma trovare nuove forme per rendere viva, ancora viva, la sua natura di rivoluzionario, la sua parola d’autore». È il rispetto per lo spirito dunque la legge che governa la traduzione e la trad-azione (nel senso di trasposizione teatrale) di un classico, specie se si tratta di un attore-regista-autore come era l’erede di Scarpetta.

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Tormentato fu il lavoro di Eduardo su questo dramma, riscritto e meditato a partire dal 1931, anno di debutto con i fratelli nella compagnia del Teatro Umoristico, fino alla fine degli anni ‘70, con propaggini radiofoniche e televisive. Parimente tormentata risulta la cornice scenografica all’interno della quale si articola questo pregevole lavoro, che sembra contaminare l’umbratile genio pittorico di Bosch, Caravaggio e Füssli,. Dalla cieca fissità iniziale degli attori, esposti in proscenio e gravati da un’ingombrante cometa di vaporosità simile a un enorme corallo dorato, l’azione esplode poi in un trionfo bestiale di fisicità, tra il gioviale e l’effimero. Ad avvolgere l’intero allestimento, una luce funerea, un coacervo baroccheggiante di tensione geometrica e sensualità animalesca. La scena in cui Ninuccia/Valentina Acca viene rimbalzata come un testimone tra Nicola/Francesco Villano e Vittorio/Giuseppe Lanino racchiude in sé tale dialettica.

Francesco Villano è Nicola
Francesco Villano è Nicola

In un universo contraddittorio che alterna carnalità e mistica, cartapesta e simboli, in cui la tradizione è profanata in maniera irrevocabile, diventando mortifera consuetudine, Nicola è il più outsider di tutti: «Quello di Nicolino è un mondo frustrante, fatto di denaro e bottoni», spiega Villano parlando del proprio personaggio. «Il suo disagio nasce dal non riuscire a esprimere dei sentimenti, che pure egli prova. Non è cattivo, ma non conosce altri linguaggi. È questa situazione di umiliazione a condurlo poi verso il grido finale. Verrà infatti estromesso dai riti dei Cupiello». Villano è dunque un villain atipico: «Quella di Antonio è una regia “orizzontale”: ci offre degli spunti, dei suggerimenti sulla genesi dei nostri caratteri. Poi tocca a noi. Nel mio caso, sapevo di dover dar voce a un uomo innamorato sì, ma che in fondo non ha alcuno strumento per esprimerlo». È il vate del mercimonio, è il Buffalmacco che compra i capponi: «Parla di cibo, sempre: vuol comprarsi la benevolenza della famiglia».

Tradurre è tradire. Tradire (tradĕre) è consegnare. Offrire cioè in una lingua d’arrivo un certo contenuto, che possa sortire un effetto paragonabile all’originale in un pubblico diverso (per idioma e cultura) rispetto a quello per il quale l’opera era stata pensata. Tradurre è dunque l’utopia esperantista, la capacità di saper parlare a tutti, in una “lingua ideale” (cfr. Cicerone, Libellus de optimo genere oratorum), e in ogni tempo. Per rendere immortali delle parole, dei valori, e non le persone che se ne fanno temporanei vettori. Eduardo fu un Grand’attore, ma ora è tempo di farlo Grand’autore, di prender coscienza della sua dipartita (e, con lui, dei suoi mugolii, dei suoi silenzi, della sua inimitabile e inimitata maschera facciale).

“Cominciamo da capo tutto” è il loop disarmante che inquieta gli attori. L’Eduardo promiscuo, l’Eduardo attore s’intende, è morto il 31 ottobre 1984. Dal 1° novembre, rifarlo fu impossibile. Non si tratta di arte, ma di biologia. E se non è ancora morto va almeno debellato, consegnato alla storia (che Amleto, Edipo o anche solo il timido Pietro Rosi ce ne diano la forza!). E in tale “inattuabilità del lutto” ha avuto di certo un ruolo fondamentale (sembra assurdo dirlo) l’enorme quantità di materiale audiovisivo a nostra disposizione. Che ha continuato a renderlo vivo ai nostri occhi. Perfino Carlo Cecchi, che pure mastica De Filippo ad ogni sua nuova prova teatrale, ha saputo recuperarlo concretamente non  prima del Sik Sik del 2000.

È l’altro Eduardo, quello dei copioni, a dover diventare classico, tradizione, “presepio”. Come?

