La tragedia del vendicatore – Recensione

La tragedia del vendicatore, visto alle  Fonderie Limone di Moncalieri dal 20 al 25 novembre, è uno spettacolo diretto dal celebre regista inglese Declan Donnellan, alla sua prima direzione di un cast totalmente italiano e prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, su testo del giacomiano Thomas Middleton (contemporaneo di Shakespeare).

 

In un’Italia di un periodo imprecisato in cui il potere e la corruzione dilagano senza pietà sotto l’autorità del Duca, il giovane Vindice vuole rendere giustizia alla donna amata, che è stata stuprata e avvelenata  dal corrotto regnante nove anni prima. Già il nome del protagonista è collegato all’idea di vendetta. Da questa premessa si snoda una vicenda di sotterfugi e inganni, intrisa di sangue e di sesso, che mette a nudo la natura dell’essere umano.

Una natura debole, assoggettata alla sete di potere, alla lussuria e a ogni vizio e peccato possibile e immaginabile. Gli uomini raccontati da Donnellan, interpretati da un cast eccellente ed estremamente affiatato, sarebbero disposti a vendere l’anima al diavolo per la sete di potere (o 15 minuti di celebrità), per un momento di passione o per un se pur credibile e invitante, ma misero ed effimero, miglioramento di carriera e di condizione sociale. Sono assassini, patricidi e fratricidi il Duca e la sua progenie; sono madri snaturate (Pia Lanciotti) la Duchessa, per lussuria, e Graziana, madre di Vindice, Ippolito  e Castiza (interpretati da Fausto Cabra, Raffaele Esposito e Marta Malvestiti), che arriva quasi a scambiare la verginità della figlia per il lusso della corte.

 

La Vendetta è l’unico atto in grado di rendere giustizia, atto catartico all’ennesima potenza, in grado di riportare la Giustizia in un mondo corrotto e di infimi valori morali. Questo è ciò di cui Vindice (nomen omen) è fermamente convinto, sicurissimo di essere talmente al di sopra di quel mondo che lo circonda da non poterci finire dentro. «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». L’emblematico aforisma di Nietzsche riesce a catturare l’essenza del protagonista, e del fratello Ippolito, che, al momento cruciale della vicenda, in cui la vendetta sul Duca si compie, l’abisso scruta dentro Vindice, che, a mente fredda come un serial killer, trova conforto e piacere nel dolore del Duca. In scena c’è un cameramen che i riprende i dettagli di questa scena pulp e la esaspera, rendendo Vindice una sorta di voyeur. Voyeur in questo contesto è la traduzione più vicina al termine tedesco schadenfreude che definisce una persona che gode nel vedere situazioni di sofferenza o la sfortuna degli altri. Il termine però ha un’accezione preminentemente sessuale e che rende la scena quasi pornografica. Bisogna però intendere questo termine attraverso le parole dell’antropologo Geoffrey Gorer, dal suo libro The Pornography of the Death: « L’esperienza non menzionabile tende a diventare l’oggetto di fantasie private, più o meno realistiche, fantasie cariche di piacevole colpevolezza o colpevoli piaceri».

 

La vanitas vanitatum, resa simbolicamente dal teschio, di richiami shakesperiani, della moglie di Vindice, e la ciclicità del tempo sono enfatizzate dall’avverbio adesso, che è il termine più usato nello spettacolo, culminando nella danza macabra del finale in cui scorre a tempo di musica una serie di nuovi omicidi. L’ambiguità temporale dettata dalla dicotomia costumi/scenografia accentua nuovamente l’avverbio. Quest’ultima nel particolare proietta la vicenda nel passato, alla corte italiana del XVI-XVII secolo (a cui Middleton fa riferimento) attraverso dipinti di Andrea Mantegna, Piero della Francesca e Tiziano; i costumi invece sono più contemporanei  e sottolineano come le vicende umane siano destinate a ripetersi, in uno scorrere del tempo ciclico.

Come un serpente che si morde la coda, la tragedia del vendicatore, e di tutto il genere umano, è destinata a ripetersi nelle stesse modalità, ed è pronta a colpire, senza via di scampo, ogni essere umano.

«Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te»

Friedrich Nietzsche

 

di Thomas Middleton

drammaturgia e regia Declan Donnellan

versione italiana Stefano Massini

con Ivan Alovisio, Alessandro Bandini, Marco Brinzi, Fausto Cabra, Martin Ilunga Chishimba,

Christian Di Filippo, Raffaele Esposito, Ruggero Franceschini, Pia Lanciotti, Errico Liguori, Marta Malvestiti,

David Meden, Massimiliano Speziani, Beatrice Vecchione

scene e costumi Nick Ormerod

disegno luci Judith Greenwood, Claudio De Pace

musiche originali Gianluca Misiti

Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Emilia Romagna Teatro Fondazione

 

Lussurioso – Ivan Alovisio

Junior – Alessandro Bandini

Operatore TV/ Giudice/ Guardia – Alessandro Bandini

Vindice/ Piato – Fausto Cabra

Operatore TV/ Guardia – Martin Ilunga Chishimba

Supervacuo – Christian Di Filippo

Ippolito – Raffaele Esposito

Operatore TV/ Vescovo/ Guardia – Ruggero Franceschini

Duchessa/Graziana – Pia Lanciotti

Spurio – Errico Liguori

Castiza – Marta Malvestiti

Ambizioso – David Meden

Duca – Massimiliano Speziani

Operatore TV/ Medico/ Guardia – Beatrice Vecchione

LA SCORTECATA – EMMA DANTE

La vicenda che Emma Dante porta in scena è liberamente ispirata alla decima fiaba della prima giornata de Lo cunto de li cunti  di Gianbattista Basile (1556-1632), riproposta in un’originale chiave comico-grottesca.

