Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa

Ogni persona che ha letto La metamorfosi di Kafka si è chiesta: chi era prima Gregor Samsa? Quali sogni demoniaci lo hanno trasformato in un insetto?

Lo spettacolo che abbiamo visto domenica 20 gennaio 2019 al Teatro Astra cerca di rispondere a queste domande focalizzandosi sull’incomunicabilità di Gregorio con il mondo circostante. Proprio per questo il protagonista si esprime attraverso la danza, cercando di trasmettere così la sua interiorità. In questo modo si isola nella sua arte, non c’è confine tra le prove e la vita vera. Gregorio si ritrova intrappolato all’interno della sua condizione di danzatore. Questa ricerca ossessiva avviene tramite ripetizioni altrettanto morbose dei movimenti che vanno ad intaccare la sua vita sentimentale e la sua quotidianità attraverso una sorta di frammentazione. Il protagonista è impegnato nella continua memorizzazione della coreografia in vista di un imminente debutto. La meticolosità con cui replica i movimenti è vista come una sfida con se stesso e la voglia di dimostrare agli altri la propria intimità che a parole non riesce ad esprimere. Una ricerca che non solo mira ad un perfezionamento artistico, ma soprattutto ad un senso di libertà. Il suo è un lavoro senza fine verso un’incessante ricerca della perfezione. Un mondo ideale nel quale rifugiarsi dalle frustrazioni che subisce e da tutto ciò che lo circonda.

Gregorio non sa gestire il suo spazio, il suo tempo e la sua routine, perché troppo immerso nella ricerca di ciò che non ha ancora individuato. In questo senso è significativo il finale, quando Gregorio corre, sul posto, verso una palla di luce accecante. Rincorrere qualcosa di indefinito è il dilemma del protagonista.

Lorenzo Gleijeses recita in uno spettacolo della durata di circa un’ora in una pura sospensione del tempo, dove l’immaginario si mescola con la realtà e l’atmosfera è sospesa in una dimensione astratta. La concretezza della vita quotidiana è identificata dalla televisione (che verrà simbolicamente distrutta) e da un robot che vaga per il palco senza meta, proprio come Gregorio.

Progetto di lunga gestazione, Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è il prodotto di quattro anni di prove e cinque di idee. Nasce come creazione di Mirto Baliani (luci e musiche) e Lorenzo Gleijeses, con l’obiettivo di farlo rielaborare da diversi maestri per far sì che ognuno di loro apporti modifiche individuali. Il primo di questi è Michele Di Stefano, coreografo e performer, vincitore del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia nel 2014. Il suo contributo si orienta verso la danza contemporanea.

Il secondo è Eugenio Barba, raggiunto in Danimarca all’Odin Teatret. Quando il regista vide Lorenzo Gleijeses recitare, suggerì subito La Metamorfosi perché i suoi movimenti gli ricordarono lo scrittore praghese. In una notte, proprio come la trasformazione di Gregor nel racconto, gli artisti Gleijeses e Baliani ibridarono il loro lavoro con i testi di Kafka. Questo entusiasmò Barba, che strutturò lo spettacolo in più fasi, tra cui l’inizio, focalizzato sulle prove, e la parte centrale sulla routine quotidiana. Possiamo individuare il lavoro registico di Eugenio Barba anche nell’attenzione dell’attore di “mettersi in forma” che, con estrema precisione dei movimenti, attira su di sé lo sguardo dello spettatore, riuscendo a trasmettere la drammaticità del suo corpo.

I suoni coincidono con le azioni e fanno concretizzare con l’immaginazione dello spettatore oggetti scenici inesistenti.

Nonostante Gregorio sia solo sulla scena, interagisce con altre figure attraverso diverse voci off.

Per cogliere ogni movimento ed effetto scenico altrimenti impercepibile, lo spettatore deve trovarsi frontale al palcoscenico. Proprio per questo il Teatro Astra ha delimitato i posti accessibili, modificando la conformazione stessa del teatro e creando uno spazio diverso.

Qual è il confine tra la sana ricerca artistica e la pulsione patologica? Dove si costruisce qualcosa e dove si distrugge se stessi e gli altri?

Accrescere la propria arte è il tema centrale sia realmente, per la modalità di creazione di questo spettacolo, sia metaforicamente all’interno dell’opera stessa.

E’ questo che causa la crisi dei rapporti tra Gregorio e gli altri personaggi ed è forse l’unico scopo del danzatore: trovare e, in un certo senso, trovarsi.

Alessandra Bina e Alessandra Botta

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, diretto da Eugenio Barba insieme a Julia Varley e allo stesso Gleijeses, prodotto da TPE, Nordisk Teaterlaboratorium e Gitiesse Artisti Riuniti. La consulenza drammaturgica è di Chiara Lagani.

Lo spettacolo ha avuto un’anteprima a inizio dicembre 2018, al Teatro Studio di Scandicci per la stagione del Teatro Nazionale della Toscana. Dopo le repliche all’Astra fino a domenica 20 gennaio andrà a Milano (Triennale Teatro dell’Arte, da giovedì 24 a domenica 27 gennaio) e a Bologna (Centro Teatrale La Soffitta, Dams, martedì 30 gennaio).