Annibale Pavone è parte del Coro
Annibale Pavone è parte del Coro che – al pari di una tragedia greca – segue lo sviluppo dell’azione

Il testo è rispettato con estrema fedeltà dal regista, ma – per così dire – sovra-costruito. «Da diverso tempo – racconta Annibale Pavone, direttore artistico e parte del coro – Latella conduce uno strenuo lavoro sui testi. Nel caso di Cupiello ha scelto di scavare in profondità, fino al non-detto, penetrando nelle tonicità della scrittura e nelle didascalie» (sempre così abbondanti, peraltro, nei testi dell’autore, il che denota una sua particolare cura nei confronti dell’attore). «Dopo le prime letture, ha definito quella partitura che avete potuto ascoltare», così straniante, così brechtiana: gli accenti gravi, acuti e circonflessi flettono gli attori, nel corso del primo atto, come se fossero tesi da un filo invisibile, intenti a giocare a “sacco pieno-sacco vuoto”. Nel frattempo, il protagonista redige un impercettibile brogliaccio. La fatica e la concentrazione degli attori raggiungono anche gli spettatori più lontani: «I primi quaranta minuti – continua Pavone – prevedono solo movimenti minimi e solo da parte di chi si è già tolto la benda. Per gli altri è un lungo lavoro d’ascolto, che non ammette distrazioni. La cecità ci confonde, ma ciò che deve essere esibito è in primis il testo di Eduardo». È come un’enorme mente, che silenziosa e buia, legge. Altri ostacoli si avvertono poi sul cammino: gli animali del presepe portati a zonzo per il palco (e che diventano opprimenti doppi), o il carretto funebre spinto dall’eccellente Concetta di Monica Piseddu.

Che cosa significa tuttavia confrontarsi con un mostro sacro? L’abbiamo chiesto a Francesco Manetti, l’efficace pater familias in giacca albina (che interpreta però anche la parte dello scrittore in fieri): «Credo che Latella si sia rivolto a me perché ho la fortuna di non avere nulla in comune con l’Eduardo attore. Per età, per provenienza (io sono fiorentino), per storia artistica e biografica. Mi sono approcciato a Luca Cupiello come ad un qualsiasi altro personaggio, ‘come se fosse – e cito Latella – un Checov’. L’intento di Antonio era di creare un padre fuori luogo, incapace di gestire quella famiglia. C’è stata poi da parte sua una richiesta precisa: che il napoletano fosse letto e non detto. Il che sarebbe invece venuto automatico dopo mesi di repliche». Ma d’altronde, compito degli attori non è illudere, “camuffare”. Sul tema, interviene di nuovo Villano: «Il teatro post-drammatico non lascia spazio all’immedesimazione. Il teatro è un gioco: un po’ lo fai, un po’ lo racconti, ma bisogna essere onesti con il pubblico, senza ingannarlo». L’attore persiste, insomma, sulla superficie del personaggio.

Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti
Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti

Checché se ne dica, comunque lo si voglia definire, il Natale latelliano – come già l’Arlecchino –  rappresenta una svolta notevoledeo gratias – in questa impasse storico-teatrale di inizio millennio, che troppo spesso si avventura su sentieri manieristici. E di tale neo-manierismo (dal gelo del 1985 in avanti) lo spettacolo in questione è acme e nemesi. Un Cupiello dunque filologicamente deferente. Non stravolto, né calpestato. Semplicemente ri-formato. Ne tradisce (qui intendi “sovverte”) l’estetica, ma ne tradisce (“consegna”) il senso. Perché solo con una “bella  (eccezion fatta per alcune lungaggini finali) infedele” questo testo può finalmente essere attraversato, capito e restituito alla propria grandezza (parafraso qui Manetti): «Per accettare un’eredità bisogna preventivamente constatare che il padre sia morto».

Plauso (non di rito) a tutti gli interpreti, “artefici magici” di un esempio incantevole di attore-testimone-interlocutore-restitutore. Di un attore, insomma, traduttore. Trad-attori.

Gli insoddisfatti si diano pace.

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
drammaturgia Linda Dalisi
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino
luci Simone De Angelis
musiche Franco Visioli
prodotto da Teatro di Roma – Teatro Nazionale

“STRANI OGGI” COME IERI

La ricerca della felicità è un diritto. E non ci sono gabbie, confini, o oceani che possano fermare il desiderio di vivere la propria vita.”

Dopo il debutto un anno fa al Teatro Gobetti e una tournée di successo, Strani Oggi torna a casa, al Teatro BellARTE di Torino.

Partendo da cinquanta interviste a italiani che vivono all’estero e a stranieri che cercano di costruirsi un futuro in Italia, la compagnia Tedacà porta in scena le storie di Miriam, Joseph, Nicola, Sofia e Giacomo, cinque giovani che si sono dovuti scontrare con la parola “crisi”. Tutto ruota intorno alle loro aspettative e ai loro sogni, ma anche ai loro timori. Quanto è difficile abbandonare le certezze, le abitudini, la famiglia, per inseguire qualcosa che non sai nemmeno dove cercare? Lasciare il tuo paese per fare fortuna, senza la certezza di trovarla. Ma ormai sei arrivato a pensare che dovunque è meglio di qui.