La scenografia è ridotta al minimo: uno sfondo nero, due piccole sedie di legno, un castello giocattolo e pochi essenziali oggetti funzionali alla narrazione dei fatti, la quale viene affidata esclusivamente alla bravura dei due protagonisti: Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola.

 

Essi mettono in scena la vita di due sorelle vecchie, brutte e soprattutto sole.

Per combattere la lentezza del tempo, le due donne inscenano la favola della scortecata. Due vecchie vivono isolate in una casupola. Un re, passando nei pressi dell’abitazione, si innamora della voce della più giovane delle due. Questa decide di cedere alle lusinghe del re, illudendosi di giungere a un lieto fine che la dipinge come una donna finalmente apprezzata e desiderata.

Si concede dunque al sovrano, richiedendo una stanza senza luce, al fine di non mostrare la sua bruttezza, ma passata la notte, il re scopre l’inganno e caccia la vecchia dal palazzo.

Qui avviene il miracolo: una fata viene in soccorso della donna, e realizza il suo più grande desiderio, rendendola giovane e bella.

Nel suo nuovo corpo, è finalmente accettata dal re che la chiede in sposa.

La sorella, invidiosa, si farà invece scorticare da un barbiere, illudendosi che sotto la pellaccia nera potesse essercene una nuova, fresca e giovane.

[…] E, fattola sedere su uno scannetto, cominciò a fare macello di quella scorza nera, che piovigginava e piscettava tutta sangue e, di tanto in tanto, salda come se si stesse radendo, diceva: “Uh, chi bella vuol parere, pena deve patire!”

Nella rilettura di Emma Dante, il tentativo delle due sorelle di rivivere la favola fallisce nel momento in cui la più giovane delle due realizza la drammatica inconsistenza del loro sogno e prende un’atroce decisione.

L’essenzialità della scenografia e delle luci, sommata alla straordinaria bravura degli attori, crea un equilibrio efficace fra la comicità e la disperazione del racconto.

Il pubblico ha assistito alla rappresentazione con un atteggiamento curioso e volto a cogliere le giuste sfumature di significato delle battute, che, al di là del registro “basso”, enfatizzato dal dialetto napoletano , nascondevano una particolare intensità emotiva.

Un solo applauso durante l’intera esecuzione, alla fine, quando il pubblico, visibilmente commosso, arriva a comprendere il principale messaggio del racconto.

Improvvisamente tutta l’opera prende senso e la dinamicità degli eventi cede il posto a una lenta e angosciosa riflessione sull’utopia dell’eterna giovinezza.

Aurora Colla

 

liberamente tratto da: Lo cunto de li cunti
di Giambattista Basile;
con Salvator e D’Onofrio, Carmine Maringola;
testo e regia Emma Dante
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
assistente di produzione Daniela Gusmano
assistente alla regia Manuel Capraro

Prima rappresentazione assoluta

Spoleto – 60° edizione Festival dei Due Mondi

 

Cosí è (se vi pare) – Filippo Dini

E’ tra l’ombra della verità ed il mistero che prende vita lo spettacolo teatrale Così è (se vi pare) di Filippo Dini. La commedia presenta sfumature intense, realistiche e al contempo surrealisticamente ossessive. Protagonisti della vicenda sono i Signori Ponza e la Signora Frola, madre della moglie, trasferiti da poco in un piccolo centro. Si delinea in loro una forte sofferenza interiore causata dal terremoto della Marsica del 1915 durante il quale persero diversi familiari. È proprio questa sofferenza, dovuta dalla presa di coscienza della catastrofe, il punto di partenza del regista. Tutta la vicenda si svolge nella casa del consiglier Agazzi dove si riuniscono un gruppo di borghesi per scoprire cosa si cela dietro le stranezze dei tre. La signora Ponza vive reclusa in una casa in periferia col marito che più volte al giorno va a trovare la suocera che abita invece in un condominio dell’alta borghesia, proprio accanto alla famiglia Agazzi. Dini è fortemente affascinato dalla figura dei borghesi per il loro accanimento distruttivo, l’ossessiva ricerca della verità univoca e più vicina possibile alla realtà.

Inevitabilmente la scena si tinge di incognite che si susseguono e si alimentano nell’animo dei borghesi.
La duplice verità portata dal Signor Ponza e dalla signora Frola in merito all’identità della moglie accresce la curiosità dei maggiorenti del paese, i quali cercano di portare e far valere ognuno la propria teoria. Il timore, a volte cupo altre volte aggressivo, si manifesta anche nei borghesi, in particolare in Amalia, la moglie del consigliere. La fragilità si palesa in modo evidente, è la figura che percepisce con più coinvolgimento emotivo il segreto inconfessabile dei tre. Personaggio assai curioso e affascinante è il fratello di Amalia, Lamberto Laudisi, interpretato dal regista stesso.