CON LORENZO GLEIJESES

REGIA E DRAMMATURGIA EUGENIO BARBA, LORENZO GLEIJESES, JULIA VARLEY

SUONO E LUCI MIRTO BALIANI

VOCI OFF EUGENIO BARBA, GEPPY GLEIJESES, MARIA ALBERTA NAVELLO, JULIA VARLEY

ASSISTENTE ALLA REGIA MANOLO MUOIO

CONSULENZA DRAMMATURGICA CHIARA LAGANI

SPAZIO SCENICO ROBERTO CREA

GLI OGGETTI COREOGRAFICI SONO FRUTTO DELL’INCONTRO CON MICHELE DI STEFANO NELL’AMBITO DEL PROGETTO58° PARALLELO NORD PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA – NORDISK TEATERLABORATORIUM – GITIESSE ARTISTI RIUNITI IN COLLABORAZIONE CON CENTRO COREOGRAFICO KÖRPER

Madama butterfly – La farfalla sospesa

Il sogno d’amore della giovane Madama Butterfly prende vita fin dalle prime note dell’ouverture, intonata dall’Orchestra del Teatro Regio di Torino e forte di una carica inaudita nell’interpretare la famosa partitura. A dirigerla è Daniel Oren, che torna nel teatro torinese per la stagione 2018-19, a più di vent’anni dal suo esordio. Continua la lettura di Madama butterfly – La farfalla sospesa

Il capitalismo in tre atti. Lehman Trilogy di Stefano Massini

C’è un libro che tutti gli studenti di economia dovrebbero leggere: Lehman Trilogy di Stefano Massini (Einaudi). E’ un testo teatrale del 2014 che segue la storia della banca americana Lehman Brothers, dalla nascita nel 1850 al fallimento nel 2008. Un fallimento con debiti per 613 miliardi di dollari, considerato una della cause principali della crisi attuale. Ma Lehman Trilogy non è solo una lezione di economia, è un testo scritto con perizia tecnica e molto divertente, in cui l’elemento centrale sono i singoli personaggi che dirigono la banca, che Massini ritrae in modo veramente originale.

Nel 1850 Hayum Lehmann, ventiduenne ebreo di origini tedesche, sbarca a New York e il suo nome diventa Henry Lehman; apre un negozio di stoffe a Montgomery, capitale dell’Alabama, dove lo raggiungono i fratelli Emanuel e Mayer. Questo è il punto di partenza della Lehman Brothers. Da qui in poi la loro storia non sarà che un scalata nel mondo del commercio, una scalata che inizia per caso e forse nemmeno desiderata, portata avanti con umiltà, profondo senso religioso e capacità di adattamento. Quando le piantagioni della città vanno a fuoco Lehman Brothers diventa un’azienda di compravendita di cotone; quando la guerra civile devasta gli Stati Uniti Mayer trasforma l’azienda in banca con l’incarico di finanziare la ricostruzione del Sud. Poi il trasferimento a New York e l’ingresso a Wall Street: la banca è tra le più importanti al mondo e investe in carbone, caffè, ferro, in tutto. Nel frattempo il figlio di Emanuel, Philip, un calcolatore, un parlatore, già a dieci anni un banchiere perfetto, diventa direttore della banca e non sbaglia una mossa: è lui che investe sulle sigarette, sulle ferrovie, sulla costruzione del canale di Panama. E’ lui soprattutto che trasforma la Lehman Brothers in una banca che non investe più in oggetti concreti come il caffè o la stoffa, ma in denaro: ecco la borsa valori. Il figlio Robert lo affianca nella direzione, ma nel frattempo siamo già al 24 ottobre del ’29…

 

Il testo è di sicuro una lezione di storia dell’economia. Viene spiegato come la Lehman Brothers è organizzata internamente, come discute un progetto che deve finanziare, come si crea la propria rete di collaboratori. Come un padre tiene lontano un figlio dalla banca, o un neolaureato arriva a essere dirigente. E’ molto interessante vedere che quando si affacciano sul mercato le invenzioni che cambieranno il mondo, l’aereo, la televisione, il cinema, alcuni perplessi non vogliono investire. Nascono nuovi campi in cui allargarsi, situazioni da sfruttare e perciò scelte da fare: scopriamo che è grazie alla Lehman Brothers che certi prodotti sono entrati nelle case di tutti. In generale il libro mostra la trasformazione dell’economia nel corso del tempo, fino al concetto di agenzia di trading.

 

Ma Lehman Trilogy è particolare anche per altre cose, a cominciare dal modo in cui sono descritti i personaggi. E’ un testo teatrale, ma non ci sono parti: un’unica voce racconta, parla dei personaggi in terza persona, in versi, interrotta qua è là da schegge di discorsi diretti o dialoghi. Questo permette di raccontare la vita dei personaggi e scrivere i loro pensieri come in un romanzo, ma è chiaro che a teatro si sarà costretti ad adottare soluzioni insolite. Baricco ha scritto: “Avevo pensato: impossibile farla a teatro. Mica per altro, è che il testo non ha le parti per gli attori, non ha dei personaggi, non ha una struttura da testo teatrale: è un fiume, in cui le voci si mescolano, i dialoghi nuotano dentro il racconto, la voce narrante compare e scompare, cose così. È molto più un romanzo o un poema epico” (Luca, Vanity Fair del 9 dicembre 2016). Così nel fortunatissimo spettacolo che ne è stato tratto, l’ultima regia di Luca Ronconi, gli attori parlavano in terza persona di se stessi.