Gli attori sono già in scena mentre il pubblico prende posto. Di spalle, seduti su delle sedie colorate, che fanno parte dei pochi oggetti di scena. Poi le luci si spengono, il silenzio scende, e le storie accadono.

Lo spettacolo si apre col monologo conclusivo di Strani Ieri, portato in scena dalla compagnia nel 2011. Si comincia quindi con le storie dei padri, spesso emigrati dal Sud Italia, che hanno investito sui loro figli forze e speranze di possibilità migliori delle loro. E questo non può che rendere ancora più difficile per i protagonisti la scelta di partire, consapevoli di voler andare altrove per non fare il lavoro dei loro genitori.

Ma più si avanza, più le storie personali diventano fonti per riflessioni universali. Perché qualcuno può viaggiare in cerca di opportunità e qualcun altro no? E così lo sguardo si allarga e noi possiamo vedere la figura del migrante in tutte le sue sfumature.

Ciò che più rapisce però è il contesto in cui queste storie si svolgono. Pochissima scenografia, ben studiata e utile allo scopo. Una miriade di colori. E tanta, tanta musica, dalla classica alla dance. Una musica che porta con sé movimento, a volte molto dinamico ma sempre magistralmente controllato. La quarta parete viene quasi del tutto abbattuta; perché i personaggi parlano a noi per parlare di noi.

La dimensione reale e quella immaginaria si mescolano; passato e presente, ricordi e speranze si uniscono nel qui e ora.

Un torrente inarrestabile di parole e di voci interrotte solo per dare spazio alle note musicali, o a silenzi che parlano ancora più forte. La struttura delle battute in alcuni momenti lascia ampi margini di improvvisazione, che rendono lo spettacolo sempre diverso, ma che sono sempre riportati negli argini di quel torrente impetuoso. I cinque attori si muovono e si incastrano in questo caos perfettamente organizzato.

Una parola per descriverlo: sorprendente. Ogni momento ha qualcosa di nuovo e di assolutamente inaspettato. La componente ironica è molto forte, ma quando necessario è capace di lasciare spazio a momenti di riflessione profondi e forti che inchiodano lo spettatore alla sedia. Un po’ come si sentono i protagonisti. Inchiodati. Perché ormai nel loro paese hanno messo radici, e le radici sono importanti. Ma come dice Giacomo: “Noi non abbiamo le radici. Abbiamo le gambe”.

Ideazione e drammaturgia: Simone Schinocca, Livio Taddeo
Con: Valentina Aicardi, Francesca Cassottana, Andrea Fazzari, Federico Giani, Mauro Parrinello

Regia: Simone Schinocca
Assistente alla regia: Claudia Cotza
Scene: Sara Brigatti
Costumi: Agostino Porchietto
Musiche e arrangiamenti: Maurizio Lobina e Giorgio Mirto

Produzione Tedacà

Il Balletto Teatro di Torino con Chopin, “In Chopin”

Dove la musica si fa corpo e ogni spasmo di fibra muscolare si riverbera nell’aria e nella memoria come una nota dolce, ecco lì sta l’essenza di ‘In Chopin’.

Il Balletto Teatro di Torino nella sua tourneé ha toccato anche il Teatro Giacometti di Novi Ligure, il 24 gennaio2017,  portando la sua poetica davanti a un pubblico, se non numerosissimo, attento e coinvolto.

Uno spettacolo che parla di amore, quello firmato dal giovane coreografo Marco De Alteriis, ma anche di relazioni in senso più ampio, di desiderio di scoprire gli altri e prima ancora se stessi, di solitudine.  E lo fa in maniera delicata, attraverso immagini più che narrazioni, lasciando come vero protagonista un corpo che si sostituisce alla parola, planando nello spazio etereo creato da quel compositore che, citando Daniel Barenboim, sa “piangere e ridere allo stesso tempo, nei grandi come nei piccoli pezzi”.

In scena si entra con una rottura: lontano dall’immaginario di chiunque si approcci a vedere un brano danzato di Chopin, lo spettatore è accolto da una sedia, pesante, moderna, verde, illuminata da un cono di luce che circoscrive lo spazio limitandolo alle figure disegnate dalla danzatrice che vi è seduta.  Un raffinato virtuosismo del coreografo israeliano Itzik Galili, su musica di John Cage, che unito al talento dell’unica performer porta in scena tutte le contraddizioni e le metamorfosi dell’essere femminile. Al centro dello spettacolo brilla un altro pezzo firmato dal prestigioso coreografo: ‘Fragile’. Un passo a due intimo, essenziale, astratto, che richiama le incertezze e le paure dell’uomo, superabili grazie al contatto e alla forza insita nella donna.