Laudisi, cercando di dissuaderli dalla tragedia, involontariamente alimenta ancor più i dubbi nella mente dei personaggi. Elemento interessante è la menomazione di Lamberto dalla quale scaturisce il suo monologo allo specchio: un tripudio di suoni e riflessi di se stesso e di come gli altri lo percepiscono. Questo è il punto focale dell’impostazione di Pirandello che il regista ci ha saputo riportare: l’impossibilità di comprendere gli altri ed il fantasma di ognuno di noi, fantasma con il quale interagisce timoroso e arrabbiato allo stesso tempo. Pare la stessa sensazione percepita quando, nella scena finale, si alza dalla sedia a rotelle liberandosi da una sorta di costrizione mentale e regge tra le braccia la Signora Ponza, sostenendo quasi una verità camaleontica, capace di adattarsi a gli occhi di chi guarda, così come di noi stessi.
Emerge in questo lavoro un forte richiamo al cinema surrealista, in particolare a Bunel; la dimensione è onirica, l’unica verità è quella mutevole del sogno come contatto privilegiato col proprio inconscio. Ed ecco che Pirandello diventa terribilmente attuale, portatore di un messaggio che ha a che fare con il mondo contemporaneo. Filippo Dini ci ha saputo regalare una visione alternativa della pazzia rispetto al “Così é” pirandelliano: pazzi sono i borghesi, pettegoli che giudicano e scrutano dal di fuori, come pubblico di uno spettacolo vivo, com’è la vita.

Regia: Filippo Dini
Scene: Laura Benzi
Costumi: Andrea Viotti
Luci:Pasquale Mari
Musiche: Arturo Annecchino
Assistente regia: Carlo Orlando
Assistente costumi: Eleonora Bruno
Interpreti e personaggi:
Maria Paiato (la Signora Frola)
Giuseppe Battiston (il Signor Ponza)
Benedetta Parisi (la Signora Ponza/infermiera/spettro)
Filippo Dini (Lamberto Laudisi)
Nicola Pannelli ( il Consigliere Agazzi)
Mariangela Granelli ( la Signora Amalia)
Francesca Agostini (Dina)
Ilaria Falini (la Signora Sirelli)
Dario Iubatti (il Signor Sirelli)
Orietta Notari (la Signora Cini)
Giampiero Rappa (il Signor Prefetto)
Mauro Bernardi ( il Commissario Centuri/cameriere di casa Agazzi)
Andrea Di Casa (cameriere di casa Agazzi)

Marianna Sica

La classe operaia va in paradiso – Claudio Longhi

“Su questa terra verrà creato il paradiso migliore che sia, non sarà quello del proletariato, ma sarà quello della borghesia”. Una canzoncina ci culla, accarezzandoci dolcemente, è la Ninna Nanna del capitale di Fausto Amodei.

Claudio Longhi porta in scena al teatro Carignano di Torino lo spettacolo La classe operaia va in paradiso. L’adattamento teatrale dell’omonimo film di Elio Petri del 1971, opera cardine del cinema italiano e necessario per quegli anni, ha l’intento di usare il passato come specchio, o meglio travestimento, parola molto cara al regista, del presente. Il presente che ci troviamo a vivere è un tempo di crisi, in cui le strutture si mettono in discussione, un tempo interessante. Quindi guardare lontano per vedere meglio chi siamo oggi.

Lulù Massa (Lino Guanciale) è un operaio che deve mantenere due famiglie, stakanovista e sostenitore del lavoro a cottimo, grazie al quale, lavorando a ritmi infernali, riesce a guadagnare abbastanza da permettersi l’automobile e altri beni di consumo. Lulù è amato dai padroni, che lo utilizzano come modello per stabilire i ritmi ottimali di produzione, e odiato dai colleghi operai per il suo eccessivo servilismo. Non ha nessuna vita sociale, nessun dialogo con i propri cari, non riesce neppure più ad avere rapporti con la compagna. La sua vita continua in questa totale alienazione, finché un giorno ha un incidente sul lavoro e perde un dito. Sarà da qui che parte la sua discesa sulla terra, dove l’alienazione svanisce un poco per volta. Basta un infortunio per uscire dal paradiso della fabbrica e vergognarsi per la propria condizione di sfruttato. Così Lulù ha maggiore consapevolezza, ma nel mondo di fuori, nuovo ai suoi occhi è disorientato, non sa cosa fare. Lo guidano i suoi due angeli custodi, o meglio coloro che vorrebbero soddisfare tale ruolo, ma che finiscono per essere dei consiglieri mendaci. Lo studente e il sindacalista, il gatto e la volpe, randagi che chiedono l’elemosina, in questo caso di persone, per le loro lotte al padrone, e allo stesso tempo che apparecchiano inganni ai danni degli onesti lavoratori. Inganni che promettono la lotta contro Dio, senza un progetto compiuto e quindi ignaro delle conseguenze. Lulù perderà, a causa delle sue contestazioni, il lavoro, verrà meno la sua ragion d’essere. Ma Dio è misericordioso, e così Lulù sarà redento da questa sua devianza e verrà riammesso in Paradiso.

Lo spettacolo è intriso di Bertolt Brecht, nume tutelare chiamato in causa in diverse circostanze. L’intento di far riflettere su quello che accade sul palcoscenico, ma anche su quello che accade al di fuori, nella vita di tutti i giorni, si amalgama bene attraverso elementi di rottura della continuità scenica, come i personaggi di Pirro e Petri, e soprattutto dalla figura del narratore, un cantastorie che rilassa il pubblico con canzoni di Fausto Amodei, per poi spronarlo a continuare la sua riflessione. L’attualità è ampiamente evocata: dal lavoro al conflitto con il femminile, attraverso la figura di Adalgisa, una giovane all’interno del mondo virile della fabbrica, ma anche i rapporti familiari. La famiglia è il risultato di tutto ciò che si acquista. Il visone come stato sociale, per citare l’attrice. Abbiamo indossato tutti un visone e ora non sappiamo più riconoscere la nostra pelle naturale, viviamo in una società che tende a coprire le nostre individualità. Una società in cui l’unica via di fuga non è rappresentata da Lulù, che viene inglobato di nuovo nella fabbrica, ma da Militina, figura da tragedia antica. Un pazzo che vede la contemporaneità e chissà forse anche il futuro. Capace di sognare l’utopia per essere profeta di una rivoluzione.