 

Massini affronta le figure di questi banchieri con pagine veloci, con tecniche che spiegano il personaggio in poche righe. Per esempio, a ognuno è attribuito un oggetto che lo rappresenta: Henry è la testa, Emanuel il braccio, Mayer una patata. Philip è l’agenda, dove segna in stampatello tutti i suoi problemi/ e giorno per giorno deve scrivere anche la soluzione. Con strumenti come questo l’autore costruisce i personaggi, anche estremizzando alcune personalità, e scrive pagine a volte divertenti, a volte profonde, ma sempre immediate. Un esempio, il matrimonio di Philip Lehman. Philip è talmente quadrato che sceglie la moglie con una classifica sull’agenda, con una stretta selezione tra 12 candidate, del tipo:

 

MESE: NISSAN

CANDIDATA: ADA LUTMAN-DISRAELI

PORTAMENTO: AUSTERO

SPIRITO: ACCIGLIATO

CULTURA: MASSIMA

SINTESI: UN RABBINO

PUNTEGGIO: 120 SU 200

 

MESE: TAMUZ

CANDIDATA: ELGA ROSENBERG

PORTAMENTO: DECORATO

SPIRITO: INGESSATO

CULTURA: ELEMENTARE

SINTESI: CERAMICA DIPINTA

PUNTEGGIO: 71 SU 200

 

I tre fratelli fondatori, invece, sono ritratti da Massini con molto più affetto, sottolineandone l’umanità e la semplice voglia di farsi strada. Ecco come Emanuel corteggia una ragazza, ma da bravo braccio non sa cosa sia la diplomazia:

 

“Non potreste fare un matrimonio migliore

e al tempo stesso un affare:

vendiamo il cotone di 24 piantagioni.”

“Complimenti, ma io che c’entro?”

“C’entrate molto

 dal momento che ci sposeremo

 io e voi.”

“Io e voi?”

“Lascio vostro padre

 decidere la data e la ketubàh.”

“E a me cosa lasciate?”

“Perché? Volete qualcosa?”

Quando la porta di casa Sondheim

si chiuse

violentemente

sulla sua faccia

Emanuel Lehman non si perse d’animo:

dette a se stesso appuntamento

lì davanti

fra non più di una settimana

e mise il mazzolino di fiori dentro un vaso

per non doverlo ricomprare.

 

Questi sono estratti divertenti; soprattutto nella seconda e terza parte però i personaggi sono tormentati, frustrati, e comunque raffigurati con pagine limpide. Con Robert Lehman, figlio di Philip, l’autore costruisce il personaggio più complicato del libro. Robert ha la passione dei cavalli, delle corse e delle scommesse, e il cavallo ovviamente sarà il suo simbolo: su cui puntare, ma che deve correre, che può anche perdere. Che a pochi secondi dalla fine improvvisamente supera tutti e vince. Pur essendo a capo della Lehman Brohers, Robert è oscurato dal cugino Herbert, governatore di New York dal ’33 al ’42, e lo sforzo immane che sta facendo per tirare la banca fuori dalla crisi passa inosservato; eppure è lui è quello che capisce che bisogna investire nel cinema e nei computer. La parte del libro dedicata a Robert è quella più complessa perché si mischiano molti stili, i sogni si sovrappongono alla realtà, l’ebraismo diventa protagonista (Robert si convince di essere Mosé).

 

Ronconi scrive nella prefazione all’edizione Einaudi: “In questo navigare tra i due opposti rischi- egualmente retorici- di assoluta esecrazione e piena incensazione del capitalismo, Massini riesce tuttavia a consegnarci un catalogo di personaggi privi di tesi, teatralmente efficaci proprio perché mobili, inafferrabili, immuni da quella malattia che alla Walt Disney ci fa dividere agilmente la lavagna fra presunti buoni (anticapitalisti) e presunti cattivi”. E lo stesso Massini conferma in un’intervista: “Mi sono attenuto al mio obiettivo di non emettere nel modo più assoluto alcuna forma di condanna”. Questo è vero se guardiamo alla voce narrante, che non si lascia scappare nessun giudizio su quello che racconta. Tuttavia il lettore è chiamato a giudicare perché molte pagine sono scritte con una sottolineatura della degenerazione del mondo delle banche, della natura puramente speculativa dei dirigenti, che guardano alla popolazione americana come a una risorsa da sfruttare e da spremere. Nella seconda e terza parte è questa la visione del mondo della Lehman Brothers. Per noi è impossibile non giudicare:

 

Philip Lehman si è fatto furbo

-ed è il suo capolavoro-

scrivendo sull’agenda

in stampatello

NOVECENTO= NEVROSI, NEVROSI= SVAGO

E fra tutti gli svaghi da finanziare

non ha scelto quello che va per la maggiore

cioè l’acool

[…]

ha puntato sul tabacco

o meglio: sulla National Cigarettes.

 

Senza dimenticare il discorso del Direttore Ramo Pubblicità (già nel secondo dopoguerra) in una riunione:

 

“Se noi trasformeremo la fiducia fra uomini

nella fiducia in un marchio

noi otterremo ben altro che nuovi clienti

otterremo persone che su di noi

non si faranno domande.”

E’ qui che si vede di più la mediazione e la presenza di uno scrittore, che attribuisce una natura particolarmente negativa e grigia ad alcuni personaggi, discorsi e idee. Del resto nello spettacolo di Ronconi alcune figure sono state rese esplicitamente negative attraverso il modo in cui parlavano, l’abbigliamento e il trucco, come il broker Glucksman, pallido in faccia, addosso una specie di impermeabile nero, la voce stridente. Il lettore giudica perché confronta continuamente queste figure con gli umili e scrupolosi fratelli fondatori. Come dice Massimo Popolizio, che interpreta Mayer: “Questi tre ragazzi avevano un’idea del denaro diversa da quella che avranno poi i nipoti, più consona al tempo, più vicina all’umano, alle cose”.