Lo spettacolo è un susseguirsi di quadri diversi che vedono l’alternarsi di passi a due, assoli e pezzi danzati da tutti e cinque i danzatori della compagnia: Wilma Puentes Linares, Julia Rauch, Viola Scaglione, Axier Iriarte, Agustin Martinez.

L’uso sapiente di luci, ombre e fumo crea immagini evocative, che distanziano del tutto l’azione coreutica dalla realtà, confinandola in una dimensione onirica, di non-luogo. Ogni dipinto alla fine si chiude in se stesso con un buio che mette termine alla suggestione, in attesa della successiva: come se si venisse svegliati ogni volta, strappati da un sogno e con la frustrazione di averlo già perso, mentre si applaude.

Unico filo conduttore resta quindi l’indagine profonda di questi rapporti tra anime, più che tra persone. Anime che si cercano e si fuggono, che si stringono in abbracci per poi lasciarsi cadere, o che si aggrappano con uno sguardo, senza toccarsi mai. Come le mani dei danzatori, che, morbide e se vogliamo ‘secondarie’ nella partitura coreografica tracciata da De Alteriis, attirano su di loro l’attenzione nei momenti di contatto.

La centralità del corpo, con uno stile dichiarato fatto di movimenti ampi, frequenti passaggi a terra e prese, richiede una preparazione tecnica, fisica e di ascolto dell’altro, che tutti i danzatori dimostrano largamente di possedere, portando in secondo piano a volte il concept, per lasciarsi ammirare in passaggi di palpabile bellezza.

Un tema non nuovo, in sintesi, con musiche non nuove, che forse proprio per questo mettono in risalto il principale merito di De Alteriis e del BTT: quello di riuscire a tratti a creare una ‘musica visiva’. Una melodia suonata dal movimento, che non vuole limitarsi ad accompagnare le note, ma pretende di coincidere con esse.

Suggestioni a discapito della narrazione insomma; corpo a discapito di un’espressività facciale ricercata che però, quando c’è, è  autentica. Il tutto unito ad un interessante scelta dei costumi che, se da un lato sottolinea gli stacchi tra i quadri, dall’altro ne amplifica il senso emotivo, come nell’apoteosi del colore rosso in ‘Maestoso’, coreografia che vede in scena l’intera compagnia e che chiude lo spettacolo.

 

Chiara Borghini

 

Balletto Teatro di Torino

Coreografia MARCO DE ALTERIIS

Musiche FREDERIC CHOPIN

Costumi MARIA TERESA GRILLI

Luci DAVIDE RIGODANZA

Incursioni musicali CONCETTA CUCCHIARELLI

Il lavoro di vivere: “più facile a dirsi che a farsi!”

Sono le due di notte, le tende delle finestre oscurano la stanza matrimoniale dei due coniugi Yona e Leviva Popoch. Al centro di quest’ultima: un letto, sottosopra e disfatto, quasi “sciupato”, metafora senile dell’individuo.

Dormono, quando improvvisamente l’uomo viene colto da un malore al cuore: è una meditazione sul “male di vivere” -molto simile ai due protagonisti calviniani de La vita difficile –  è il bruciore del rimpianto di cose mai fatte, è il desiderio impossibile di tornare indietro negli anni per intraprendere un nuovo ciclo di vita; ma è anche la bramosia di rinascita; infatti, Yona è come una fenice alla quale hanno tagliato le ali, ed ora sembra deciso a riprendersele. Arrabbiato e insoddisfatto, quest’ultimo, decide di destare la consorte dal suo sonno profondo e quieto, ribaltandola letteralmente giù dal materasso, buttandola per terra senza alcuna remora, come si farebbe con un sacco dell’immondizia, per poi, cinicamente, chiederle: “Perché sto con te, Leviva?”

Ed è proprio in questa stanza- che pare un quadro dai colori ormai sbiaditi a causa del tempo- che ha inizio una lunga e logorante guerra di trincea che vede l’alternarsi di ragionamenti filosofici, di insulti ironici e di divertenti sfottò; la rabbia viene “vomitata” l’una addosso all’altro, per sfociare, infine, in violenti e sarcastici atti carnali che ricordano tanto quelli di Philip Roth.

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“Guardatevi sembrate due cani rabbiosi” dice l’impertinente amico Gunkel, osservando la coppia. Gunkel è giunto nella stanza forse perché in cerca di un’aspirina contro il mal di testa, o forse a causa della sua sofferenza scaturita dalla solitudine, in cerca di un po’ di compagnia contro cui inveire. Così, questi due esseri umani mutati in bestie, sprecano parole su parole senza mai agire veramente. Sono inetti di fronte ai loro stessi desideri!