Uno spettacolo necessario, intenso, che oltre a deliziare le nostre papille emotive ci induce a chiederci che cosa sia oggi il proletariato. La risposta a questa domanda sarò una lunga quete tra i meandri della nostra società, forse appagata solo alla fine dalla semplice constatazione che oggi il proletariato è tutto ciò che sogna non di andare in Paradiso, ma di avere un posto da vivere pienamente fuori da esso.

“Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Una vocina ci reca fastidio, ma presto scompare, silenzio. Cos’era? Tendiamo di nuovo l’orecchio, ma nulla. Distratta, la gente se ne va. Ma chi era? Forse proprio Lulù Massa? O quello studente fracassone e perdigiorno? E il sindacalista? No per carità! A casa presto, che domani si lavora. Era il Militina!!!

Emanuele Biganzoli

Liberamente tratto dal film di Elio Petri (sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro)
di Paolo Di Paolo
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios
Emilia Romagna Teatro Fondazione

Da Middleton a Donnellan: la brigata dei vendic-attori, tra voyeurismo maniacale e gusto splatter

Io desidero intendere da voi,/ Alessandro fratel, compar mio Bagno,/ s’in corte è ricordanza più di noi;/ se più il signor me accusa; se compagno/ per me si lieva e dice la cagione/ per che, partendo gli altri, io qui rimagno;/ o, tutti dotti ne la adulazione/ (l’arte che più tra noi si studia e cole),/ l’aiutate a biasmarme oltra ragione. (Ludovico Ariosto, Satira I, vv. 1-9)


di Matteo Tamborrino

Thomas Middleton (1580 – 1627), litografia

Lunghe pagine critiche sono state vergate, nel corso del tempo, a proposito delle arcinote (e quanto mai fraintese) revenge plays di stampo senecano, costruite – almeno per ciò che riguarda l’ambiente rinascimentale inglese – sul modello della Spanish Tragedy di Thomas Kyd. La Tragedia del vendicatore, emblematico esempio di questo filone drammaturgico, come risulta chiaramente fin dal titolo (d’estrema eloquenza), è di vent’anni più tarda: Thomas Middleton la fece infatti rappresentare nel 1606, pubblicandola in volume l’anno successivo, per i tipi di George Eld.

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Moliere / Il misantropo

Don Giovanni non stringere la mano del Commendatore, non lo fare!
Nel momento che lo fa, Don Giovanni viene trascinato all’Inferno, la punizione divina. Ma questo Inferno non è il classico inferno di cui noi supponiamo le caratteristiche. La punizione di Don Giovanni è ben maggiore. Il suo Inferno è in terra, dove sempre ha scorrazzato tra una preda e l’altra, il suo terreno di conquista. Ora si è reincarnato in un misantropo, da uomo decadente che viveva per il piacere della conquista è diventato un uomo che si sente superiore agli altri e li odia per la loro ipocrisia. Conserva lo stesso le sue qualità fisiche, il suo fascino irresistibile, ma non sa più come confrontarsi con l’universo femminile. Vive una relazione morbosa, di amore profondo e intenso per la sua Celimene, non può fare a meno di lei, ma al contempo la odia profondamente per le sue scappatelle con gli spasimanti.

Valter Malosti, direttore artistico del TPE, mette in scena al Teatro Astra di Torino lo spettacolo Moliere / Il misantropo.
Un grande affresco in chiaroscuro di “Diana e Attenone” del Pitocchetto quale fondo del boccascena, un palco bianco rialzato, una specie di ring con ai lati delle sedie. I personaggi si fanno allo stesso tempo spettatori di quello che sta accadendo, della trasformazione del Don Giovanni in Misantropo, che nel suo ring tiranneggia sulla stupidità umana e cade sotto la pugna dell’amore.
Gli attori, vestiti con abiti brillanti e moderni, prendono posto attorno a questo ipotetico palco/ring, le luci platea accese, si odono suoni come se si fosse in campagna compreso i cinguettii d’uccelli. Quasi un direttore d’orchestra, Alceste imita e sollecita cigolii e suoni, accompagnando lo scemare delle luci.
Lo spettacolo scandisce a pendolo riflessioni sulla contemporaneità, bagliori brechtiani si nascondono tra le ombre delle parole di Moliere. Un lucido saggio sul desiderio e l’impossibilità di esaudirlo, sul conflitto tra uomo e donna, uomo e società, uomo e cosmo. Il rapporto di Alceste e Célimène diventa quindi un violentissimo agone, una resa dei conti la cui posta in gioco è – per citare proprio Lacan – la Verità come “ciò che sempre resiste all’intelligenza”.


Alceste e Don Giovanni diventano i due volti di una lotta totale e disperata contro l’ipocrisia e il compromesso su cui è costruita la civiltà. L’Alceste di Malosti è un filosofo,un buffone che non rinuncia alla sottile linea comica, al farsesco che innerva il protagonista. Alceste si fa marionetta pendente dalla labbra di chi gli sta attorno. Tutti lo odiano, tutti lo desiderano, tutti tendono i fili di questa marionetta che si è ribellata. Non ci sta a vivere in un mondo vuoto, stupido, ma allo stesso tempo è costretta ad attaccarsi a qualcosa di questo mondo, alla sua Celimene. Unica via di fuga possibile è scappare in un posto lontano, via da questo inquinamento sociale, scappare con la sua Celimene, ma lei non è in grado di donarsi così ad un uomo. Don Giovanni prova la sua ultima fatica, a strappare la sua amata dalla propria aia di spasimanti, per potersi redimere. Fallisce, non si scappa all’Inferno, e allora non resta che farsi marionetta e farsi gioco per il piacere di altri.
E questo vale anche per noi.