Anche per questo ci sono riferimenti continui all’ebraismo. Dalla prima pagina viene chiarita l’importanza della religione nelle vite dei fratelli, una devozione prioritaria e scrupolosa. Quando muore Philip, invece, la Lehman Brothers non segue il rito ebraico da rispettare nei momenti di lutto e fa solo un minuto di silenzio. Questa perdita di radici coincide con la perdita della moralità della banca, con la trasformazione in squali.

 

La cosa che rimane di più del libro è la tecnica con la quale è scritto. Si mescolano più stili e il lettore riconosce non solo una perfetta conoscenza della lingua drammaturgica. C’è un certa musicalità in alcune pagine, nel senso che si costruisce un ritmo talmente incalzante che sembra di sentire sotto al testo una musica, allegra e molto veloce. Altre volte le pagine sono proprio costruite come strofa- ritornello, con un gruppo di parole sempre uguali che si ripetono durante la scena. Ma ci sono anche tecniche più nascoste: invece di scrivere semplicemente che il caffè viene spedito, Massini scrive: il caffè parte da New York/ contrattato/ firmato/ pagato/ imbarcato. Ci sono, poi, figure simboliche, come quella dell’uomo che cammina sul filo: ogni giorno, quando Philip Lehman va a Wall Street, trova un equilibrista che cammina su un filo sospeso tra due palazzi. Philip in borsa è quell’equilibrista. Già questa scena sarebbe impensabile se si girasse un film sui Lehman Brothers o se ne scrivesse un romanzo, perlomeno un romanzo con l’obiettivo del realismo. Iin verità tutte queste tecniche e questi personaggi sarebbero considerati inadeguati per altri generi, mentre questo è un testo in cui tutto è possibile, perché è una scrittura a metà tra la canzone, l’epica e il teatro.

Lehman Trilogy è un testo che certamente insegna molte cose, ma è un insegnamento che va di pari passo con la componente letteraria. E’ un libro che inizia con uomini che collaborano tra loro e finisce con uomini che cercano di superarsi e sfruttarsi a vicenda. Tu capisci i protagonisti, vivi le loro vite, i loro dolori, i pesi che hanno addosso, eppure da un certo momento in poi non stai più dalla loro parte.

Stefano Massini, Lehman Trilogy, pp 344, Torino, Einaudi, €17,50

La ballata di Johnny e Gill – Fausto Paravidino

Una linea sottile orizzontale, l’universo appiattito, come in un buco nero. L’assenza di tempo e spazio. Una visione dall’alto che è anche visione senza tempo, al di sopra di tutto, primigenia e pura. La fine e l’inizio del mondo. L’anima che si fa Assoluto. Con questi presupposti, lo spettacolo crea il mondo, mondo in cui la necessità, l’imperativo morale è la migrazione. Mondo in cui si erge incontrastata e solinga la torre di Babele, monito del peccato di ubris dell’uomo. Segno della dispersione dell’uomo, diviso in lingue diverse. Gli uomini  tutti fratelli, ben presto si dispersero, chiusi nella loro incomunicabilità, divennero estranei. Ma al centro di tutto c’è sempre un uomo, un uomo qualunque non un santo: Abramo, a cui Dio, dà il compito terrificante di andare a conoscere gli altri uomini. Abramo lascia tutto e parte, non importa se spinto davvero da Dio, o semplicemente dall’impellenza o necessità di viaggiare e conoscere l’altro. Da qui ha origine la nostra civiltà, una civiltà di migrazione continua. La necessità di cambiare la propria condizione esistenziale e materiale verso una terra promessa.

“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria / e dalla casa di tuo padre / verso il paese che io ti indicherò”, il Signore ad Abramo.

Fausto Paravidino, il Dramaturg del Teatro Stabile di Torino, mette in scena in qualità di regista e sceneggiatore, oltre che attore, lo spettacolo La Ballata di Johnny e Gill. Uno spettacolo diverso da quelli in cui siamo soliti imbatterci, se bazzichiamo tra le sue opere. Non più i kitchen sink drama degli esordi, da qualche anno Fausto Paravidino fa del teatro diverso, un teatro sempre contemporaneo, che guarda all’attualità per abbracciare tutto quello che offre, quindi anche il suo passato, la Storia tutta. I Fenomeni che vediamo non sono nuovi, ma repliche di azioni che abbiamo già fatto anni addietro. E allora viene spontaneo partire dalla Bibbia, testo cardine della nostra civiltà, testo che ci culla di nascosto fino al contemporaneo.

Lo spettacolo è una fiaba di qualcosa che non capiamo, con cui non riusciamo a fare i conti. La storia è costruita per quadri, riuniti parzialmente da delle dissolvenze in nero. Johnny e Gill sono italiani, sebbene non lo si dica apertamente. Vendono il pesce, ma non sono soddisfatti della loro condizione. Johnny, dopo uno strano sogno con uomini mascherati, forse emissari del Signore o semplicemente incarnazioni dei suoi turbamenti interiori, prende la moglie Gill e l’amico Lucky e decide di andare via dalla sua terra. Attraversano diversi luoghi, emblema di tutte le migrazioni passate e future, luoghi che portano con sé  i mali dell’uomo che non ha ancora accettato la diversità di Babele. Quindi il deserto con le sue carestie e i suoi predoni/terroristi, sciacalli perversi che spolpano la vittima lasciandola in agonia ad assaporare la sua vacanza spirituale tra la sabbia. I soldati corrotti, che invece si divertono a macerare ulteriormente questa carne sopravvissuta al deserto. E infine il mare, calma piatta di una tempesta in agguato. Sale, arsura, onde. Ma dov’è la terra promessa? Eccola! L’America, luogo della mente. Dove tutti sognano di andare. Paese dei Balocchi, dove i sogni saranno realtà. La massiccia immigrazione italiana in America in anni forse dimenticati di proposito, se si nota con quanto odio accogliamo oggi lo straniero. La xenia, l’ospitalità dell’antica Grecia. Era un dovere sacro per i greci ospitare chi chiedeva l’ospitalità. L’America che ci accoglieva, magari non per dovere, ma accoglieva. Cosa che oggi, pare, si sia persa nei meandri della storia, sia America come in Italia.