Yona ha preparato la valigia, si è vestito, ha indosso persino una cravatta sopra il suo pigiama preferito, è desideroso di ricostruirsi una vita e perché no, di trovare un nuovo “culo sodo” che sostituisca quella flaccido della moglie. È già in viaggio… sì, ma con la mente, di certo non fisicamente: i suoi piedi rimarranno, infatti, radicati in quella stanza “finché morte non li separi”! La moglie inizialmente inscena, in modo astuto, e pur di non perdere il suo compagno di vita, un gioco di adulazione verso il marito: si offre completamente a lui, inginocchiandosi al suo cospetto, quasi fosse una madonna vergine, per poi trasformarsi in un giannizzero disperato, che recluta il marito, affinché combatta al suo fianco quella cruda ed estenuante guerra di vecchiaia e di morte, che altro non è che il lavoro di vivere.

L’uomo sembra finalmente aver messo da parte la rabbia accecante, per rendersi conto che, in fondo, andare via di casa all’età di cinquant’anni non è poi una grande idea, che in fin dei conti non gli conviene poi tanto rinunciare alle comodità quotidiane, e dunque, a un bel frigorifero pieno, al piatto caldo, e a tutte quelle abitudini che solo trascorrendo una vita insieme, l’altra persona può arrivare a conoscere: dalla quantità di sale per condire le varie pietanze, alla quantità di zucchero da sciogliere nel caffè!

Andrée Ruth Shammah ci regala una regia d’effetto, quasi cinematografica e curata nell’estremo dettaglio. Carlo Cecchi che interpreta il burbero marito, è formidabile nella sua recitazione “stanca”, trascinata e a tratti persino “biasciacata”; estremamente vera la recitazione di Fulvia Carotenuto (Leviva) e Massimo Loreto (Gunkel); merito anche del testo di Hanoch Levin, israeliano scomparso prematuramente -purtroppo poco conosciuto in Italia- che mescolando una freddezza tipica dello straniamento brechtiano ad una violenza già cara al teatro sperimentale del secondo Novecento, ci pone di fronte a dei protagonisti che sono degli anti-eroi per eccellenza, inetti soldati che combattono piccole grandi battaglie quotidiane, ai quali non resta che lamentarsi e crogiolarsi  nei loro fallimenti.

Il lavoro di vivere è una piccola grande analisi sul trionfo delle parole sulle azioni, che spesso caratterizzano la vita di noi fragili esseri umani; è una amara celebrazione dell’abitudine sulla forza vitale, e dunque sulla nostra incapacità di agire, rimanendo stigmatizzati e incatenati ad una situazione che sappiamo peggiorare sempre di più…dunque non ci resta che lamentarci, continuamente lamentarci, perché in fondo ci piace e ci fa comodo così.

Un testo sulla difficoltà e sulla pesantezza di vivere, che vale la pena di essere visto, perché tutti noi, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo sentito o sentiremo, di non essere più in grado di andare avanti.

 

Martina Di Nolfo

 

Di Hanoch Levin

Uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah

Con:

Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto

Musiche Michele Tadini

Teatro Franco Parenti/ Marche Teatro

Lo specchio di Edith

Non si è mai vista una bella donna che non facesse smorfie davanti a uno specchio (William Shakespeare)


ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

Ogni specchio – si sa – è in grado di trattenere frazioni microscopiche del nostro animo: sguardi, smorfie, corrucci, pensieri. Ma che cosa ci attrae di più? L’epifania virtuale di noi stessi (che giunge puntuale, ad ogni successiva riflessione), oppure l’oggetto in sé, quel vetro “narciso” che ci dischiude mondi bislacchi, templi di illusioni rovesciate?

E più ci avviciniamo alla superficie del miraglio, più ci chiudiamo in noi stessi, più smarriamo quel senno che ci rende “ordinari”. Che ci rende, cioè, parte di un mondo “civilizzato”, fatto di altri. Ma nel podere selvaggio e viscerale di Big e Little Edie non c’è spazio per nessun altro. Qualsiasi evasione, qualsiasi pretesa (e pretendente), qualsiasi tentativo di fuga debbono essere arginati. Al di là dei loro corpi – l’uno più spigoloso e teso, l’altro più morbido e fanciullesco –  non c’è (più) nessuno: resta soltanto la “casa romita”. Che le incornicia, come una pala d’altare acuminata. E una ringhiera, che le imprigiona.

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ph. Luigi Ceccon

C’è un breve istante, nello spettacolo di Chiara Cardea ed Elena Serra, in cui la giovane Edith si guarda allo specchio. Spalle al pubblico, Madre di fronte. Entrambe sono ferme, protette dalle asfittiche mura di Grey Gardens. È solo un attimo, sia pur di intensa ambiguità: chi è, davvero, la bella del (quondam) reame che appare sull’orlo traslucido di quella delicata suppellettile? È la donna dai soavi turbanti o quella dalla pungente lascivia, che ne è – in fondo – doppione e contrario?