Emanuele Biganzoli
Michela Cicilano

produzione TPE

VERSIONE ITALIANA E ADATTAMENTO
FABRIZIO SINISI E VALTER MALOSTI

UNO SPETTACOLO DI VALTER MALOSTI

ALCESTE … VALTER MALOSTI
CÉLIMÈNE … ANNA DELLA ROSA
ARSINOÉ … SARA BERTELÀ
ORONTE … EDOARDO RIBATTO
ELIANTE … ROBERTA LANAVE
FILINTO … PAOLO GIANGRASSO
CLITANDRO … MATTEO BAIARDI
ACASTE … MARCELLO SPINETTA

COSTUMI GRAZIA MATERIA
SCENE GREGORIO ZURLA
LUCI FRANCESCO DELL’ELBA
CURA DEL MOVIMENTO ALESSIO MARIA ROMANO
ASSISTENTE ALLA REGIA ELENA SERRA
CANZONE BRUNO DE FRANCESCHI
AL CONTRABBASSO FURIO DI CASTRI

PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA
TEATRO CARCANO CENTRO D’ARTE CONTEMPORANEA
LUGANOINSCENA
IN COLLABORAZIONE CON INTESA SANPAOLO

COPENAGHEN: DIALOGO TRA SCIENZA E ETICA

Nel 1941 il fisico tedesco Werner Karl Heisenberg si reca a Copenaghen per incontrare il suo maestro, Niels Bohr. Dall’ultima volta che si sono visti, le cose sono molto cambiate: l’occupazione nazista, le leggi razziali (anche se in quel momento non ancora valide in Danimarca) e il velo cupo di terrore che si era depositato sull’Europa. In questo contesto i due fisici hanno una conversazione che li porta all’estrema rottura, Bohr infatti lo caccia di casa. Ma cosa si sono detti? Di cosa hanno parlato di preciso? Quali sono state le esatte parole che hanno utilizzato?

Questo è ciò che il testo e lo spettacolo cercano di indagare, per fare i conti con il passato e dare un senso a parole e azioni di più di cinquant’anni fa: gli attori parlano infatti con noi, come se volessero spiegarci che cosa sia avvenuto in quel fatidico incontro.

Come se si ritrovassero dopo anni e anni, dopo la loro stessa morte, in un tempo e uno spazio sospesi tra formule fisiche e un passato che schiaccia le loro coscienze, i due fisici e la moglie di Bohr, Margrethe, vogliono ripercorrere nei minimi dettagli il loro incontro, in primo luogo per capire loro stessi. Margrethe è un personaggio strategico, con le sue osservazioni funge come da punto di vista esterno, un ago della bilancia che, quando la rievocazione di ricordi fra i due fisici si fa troppo nostalgica, li riporta al punto principale dell’indagine.

La scenografia, alta, nera e imponente, è composta da una serie di lavagne poste asimmetricamente, piene zeppe di formule matematiche e fisiche. Le luci giocano molto sul chiaroscuro, creano una scena introspettiva e la musica, presente solo in pochi momenti, funziona da contrappunto per aiutare lo spettatore a mantenere sempre l’attenzione vigile. Inoltre i costumi degli attori sono tutti composti dai toni del grigio e per tutto lo spettacolo i personaggi orbitano l’uno attorno all’altro, spostandosi come in una danza scientificamente studiata. Tutto questo contribuisce a dare la sensazione di trovarci proprio nella loro mente, nei loro ricordi, partecipi di questa ricerca di risposte.

La recitazione dei tre attori è davvero magistrale: ognuno di loro costruisce un personaggio estremamente sfaccettato e allo stesso tempo coerente in ogni dettaglio e, nonostante durante le conversazioni si raggiungano picchi di tensione altissimi, nessuno di loro perde mai la concentrazione.

La forza delle loro parole è sottolineata anche dal fatto che fossero molto statici e che quasi mai si toccassero o interagissero fra di loro. Le questioni etiche sui limiti della ricerca scientifica, o i dialoghi sulla condizione umana, solo affrontati in questo modo potevano arrivare allo spettatore taglienti come lame.

Perché sì, questo spettacolo, oltre ad intrecciare piani temporali e a rievocare ricordi apparentemente sconnessi tra loro, è anche un susseguirsi di interrogativi legati alla filosofia, all’etica, alla scienza, a cosa sia lecito e cosa non lo sia più in determinate circostanze.

Entrambi i fisici erano vicini a un traguardo che avrebbe portato alla realizzazione della bomba atomica. Bohr accusa Heisenberg ferocemente, perché accetta di lavorare sotto il regime nazista, regime che si stava macchiando dei peggiori crimini pensabili, e lo condanna proprio per le sue ricerche collegate ad un arma che avrebbe potuto distruggere l’umanità. Ma Heisenberg non riuscirà mai a creare la bomba atomica, poiché, come lui stesso ci confessa, non riusciva (o forse non voleva?) risolvere una formula. Invece Bohr, che sarà costretto a scappare negli Stati Uniti perché per metà ebreo, userà le sue conoscenze e il suo sapere per contribuire alla realizzazione della bomba che sarà poi sganciata dagli americani sul Giappone.