Johnny e Gill si scontrano con culture e lingue diverse , si sentono estranei. Gli attori nello spettacolo parlano inglese, francese e grammelot. La lingua può essere un ostacolo ma quando c’è volontà di capire, la si capisce. Dio ha punito gli uomini costringendoli a parlare diversamente, ma in questo spettacolo e sia all’esterno di esso, nel mondo delle migrazioni, c’è la necessità di ricongiungere quello che è stato diviso. Johnny e Gill, in questa nuova terra, fanno quello che sanno fare meglio: vendono il pesce. Incontrano il boss locale, ottengono il suo rispetto. Imbattersi nel boss locale, se si apre un’attività nella zona controllata da questo individuo, è un’usanza, un rito. Zeus proteggeva i viandanti, la xenia, Zeus Xenios. Ora a proteggerli c’è il Padrino. Nonostante gli imprevisti la loro attività avrà successo, ecco l’America che dà possibilità, il sogno americano. La loro vita scorre in parallelo a quella di Abramo: Gill/Sara non potrà avere figli e per questo tentano la strada dell’utero in affitto. Da Agar, la donna che si presta a ciò e che ha lo stesso nome anche della schiava di Abramo, nascerà il loro bambino, Ismaele. La gelosia tra Gill e Agar porterà all’allontanamento di questa e del bambino non riconosciuto. Spetterà ad un tassista vestito da Babbo Natale, annunciare la venuta di un bambino: “ Avrete un bambino, ma ricordatevi, donando la vita si dona la morte, il figlio sarà vostro ma non vi apparterrà: un giorno dovrete restituirlo”. Questo Dio camaleontico infonde speranza in ogni cosa. Ecco il bambino, ecco Isacco. Nella nostra epoca un sacrificio di un figlio come sarebbe possibile e visualizzabile? C’è sempre un sacrificio all’angolo della strada. La guerra, la patria che sacrifica i suoi figli, il figlio che torna allo zio Sam che lo richiede. La guerra in Iraq dopo gli attentati di Al-Qaeda, si presta ad inglobare i figli della terra. Ecco il sacrificio. Ma come Dio salva Isacco, anche il figlio di Johnny e Gill è salvo dalla guerra, così continueranno la loro vita in pace.

La guerra e le migrazioni sono fondamentali per capire il nostro tempo, per individuare il punto da sanare che è lì visibile e aspetta solo la cessazione di queste oscenità. Le persone scappano dalle guerre, dalla povertà, da condizioni esistenziali inaccettabili e ha il diritto di farlo, di migliorare la condizioni. Queste persone lasciano tutto per l’ignoto, per una fede in qualcosa che spesso idealizzano, il paradiso ci sarebbe, ma noi abbiamo deciso di chiuderlo, i porti sono chiusi. Noi abbiamo invece il dovere di accogliere, la xenia dovrebbe essere normale, la regola. Le migrazioni sono anche un fenomeno culturale, un fenomeno per ricongiungere i popoli, per riconoscersi attraverso le diversità. Questo lo spettacolo mette in scena con ironia beffarda e riso ammiccante. La fede, la necessità di poter cambiare di senso la torre di Babele, da monito di peccato a un peccato di ubris ancora maggiore, ma bello: la voglia di accogliere e comprendere il diverso. A noi non ci resta che avere fede nei pesciolini gialli: quando siamo tristi pensiamo a loro.

Emanuele Biganzoli

 

Testo e regia Fausto Paravidino
Ideazione Iris Fusetti e Fausto Paravidino
con Federico Brugnone, Iris Fusetti, Fatou Malsert, Daniele Natali, Tibor Ockenfels, Fausto Paravidino,
Aleph Viola
scene Yves Bernard
luci Pascal Noël
video Opificio Ciclope
costumi Arielle Chanty
maschere Stefano Ciammitti
musiche Enrico Melozzi
coreografia Giovanna Velardi
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
Le Liberté, scène nationale de Toulon, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Il Rossetti Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, La Criée – Théâtre National de Marseille, Pôle Arts de la Scène
Les Théâtres de la Ville de Luxembourg

Hans e Gret – Una fiaba per bambini grandi

Se ti allontani, ti avvicini

Se ti perdi, ti ritrovi

Solo nella dimensione della soglia.

Doris Cortez Villanueva

Lo spettatore non è più lo spettatore estetico che Nietzche rimpiangeva, da quando lo spettatore è diventato un occhialuto ed è diventato critico, lo spettatore dà giudizi non cerca il suo abbandono,  non cerca questo smarrimento, che è aldilà della felicità è fuori dagli ismi, è fuori dal malessere è fuori dal pessimismo e dall’ottimismo è al di là, è da un’altra parte. Si fa i conti con altri pianeti e chissà quali, siamo dei significanti.