L’allestimento – che rievoca la relazione morbosa delle parenti reiette di Jackie O’, Edith Ewing Bouvier Beale e figlia  –  trasuda di decadentismo, con un’ottima costruzione delle cromie e della dimensione ottica. Di fine pregio è la palafitta mobile al centro del palco (realizzata da Jacopo Valsania), di color azzurro cielo: la porta, che sbatte fragorosamente ad ogni passaggio delle protagoniste, scandisce il ritmo della rappresentazione. L’abitazione viene presentata al pubblico sotto vari punti di vista, o meglio inquadrata da varie angolature (forse in onore degli antichi “natali cinematografici” di questo plot).

I costumi, cavati da due belle boutique torinesi e curati da Anna Filosa, hanno un’importanza strutturale nell’economia del racconto: essi rimangono tali per l’intero svolgimento dell’azione; restano cioè costumi di scena, conservando la propria essenza mimetica senza mai degradarsi in vestiti dozzinali. Tra pizzi rococò e vestaglie da belle epoque, le due Edie strisciano, ora sinuose ora scomposte, nei propri simulacri di tessuto. La giovane li sfoggia come ultimo lacerto di una carriera declinata (e forse mai cominciata davvero), l’anziana li sfrutta per deprezzare e “denudare” l’high society statunitense che, di quegli abiti, aveva fatto uno status symbol.

foto EDITH
ph. Luigi Ceccon

«Cercavamo un testo capace di indagare la coppia femminile», racconta Elena Serra/Big Edie, spiegando la genesi di questo lavoro. «Volevamo però al tempo stesso ampliare il nostro orizzonte di indagine, oltre il panorama drammaturgico tradizionale: da teatranti, infatti, pecchiamo spesso di auto-referenzialità. Parliamo tra di noi e con il nostro mondo di riferimento. Ma che cosa, chi c’è al di là?».

Dopo un infruttuoso avvio con le Serve di Genet, arriva l’illuminazione: «Un giorno, un amico ci mostrò Grey Gardens, docufilm del ’75 di Albert e David Maysles sulla vita delle Bouvier Beale, zia e cugina di Jacqueline Kennedy. Fu amore a prima vista: rimasi folgorata dalla naturalezza con cui queste due donne gestivano la propria femminilità. Non si limitavano a subire il proprio corpo, bensì lo ponevano continuamente in scena. Recuperare un rapporto sincero con la propria fisicità è molto complesso, soprattutto per le giovani attrici: me ne rendo conto da tempo, lavorando al fianco di Valter Malosti in Accademia».

Due donne; sociopatia q.b.; rapporto atipico con la drammaturgia. Gli ingredienti necessari per un delicato bignè ci sono tutti. Per quanto concerne l’aspetto testuale, Edith nasce – come detto – da una pellicola, che al di là della conduzione “in presa diretta”, resta pur sempre un film, fatto perciò di montaggi e discorsi sconnessi. Le due attrici-registe hanno così proceduto dapprima con l’estrapolazione di segmenti dialogici, traducendoli in italiano, dopodiché li hanno riordinati tematicamente, privilegiando tre nuclei diegetici: la vita di Little Edie e il desiderio di tornare in città, il passato della famiglia (e dei suoi uomini, presenti solo a mo’ di spettri vocali) e infine il rapporto con la casa. Non mancano le interpolazioni, significative per la biografia artistica delle due attrici: fra gli altri, il “Domani, e domani, e poi domani” di Macbeth.

Il progetto, nel complesso assai pregevole, merita di essere segnalato anche per l’attento studio storico e psicologico condotto dalle interpreti/outsiders: oltre all’obbligata full immersion fra i libri di storia americana, le due Edith non hanno trascurato l’allestimento di eventi collaterali, utili – spiega la Serra – «per sperimentare la vita del patriziato: abbiamo così ricostruito al Circolo dei lettori (grazie a Terre Spezzate, leader nella creazione di GdR) il party di debutto di Little Edie in società. Tre ore per provare a immaginare che cosa avessero perso».

ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

L’abitazione, alla fine, urta la protagonista, distesa sul palco come morta. Si compie così quel profetare antico: “vanitas vanitatum et omnia vanitas”. E Yorick – lo specchietto a mano, per intenderci – resta lì sepolto, tra procioni e bellettame.