Ed è questa la grandezza dello spettacolo: gli attori, con la loro forza recitativa, ci pongono continuamente delle questioni da risolvere, ma ci fanno uscire dal teatro più confusi di prima e senza una risposta. Alla fine, l’interrogativo che ci risuona nella mente, è solo uno: chi è da condannare, Heisenberg o Bohr?

 

Di Alice Del Mutolo

 

di Michael Frayn
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio
e con Giuliana Lojodice
regia Mauro Avogadro
scene Giacomo Andrico
costumi Gabriele Mayer
luci Carlo Pediani
suono Alessandro Saviozzi
Compagnia Umberto Orsini e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
in coproduzione con CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
si ringrazia Emilia Romagna Teatro Fondazione

La classe operaia va in paradiso

Attore o personaggio? Uomo o macchina? Operaio della B.A.N. o lavoratore odierno? 1968 o 2018?
Sono queste le dicotomie su cui gioca La classe operaia va in paradiso, spettacolo di Paolo di Paolo diretto da Claudio Longhi, liberamente tratto dall’omonimo film di Elio Petri del 1971. Una scelta audace, trasporre in immagini teatrali quegli scomodi fotogrammi che cinquanta anni fa destarono tanto scalpore da intimare la distruzione di tutte le copie. Una scelta audace se si pensa a quanto siano cambiate la società e le prospettive individuali in questo mezzo secolo.
L’idea dello spettacolo nasce nell’estate del 2016, durante un incontro tra Claudio Longhi e Lino Guanciale (che nello spettacolo interpreta il complesso protagonista Lulù Massa). La volontà è quella di inseguire il disegno per cui il teatro è un particolare specchio del presente, uno “specchio anamorfico”, per usare le parole dell’antropologo Victor Turner molto care a Longhi. Una superficie non liscia e asettica, ma che riflette deformando, rimpicciolendo, ingrandendo la realtà: la traveste. E il film nella sua inattualità viene a sua volta trasformato divenendo vividamente e tremendamente attuale, caricato anche di quella forza che solo il teatro, accadendo ogni sera davanti, intorno e con lo spettatore, riesce a dare. Il tema centrale del film quindi si sposta in questa messa in scena: non è più la lotta in sé di quegli operai alienati che caratterizzò i movimenti sociali di cinquanta anni fa, ma il lavoro nella società odierna che vive il 2018.
Parlare del lavoro attraverso la classe operaia si traduce in un gesto del tutto brechtiano. Portare in scena un mondo così lontano e distante ci aiuta a guardarci meglio. Questo specchio distorto che è il palcoscenico ci pone davanti a noi stessi, come individui e come società, riflettendoci e lasciandoci riflettere. L’immagine riflessa di noi individui è un’immagine che non siamo più disposti a vedere: quella del proletario.  Quella di noi società è invece un’immagine che crediamo di intravedere, mentre ci ha abbandonati da tempo: l’immagine della coscienza di classe. E’ su questa visione che si aggomitola la sensazione di perdita che attraversa tutto lo spettacolo: la perdita di quella pulsione ideologica, scaturita da una consapevolezza di massa, che spinge a desiderare il cambiamento inteso come miglioramento. A sottolineare quest’elemento di perdita ricompare di nuovo Brecht, in una recitazione straniata, oggettivata, quasi in terza persona, di attori che sul palcoscenico calcano e ricalcano un contesto storico che non hanno vissuto e non potranno mai sperimentare.
Lo spettacolo vive di quelle vibrazioni che l’inseguimento ossessivo dell’ideale emetteva in quegli anni agitati. Lo spettacolo vive e trema. Trema di ossessione, di disperazione e di speranza e fa tremare il pubblico. Lo spettatore è scaraventato in una visione che lo mette in crisi, lo induce a porsi delle domande, a chiedersi a cosa stia assistendo esattamente. Come mai la rievocazione di un’epoca lontana e inafferrabile colpisce come un secchio di acqua gelida sul viso? E come mai quella disperazione esasperata, quell’ossessione, quel sentirsi un po’ uomo e un po’ macchina risultano così familiari da rabbrividire? E perché al contrario quella speranza e quell’arrampicata vigorosa di chi aspira a qualcosa di meglio sembrano così aliene ai nostri occhi?
La forza evocativa dello spettacolo sta nel suo continuo entrare ed uscire dalla narrazione. Gli attori interpretano più di un ruolo, alternando il tempo della storia con tutto ciò che è stato prima e dopo il film. La sua ideazione e costruzione, attraverso le parole del regista del film Elio Petri e del suo sceneggiatore Ugo Pirro, che sul palco osservano distanti ma allo stesso tempo interagiscono con il racconto; il carico e l’effetto che la pellicola ha trascinato dietro di sé, con gli attori che si immedesimano nel pubblico del cinema del ’71 ed esprimono i loro pareri e le loro critiche contrastanti sul film; la giovane coppia omosessuale che parla del film allo stesso modo in cui si chiacchiera tra amici del più e del meno, a dimostrare quanto i risultati del Sessantotto siano inconsciamente radicati dentro ognuno di noi; quella sorta di narratore-cantastorie che interrompe
bruscamente il racconto passeggiando tra il pubblico ed intonando con un pizzico di triste ironia i testi di Fausto Amodei e strappando qualche enigmatico sorriso.