Carmelo Bene

Il bello di avere degli spettatori bambini è che loro ricercano ancora quello smarrimento, quell’abbandono, loro non criticano, loro si divertono o si annoiano. Loro non cercano un significato a tutti i costi, cercano un significante, sono rapiti dalla forma, sono degli esteti. La bellezza per un bambino quasi sempre è una questione di proporzioni, segue canoni classici, come la simmetria. La simmetria può essere anche dettata dalle parole, e le parole possono evocare luoghi o immaginari tanto chiari e precisi da essere significanti potenti. Ma la parola in Emma Dante non è mai il motore che muove l’azione, è più simile alla musica che fa muovere i corpi, è parola musicale che evoca un mondo “antico”, “esotico”, lontano nel tempo e nello spazio, il mondo di un dialetto reinventato. La parola è quasi sempre l’effetto e non la causa del movimento.

Lo spettacolo comincia con una scenografia semplice: sedioline di legno sistemate in maniera perfettamente simmetrica rispetto al centro della scena, che coincide con il centro dell’enorme palco vuoto. Non sono semplici oggetti di scena, ma individuano luoghi deputati. Così abbiamo il luogo dove si dorme, dove ci si lava, dove si va in bagno, dove si mangia.  Avere nello stesso luogo, il “letto”, il “tavolo da pranzo” e il “water” introduce immediatamente il tema che ha spinto la regista a misurarsi con la nota fiaba dei fratelli Grimm: la povertà.

La povertà porterà il taglialegna a compiere il gesto “terribile e vile” dell’abbandono dei propri figli nel bosco, spinto dalla compagna/matrigna che in realtà è la vera strega della storia nella misura in cui è disposta a sacrificare, per la propria sopravvivenza, i “suoi” figli. Perché i figli sono di chi li cresce e non di chi li partorisce. Che li abbia cresciuti lei, lo si evince da una monotona routine che dura da sempre.

E in effetti, la casa della strega che ha gli stessi identici luoghi deputati della casa del taglialegna, realizzati con le stesse sedioline, nelle stesse posizioni, fa pensare che quella “vecchiaccia dalla vista corta”, come dice il testo stesso della strega, possa essere una sorta di doppio della matrigna anche lei “dalla vista corta”, nel senso di non essere riuscita, in maniera lungimirante, a vedere che quel gesto vile dell’abbandono di “due bocche da sfamare” non servirà comunque a salvarla. Del resto entrambe fanno la stessa scelta, quella di sacrificare i due piccoli per “sfamare” se stesse. Due donne (che in realtà sono una) accomunate dalla stessa sorte: la morte che arriva come beffa.

I malvagi vengono puniti con la loro stessa moneta, in una sorta di contrappasso “dantiano” più che “dantesco”.

 

Allora ecco l’identità delle due case, separate da un bosco fatto di “aiuole” colorate che terrorizza solo a parole e non nei fatti, nel senso che si dice “di aver paura”, ma in realtà nei fatti ci si affida e ci si fida del bosco tanto da permettere ai due bambini, nonostante siano appena stati abbandonati, di addormentarsi nel bosco. Abbandonati, si abbandonano a loro volta a una dimensione onirica dalla quale non sembrano svegliarsi mai del tutto. Un finto risveglio che mantiene nei connotati della magia, la meraviglia dell’onirico: i vestiti nuovi; la casa simile a quella delle origini ma diversa con la presenza di una figura femminile matrigna ma dai poteri sovrannaturali; l’abbondanza di cibo e di giochi, legati all’immaginario dei sogni che si realizzano.

Il bosco come luogo delle meraviglie, meraviglie mostruose, dove accadono “abbindolamenti” e tradimenti che in qualche modo servono a crescere e che evocano in quelle sfere colorate che scendono dal cielo, che segnano un cammino, i colori e le fattezze di quella casetta di zucchero e marzapane che non vedremo mai, se non nei nostri sogni.

L’immagine quindi del davanzale iniziale, evocato dalla perfezione di quella linea retta creata dalle braccia dei protagonisti è un immagine potente, estremamente evocativa, che rappresenta la vera soglia. La soglia del sogno, dell’immaginazione, del bosco. Allora forse quel bosco è davvero l’aiuola del giardino o del cortile di casa dove i bambini vengono “abbandonati” ai loro giochi e ai loro sogni per far dimenticare loro l’ora del pranzo e della cena e richiamati a rientrare a sera solo per dormire.

Allora quel davanzale è davvero la soglia fra il dentro e il fuori di sè. E’ la finestra che permette ai vari personaggi di vedere dentro quello che ognuno è e ha. La matrigna vede un carrubbo che non fiorirà mai, Hans e Gret la “possibilità” di trovare soluzioni, in una possibile fioritura, nel possibile passaggio di animali da mangiare, il padre vede un cielo azzurro dietro le nubi, la speranza di una redenzione.

Personaggi “gommosi” che ricordano i cartoons di una volta, con le loro smorfie buffe e i loro eccessi, nei sentimenti e nelle azioni. Si pensi alla matrigna e alle sue smorfie facciali o al modo sincopato di mangiare dei ragazzi quando arrivano nella casa della strega, al fuoco e al lancio dei giocattoli, scene “esagerate” da cartone animato.

Il davanzale è anche il luogo del ripensamento, è il luogo dal quale verrà evocato, più che la moglie morta, l’immancabile abito da sposa, che se non fosse una citazione alla poetica di Dante risulterebbe persin troppo didascalico, e se non fosse poetico risulterebbe persin troppo patetico.