 

EDITH
di e con Chiara Cardea ed Elena Serra
voci off Michele Di Mauro, Vittorio Camarota e Matteo Baiardi
regia Elena Serra
progetto sonoro Alessio Foglia
scena e luci Jacopo Valsania
costumi e trucco Anna Filosa
assistente alla regia Davide Barbato
direzione tecnica Loris Spanu
artwork Donato Sansone aka Donny Sansuca | foto Luigi Ceccon
produzione Serra/Cardea | produzione esecutiva Teatro della Caduta
coordinamento e organizzazione Davide Barbato | ufficio stampa Giulia Taglienti
con il sostegno di Renaise – abiti d’Altra moda | Tiramisù alle Fragole | Lumeria
progetto realizzato in collaborazione con Terre Spezzate | Arca Studios | il Circolo dei lettori | Il Piccolo Cinema
prima nazionale 14 gennaio 2016 (Torino, Teatro Gobetti)

Elettra: una vendetta al sapore di libertà

La tragedia di Elettra viene portata in scena da Giuliano Scarpinato, attore e regista della scuola del Teatro Stabile di Torino. Ma non è strettamente la tragedia greca, comunemente nota a noi spettatori e lettori dei classici greci, Eschilo, Sofocle o Euripide. È una tragedia che si protrae nel tempo, un mito che passa per diverse rielaborazioni e rimane pregno di esse, fino a raggiungere la penna del drammaturgo viennese Hugo Von Hofmannsthal (1874-1929). Una rilettura in chiave moderna, non dimentica delle precedenti. Messa in scena per la prima volta il 30 ottobre 1903 al Kleines Theater di Berlino, per la regia di Max Reinhardt (1873-1943). Dedicata a Eleonora Duse, che però non recitò mai il ruolo, Von Hofmannsthal struttura la tragedia in un atto unico, in modo tale che la vicenda risulti concentrata in poco tempo, con l’assillante paura, da una parte, e la fretta di una vendetta da compiere al più presto dall’altra. Il drammaturgo incentra tutta la vicenda sulla figura di Elettra, una figura animale, una belva che rantola e si nasconde per casa, non più figura umana ormai, delirante e pazza, ma conscia dell’orrore e del sangue marcio di quella casa; l’unica che non vuole e non può rimanere indifferente davanti al padre ucciso, umiliata, imprigionata nell’ambiente domestico, la cui ostilità l’ha resa cane. Il drammaturgo, partendo dalla psicologia con accenti freudiani dei personaggi, arriva a scandagliare la psicologia e l’animo degli uomini in una chiave moderna. Sarà da qui, da questa analisi della psicologia, da questa caratterizzazione che muove il lavoro di Giuliano Scarpinato. Il regista si concentra sui personaggi e sui loro corpi, dando una maggiore fisicità, innestando tutto ciò dentro le loro pulsioni, odio sì, ma anche eros.

Lo spettacolo inizia con il sipario socchiuso. Si intravede un tavolo, presumibilmente la sala da pranzo, e alcune serve che girano intorno ad esso e poi al di fuori della nostra visuale in cerca di Elettra, chiamandola a gran voce. La paura che Elettra scappi da quella prigione è molto forte. Il sipario si apre del tutto e troviamo questo tavolone rettangolare alle cui estremità, seduti, ci sono Egisto e Clitemnestra che cenano. A bordo tavolo, in posizione centrale, tre serve ascoltano e aspettano le richieste dei padroni. Sul lato destro del palcoscenico Aio è seduto su una sedia con una chitarra in mano. ELETTRA_nuove.1Ma uno sguardo più attento va rivolto alla scenografia e al suo significato. Una tavola rettangolare lunga, come si è detto, con tovaglia bianca e tutt’intorno delle tende bianche, che lasciano intravedere l’ombra della figura che passa dietro. Un bianco dai cui traspare un’atmosfera quasi surreale, di sogno, di pace in contrasto con il sangue e l’odio presenti in quella casa, un luogo che si astrae da tutto il resto, chiuso da queste tende candide. La scelta della sala da pranzo è significativa: essa è un luogo di convivialità, luogo dove possono capitare tutti e quindi non luogo segreto, privato, dove si pianifica la morte di qualcuno. Elettra a un certo punto parlando a sua sorella, Crisotemi, quando quest’ultima rammenta che le porte sono chiuse, le consiglia di non fidarsi vivamente di questa casa e delle porte, perché dietro si può celare qualche imprevisto, qualcuno che origlia, persino i muri non sono sicuri in una casa che ha tradito il suo padrone. Un certo rimando ai drammi di Ibsen, dove le porte assumono una notevole importanza. Qui la sala da pranzo è un luogo quasi a sé stante rispetto alla casa, riparato dalle insidie dell’animo dei personaggi, una specie di rifugio fino a quando Elettra non parla con la madre, e qui svanisce l’aura da luogo incontaminato.