Foto di Giuseppe Distefano

La messa in scena, nonostante la sua durata di più di 2 ore e 30 minuti, rimane sempre chiara e incredibilmente fluida, dimostrando l’immane lavoro organizzativo alle sue spalle. L’ingegnosa scenografia permette cambi veloci e di grande impatto visivo, lasciando che lo spettatore venga catapultato da un luogo all’altro, dal passato al presente, dalla trama del film alla narrazione quasi senza accorgersene. La fabbrica incombe prepotente sui protagonisti e sul pubblico, senza mai abbandonare la scena. Il nastro trasportatore che ricorda la catena di montaggio scorre al centro del palco, trasportando elementi scenici ed attori, che, come oggetti, seguono il corso incessante della macchina inermi e impotenti, posseduti da essa. Il pannello quadrettato su cui vengono proiettate le scene del film ingabbia i personaggi inequivocabilmente. Li rinchiude senza via di uscita, se non quella di lasciarsi trasportare dal nastro senza opporre resistenza. Li rende prigionieri della fabbrica, delle loro case, dei loro pensieri, della loro vita e della loro ossessione. Con l’inganno rende anche noi pubblico prigioniero dell’inattesa presa di coscienza. Prigioniero di una gabbia da cui, paradossalmente, si è in grado di liberarsi solamente identificandosi nel Militina, l’uomo che dopo una vita chiuso in fabbrica si è tolto le catene perdendo il senno, divenendo paladino e profeta visionario di un sogno di rivoluzione. Uomo portato in scena da una donna, Franca Penone, a rimarcare la perdita di identità e di certezza, ma allo stesso tempo la scarcerazione dallo schema, dai modi che la società ritiene consoni e normali.
Come il Militina, tutti i personaggi assumono un valore proprio e vivono di una interiore polarizzazione. Non ci sono personaggi positivi e personaggi negativi. Personaggi per i quali parteggiare e personaggi contro i quali schierarsi. Sono tutti uomini che manifestano la loro dualità dal profondo. Sono, appunto, tutti uomini.

Foto di Giuseppe Distefano

Lino Guanciale porta in scena un Lulù Massa, operaio stakanovista che finisce col farsi divorare dall’ossessione del lavoro e dall’alienazione della fabbrica, in grado di far ridere e di far piangere. La genialità dell’interpretazione riesce ad esprimere un personaggio fondamentalmente molto semplice ma dilaniato interiormente, con grande pathos e allo stesso tempo dolcissima ironia.
Particolarmente intrigante il cronometrista (Simone Francia), il personaggio più vicino alla figura del padrone, l’emblema della posizione che tutti si trovano prima o poi ad assumere nella società odierna: quella dello sfruttato che all’occasione diventa sfruttatore. Adalgisa (Donatella Allegro), la figura della donna femminile e desiderata, che nel contempo è un po’ “scoordinata”, per dirla con le parole dell’attrice. Una donna che si ritrova giovanissima nel contesto virile della fabbrica; manifesto della donna di quegli anni che vive in un mondo di rivoluzioni, compresa quella sessuale, e ha la voglia e la possibilità di goderselo, di esserci, ma non sa ancora bene come. Lo studente (Eugenio Papalia), personaggio problematico già nella versione cinematografica, rappresentato come paroliere astratto che insegue una rivoluzione solo con la voce e si tira indietro davanti alle conseguenze reali. Non mancano tuttavia i momenti in cui anche la sua più accesa gioventù, che sfocia spesso in una fastidiosa spacconeria, vacilla dimostrando un lato più umano, di un ragazzo che si trova davanti ad una società in fermento, ma è forse troppo giovane per sostenerne da solo il peso. Il sindacalista (Simone Tangolo) che appare spesso pavido, spaventato dall’idea della rivoluzione, ma è quello che prende in mano la situazione e media, ottenendo risultati, che per quanto possano essere delle vie intermedie, sono pur sempre reali. Interessante notare che l’attore che interpreta il sindacalista sia lo stesso che interpreta il cantastorie che conduce la narrazione: si identifica in lui una figura più stabile, su cui fare affidamento nei momenti in cui ci si sta più perdendo. Lidia (Diana Manea), la moglie di Lulù Massa, donna forte, alta, con i capelli corti, lavora sin da quando era una ragazzina e ci ha fatto le ossa in questo mondo di lavoro e insoddisfazione. Continua a sperare che il marito, alienato ormai anche nella vita privata forse persino più che in quella lavorativa, la voglia, la desideri e la ascolti. Disperata nella presa di coscienza dell’inutilità dei sentimenti e del fallimento nella ricerca della realizzazione personale. La splendida attrice, carica di forza emotiva e dalla voce potentissima, cita il suo personaggio, che aspira a poter un giorno comprare il famoso visone, simbolo dell’emancipazione economica, nell’affermare che oggi abbiamo tutti indossato un visone e non riusciamo a riconoscere la nostra pelle, poiché la società ci nasconde, nascondendo a noi stessi la nostra individualità.
In ultimo, uno spazio dedicato merita il musicista Filippo Zattini, polistrumentista eccezionale, che si ritrova a dover affrontare il confronto con un colosso quale Ennio Morricone, che scrisse la colonna sonora del film. La via intrapresa è quella dell’allontanamento dalla versione originale, per seguire un modello del tutto diverso. Le musiche si rifanno al ‘700, in particolare all’Inverno di Antonio Vivaldi, che con la ripetitività e ricorsività dei suoi fraseggi e ritmi collima con l’ossessione della fabbrica. Secoli così lontani si ritrovano a condividere lo spazio scenico, in un turbinio di follia e note. Il musicista è costantemente sul palco, in un angolo poco illuminato, al di fuori della gabbia. Pur non essendo un vero e proprio personaggio, si fa personaggio, tramite delle emozioni e dello stesso ingranaggio della fabbrica, tanto che i protagonisti interloquiscono con lui, zittendo più volte le sue note che esasperano fastidiosamente l’ossessione che rimbomba nei loro pensieri. Diviene quindi anche lui operaio, operaio dello spettacolo, ugualmente legato ad una macchina, per l’esecuzione della folle melodia.
Lo spettacolo è una miscela di emozioni, sentimento, nostalgia e risata. Fa ridere in maniera sincera e al contempo malinconica. Lascia nello spettatore una strana sensazione di voler uscire dal teatro e andarle a sfondare quelle famose porte del Paradiso, assieme a Lulù Massa, al Militina e a tutti gli altri. “Io c’ero?” chiedono gli operai a Lulù che racconta il suo sogno di conquista del Paradiso, nascosto dietro ad un muro e ad una coltre di nebbia.
C’eravamo tutti.