Ma se la finestra è la “soglia”, di una potenza e di una bellezza tale da rimanerne incantati,  perché tradirla con dei sassolini che non servono davvero alla scena? Nel momento in cui i bambini staccano i gomiti che segnavano il davanzale per raccogliere a un’altezza diversa dal davanzale i sassolini che come essi dicono dovrebbero essere su quello stesso davanzale “tradito”, l’incanto si spezza, si rivela la finzione, la soglia sparisce. E’ lì, e non quando i personaggi si rivolgono con degli assoli al pubblico, che si abbatte davvero “la quarta parete”. Peccato perdere la potenza di quell’illusione. Ma forse è voluto, perché del resto “Il carrubo fiorirà” come cantano tutti insieme, con quel motivetto tanto orecchiabile che ricorda i canti parrocchiali, una rediviva matrigna e una rediviva strega,  anche la morte è una finzione.

Ma questo è un pensiero da grandi. Ai bambini lo spettacolo piace e rimane impresso probabilmente per quella simmetria. Il centro del palco, sottolineato spesso anche da un cerchio fatto con le sedioline, è il centro della scena, il luogo dove accadono le cose. Dove si raduna la famiglia per mangiare, o meglio non mangiare, dove si addormentano Hans e Gret nel bosco, dove viene imprigionato Hans per farlo ingrassare. Il centro del palco è la meta dove far atterrare i giocattoli lanciati da dietro le quinte per ricreare la stanza dei giochi nella casa della strega, il fulcro dal quale si diramano le fiamme del forno, in un balletto perfettamente simmetrico. La simmetria ritorna in quelle linee parallele delle “aiuole/bosco” che seguono il centro come punto di fuga prospettica. Simmetrico e perfettamente centrato è il davanzale della finestra formato dai gomiti dei personaggi agli estremi del quale troviamo Hans e Gret vestiti in maniera identica, simmetrica.

Uno spettacolo per tutti quegli adulti ai quali, come a Emma Dante da bambina, nessuno raccontava le fiabe, per sentirsele raccontare in carne e ossa dai personaggi. E per tutti quei bambini “grandi” che avrebbero capito anche con meno didascalie, ma che rimangono comunque ammaliati dalle simmetrie, dai colori e dalla musica di uno straordinario pifferaio magico come Emma Dante.

HANS E GRET

Scritto e diretto da Emma Dante

Con Manuela Boncaldo, Salvatore Cannova, Clara De Rose, Nunzia Lo Presti e Lorenzo Randazzo

Scene Carmine Maringola

Costumi Emma Dante

Luci Cristian Zucaro

Assistente alla regia Claudio Zappalà

Assistente di produzione Daniela Gusmano

Tecnico audio e luci Agostino Nardella

Una produzione Fondazione TRG Onlus

a cura di Nina Margeri

Incontro con Emma Dante – Tradire la fiaba per ritornare alle origini

Incontrarsi è una cosa sempre più rara siamo sempre con lo sguardo “calato” sui nostri display e il teatro serve ad avere questo sguardo dritto in un momento in cui dritto non è.

Emma Dante

1. Pre-messa o ri-messa in scena

Venerdì 7 dicembre 2018 all’Auditorium Quazza di Palazzo Nuovo (Università di Torino), Emma Dante ha incontrato gli studenti del DAMS per presentare i suoi tre spettacoli in scena a Torino nella stagione teatrale 2018/2019.  Accanto a lei, Anna Barsotti (Università di Pisa) e Federica Mazzocchi (DAMS, Torino).   

Emma Dante ha voluto precisare sin dall’inizio che per lei e per la sua compagnia è molto importante “fare repertorio”, ovvero far sì che spettacoli “antichi” possano continuare a vivere e a girare, confermandosi, modificandosi e arricchendosi, perché siano sempre vivi e attuali.

Così è per lo spettacolo Gli alti e bassi di Biancaneve che è già stato a Torino, ospitato dalla Fondazione TRG, e che tornerà a gennaio per Fertili Terreni Teatro; e ugualmente per La Scortecata, prima volta a Torino, ma che gira già da due anni. Questi spettacoli, che fanno parte della storia della compagnia, contribuiscono a definirne l’identità e il percorso poetico di ricerca. Non sono spettacoli che vengono poi accantonati: “Sono organismi viventi che hanno bisogno di un cammino e di crescere.”

Il debutto vero, prima assoluta, è quello di Hans e Gret, spettacolo per ragazzi prodotto dalla Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani di Torino. Si tratta di un’anomalia per Dante che solitamente non accetta di affidare ad altri la produzione dei propri spettacoli (per paura che possano essere “sciupati”). Lo spettacolo resterà nel repertorio della Fondazione, una realtà che Emma riconosce come unica nel panorama del Teatro Ragazzi, in grado di avere quella cura e quel rispetto per la materia viva: non solo dello spettacolo in sé, ma anche degli interlocutori ragazzi, troppo spesso ‘abbindolati’ da spettacoli superficialmente ridanciani, ma che in realtà non sanno farsi vettore di quella che Rodari avrebbe definito la “capacità dei bambini a impegnarsi nelle cose grandi”.