Egisto, qui con il corpo e la voce di Lorenzo Bartoli, è il classico usurpatore, crudele e violento, tiranno di una casa che non è sua, ma che può fare tutto quello che vuole dato che ha il benestare di Clitemnestra. Una figura goffa e spesso sciocca, che non vede oltre quello che ha e la situazione agiata in cui si trova e deve mantenere. Lo si capisce dalle prime battute, quando  pronuncia tre freddure che non fanno ridere, ma essendo lui padrone, figura maschile dominante, ha il potere di far ridere gli altri e tutti ridono, forzatamente, ma ridono, dalle serve a Clitemnestra, per di più potendo sbeffeggiare anche il povero Aio, indotto a cantare per le gozzoviglie e le bevute dei due padroni. Dapprincipio il giusto amante, la riserva ad un marito via da più di dieci anni per la Guerra, a tal punto da essere infatuata, imprigionata dai suoi voleri fino a cambiarlo come figura dominante della casa con il marito, poi ucciso in bagno. Il maschile che vince e infatua il femminile.

Finite le gozzoviglie, le serve ormai prolungamenti viventi dei voleri dei padroni, non indietreggiano o si pongono domande vedendo l’orrore della condizione in cui è ridotta Elettra. Hanno paura del mostro, ma devono controllarlo e tenerlo prigioniero per i voleri dei padroni. Elettra, interpretata formidabilmente ed energicamente da Giulia Rupi, è una belva, uno sciacallo che si nasconde e viene alla luce a fine banchetto, cercando rimasugli di cibo. Quasi una figura pazza che cerca disperatamente in una pozza o nel cielo la figura del padre, lo chiama ma lui non c’è più. Lei non è dimentica di ciò che è accaduto, il ricordo le fa riaffiorare la ragione, una ragione di vendetta nei confronti di una madre che ha ucciso e infangato il proprio marito. Sente profumo di vendetta e deve compierla ora, ma da sola non riesce e ha bisogno di un aiuto. Lo cerca nella sorella, che è però troppo spaventata: ha orrore della madre ma pensa solo a delle possibili nozze per uscire dalla casa prigione. L’aiuto Elettra lo trova invece in un avventuriero, il fratello Oreste, dapprima non riconosciuto, che torna per compiere la vedetta. Lo scontro non si gioca con pugnali e sangue, ma a parole, che colpiscono più di un’arma. Clitemnestra, qui Elena Aimone,  acconsente alla figlia Elettra di parlare. Ha bisogno di parlare, perché con il suo amante non può, buono solo per le voglie carnali; ha bisogno di ascoltare una figlia che seppur ritrosa e belva, è sempre la propria figlia. Ha bisogno di perdono e lo spera anche quando la figlia le dice che per placare tutto ci vuole il sacrificio suo, della madre. Elettra da belva ritrosa la ascolta, ma ciò le fa traboccare l’ardore di vendetta, che da lì a poco si consumerà. Finalmente libera e non più sotto le angherie dei padroni, non più prigioniera della vendetta e del ricordo del sangue del padre, Elettra sentendo voci melodiche può raggiungerle e si libera definitivamente. Una morte forse riduttiva, ma consona ad uno spirito prigioniero che raggiunge la sua pace interiore.

Il regista ci vuole mostrare come questo dramma non sia solo un dramma di vendetta, odio, ma anche un dramma dell’eros. Innanzitutto eros tra Egisto e Clitemnestra, la passione non lecita, ridondante, che sfocia in camera da letto nel programmare l’assassinio di Elettra. E poi tra Oreste ed Elettra: l’idea di una vendetta che si può compiere, il fratello disperatamente creduto morto, il fratello eroe pronto a salvare la sorella, il fratello re, re Oreste, tutte queste idee spingono Elettra all’attrazione per il fratello. Elettra da belva si trasforma in seduttrice e inganna Egisto, che si lascia influenzare dal suo appetito di carne, reso cieco dal sesso, nonostante sia l’amante della madre della ragazza.

Rimane da aggiungere che il tempo che scorre, la vendetta inesorabile sono scandite ad intervalli, da spezzoni cinematografici che ricostruiscono una specie di thriller.

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È un dramma dove il maschile trionfa sempre sul femminile. Da un’età arcaica misogina, dove è l’uomo che comanda, ad un età moderna, dove poco è cambiato. Si può persino pensare che sia un dramma attuale, magari non con vicende uguali, ma pur sempre un mondo di drammi familiari, di spargimenti di sangue, donne segregate. Ma anche nel piccolo dove a volte può apparire la figura del genitore tiranno e della prigionia del figlio, ad un assillante supervisione, per diverse ragioni, che poi porta ad una inevitabile ribellione e ad un sentirsi liberi in qualcos’altro.

Una dramma sempre attuale, una dramma di libertà, psicologica e fisica.

Emanuele Biganzoli