Il mondo sociale ci sembra allora naturale come la natura, esso che si regge solo sulla magia. Non è forse veramente un edificio di incantesimi, questo sistema che poggia su scritture, promesse mantenute… tutte pure finzioni? – Paul Valery


liberamente tratto dal film di
Elio Petri
sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro
di Paolo Di Paolo
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini

Ada Turco

L’Elisir d’amore tra tradizione e musical

Un elisir di spirito è quello offerto dal secondo appuntamento della stagione lirica al Teatro Regio di Torino. L’Elisir d’amore risale al 1832, anno in cui il genio donizettiano incontra la penna del librettista Felice Romani. Secondo la leggenda, furono sufficienti sole due settimane per la realizzazione di quest’opera comica.  La vicenda è quella di Nemorino, ingenuo contadino che, innamorato della spietata fittaiuola Adina, si rivolge al sedicente dottor Dulcamara per acquistare un filtro d’amore.  Continua la lettura di L’Elisir d’amore tra tradizione e musical

VOGLIAMO TUTTO!

Il personale è politico”. E’ uno slogan usato dalle donne negli anni ’70 ad aprire lo spettacolo.
Le parole, lettera per lettera, vengono proiettate su un grande schermo come se fossero scritte con una bomboletta sul muro. Sin da subito un messaggio ci arriva forte e chiaro: quelle parole stanno a significare quanto cose personali come maternità, lavoro e famiglia dipendessero (e talvolta, dipendano tutt’ora) da decisioni politiche.
Agata Tomsic della compagnia “EROSANTEROS” si presenta a noi in maniera inusuale. Di spalle al pubblico, seduta su un piccolo sgabello, si rivolge ad un telefonino appoggiato su un cavalletto ed il suo volto viene proiettato sullo schermo. Un linguaggio espressivo che punta a stimolare l’immaginazione, l’arma migliore per trasformare il reale.

Scenografia assente ad eccezione di qualche oggetto e dello schermo, sul quale al volto dell’attrice si alternano immagini, video e scritte. Sono proprio le proiezioni ed il monologo della protagonista a costituire il filo conduttore dello spettacolo: le parole  scandite e taglienti, dal ritmo incalzante e le immagini che vengono incessantemente riprodotte ci trasportano all’interno del racconto in maniera quasi inevitabile. L’attrice è sola sul palco, recita in penombra. Non ci racconta una vera e propria storia, con una trama ed un finale: il suo è più un vortice di parole che tocca svariati argomenti: le lotte studentesche, gli scioperi operai, la condizione della donna. Il suo è un attacco diretto al pubblico, quasi un flusso di coscienza.

E’ il 1968: scongiurata l’ipotesi di una terza guerra mondiale, in quella che sembrerebbe un’apparente serenità, si sviluppa il germe della ribellione. La scintilla che accende la miccia proviene dagli universitari, che a Torino scocca con l’ondata di occupazioni delle facoltà a partire da Palazzo Campana. Ed è proprio sulle vicende accadute a Torino che si concentra la narrazione. La rappresentazione si apre con le testimonianze, pronunciate dall’attrice, dei protagonisti del ’68 e dei giovani attivi nel movimenti di oggi. La protagonista prosegue interpretando una giovane militante impegnata nelle proteste e nelle contestazioni del 1968: ci racconta dei duri interventi della polizia mirati alla soppressione delle manifestazioni, del fermento collettivo per una vita nuova.

Sullo schermo però, scorrono immagini attuali: i cortei contro la riforma Gelmini, i video dei manichini incendiati di Di Maio e Salvini, le proteste contro l’abolizione della legge 194.
Lo spettacolo scorre pertanto su due binari paralleli, che talvolta si incontrano mettendo in risalto analogie e discrepanze di due momenti storici differenti. ‘‘La lotta di classe, quando la fanno i signori, diventa signorile”, dice la Tomsic. Ci parla della Fiat e del sogno di migliaia di lavoratori partiti dal sud per costruirsi una vita migliore. Le sue parole ancora una volta calano taglienti come una ghigliottina: parla di “ lagherizzazione” e di riduzione degli operai ad automi, frantumando il sogno. E’ il momento degli scioperi degli operai per la riduzione dell’orario di lavoro e, successivamente, della nascita del femminismo. La donna non deve più essere arredo, “è molto più di una semplice legge sull’aborto”, afferma.

Riceviamo continui input e continue informazioni, apparentemente caotiche, che ci invitano a pensare che il fenomeno socioculturale del ’68 possa essere attuale, adesso come allora.

Un’ultima frase, con una struttura circolare, conclude lo spettacolo.
Forse, a voler contenere quel disordine di eventi che ancora oggi caratterizza la nostra vita: “Non è che l’inizio, la lotta continua”.

 

di Ilaria Stigliano