Lavorare sul repertorio significa mantenere vivo uno spettacolo, che muta e si riadatta seguendo una continua ‘riscrittura’, in linea con il trascorrere del tempo e con la sua natura di organismo vivente.  Consideriamo per esempio Ballarini, spettacolo del 2011.  È stato ripreso di recente con gli attori storici che nel frattempo sono invecchiati. Uno spettacolo tutto ballato non parlato, quindi molto fisico che nella ripresa è stato modificato aggiungendo un dialogo tra i due protagonisti. La ‘riscrittura’ nasce da una maturazione sia dei tempi, ma anche del vissuto degli stessi interpreti e della regista. “Questo spettacolo, che parla di due vecchietti che danzando ritornano alla loro giovinezza, ripreso quasi dieci anni dopo la sua creazione, ha ancora qualcosa da dire se continua ancora oggi a commuovere giovani di vent’anni”, cioè – dice Emma Dante – gli allievi della sua scuola di teatro che hanno assistito alle prove.

2. La lingua teatrale di Emma Dante

“Chiamarlo dialetto è riduttivo”

Anna Barsotti docente dell’Università di Pisa ha parlato del lavoro sulla lingua di Emma Dante, soprattutto in rapporto alla prima trilogia della famiglia siciliana (mPalermu, Carnezzeria e Vita mia). La radice della lingua è il palermitano, ma un palermitano reinventato, perché è il lavoro con l’attore nelle prove non-prove che la lingua diventa corpo e si reinventa attraverso la struttura dell’opera. C’è un rispetto profondo per l’identità degli attori e dei loro idiomi. Nel teatro di Dante troviamo commistioni con il campano, con il pugliese, il siciliano e accenti francesi rubati all’identità e alla verità degli attori, che nei suoi spettacoli entrano a pieno titolo nella scrittura drammaturgica. La lingua del teatro nasce dalle lunghe sessioni di laboratorio, in cui avviene la reinvenzione della lingua per cui le parole diventano corpo e si modificano.

Sempre secondo Barsotti, la fiaba è all’origine di tutte le opere di Emma Dante, contiene i temi fondamentali della sua poetica: il tema della vita e della morte, il sesso, il rapporto tra le generazioni e la valorizzazione del diverso. Diverso per genere, nel teatro della Dante spesso i generi vengono mescolati donne interpretano uomini e viceversa, diverso per status sociale. E dulcis in fundo, commenta Barsotti, tematica cardine delle sue opere, la difficile compagine familiare che forse nelle Sorelle Macaluso viene smussata un po’, aprendo a una prospettiva più positiva, anche se la famiglia rimane per Dante il luogo dove si possono commettere le peggiori atrocità.

Per Barsotti un altro elemento caratterizza la produzione e lo stile di Emma Dante: il tragi-comico (non il grottesco, ci tiene a precisare). Nel senso che si va da una punta all’altra, dal tragico più aulico al comico più basso. Nella ripresa dei motivi classici, il fiabesco e il mito si uniscono spesso, e il tragicomico affiora dalla leggerezza della fiaba. Inoltre, l’alto e il basso si confermano nella mescolanza dei linguaggi.

Come in Gli alti e bassi di Biancaneve, essenziale nella scenografia dove una specie di paratia con delle cravatte permette di far interpretare ai soli tre attori tutti i personaggi, che sbucano da dietro con la sola testa incarnando di volta in volta un personaggio diverso, in un gioco di vestizione e svestizione anche questo tipico di Dante.  Viene ribadita l’importanza dell’aspetto filologico, che viene  trasformato,  ma non ignorato. Per la regista-autrice, la crudeltà delle fiabe non va edulcorata, tuttavia occorre mettere lo spettatore bambino/ragazzo di fronte a una realtà trasfigurata, filtrata, ma che deve conservare un riverbero cupo e brutale.

Secondo Barsotti, in La Scortecata, una fiaba questa esclusivamente per adulti come sottolinea la stessa Dante, l’originale di Basile è messo in scena da due bravissimi attori uomini, che interpretano due vecchie sorelle che si recitano la storia tra di loro per continuare a vivere attraverso la rievocazione di un fatto già avvenuto. Barsotti, ricordando i precedenti spettacoli di Dante, si aspettava un finale più cruento, più macabro, con la scena dello  scorticamento che in realtà non avviene: Dante blocca l’azione mentre una delle due sorelle brandisce il coltello, cristallizzando l’azione in un fermo immagine immerso in una luce drammatica, che evidenzia i corpi e che ricorda i quadri di Caravaggio. Non mostrare la scena dello scorticamento, per la regista significa rendere la minaccia più terribile e allo stesso tempo creare un finale più drammatico.

3. Hans e Gret – Cambiare il finale per ristabilire una morale

Secondo Federica Mazzocchi, nel teatro ragazzi di Emma Dante si riconosce una radice riconducibile al lavoro sulle fiabe fatto da Gianni Rodari, in particolare la possibilità di rimontarle, reinventarle in chiave ludica e liberatoria, nonostante poi, per Dante, ci sia sempre una cifra legata alla violenza, alla drammaticità, al conflitto tra adulti e ragazzi. Mazzocchi chiede a Dante come ha proceduto per l’adattamento drammaturgico di Hans e Gret, che cosa gli interessava di questa storia e come ha voluto raccontarla.

La regista-autrice risponde che, da bambina, nessuno le raccontava le fiabe, e che oggi le mette in scena anche per colmare quell’assenza, per raccontarsele. Della fiaba ama il fatto che non ci sia un’autorialità forte del testo –  “La fiaba non è di nessuno”, dichiara, appartiene al mito e dunque a tutti. Tuttavia, il fatto che le fiabe siano sempre state tramandate oralmente, e che ogni tanto qualcuno si sia preso la briga di scriverle, per Dante è uno stimolo a servirsene per un’esigenza particolare, per riflettere sulla propria epoca, insomma uno stimolo a prenderle e farle sue.  Molto importante, in questo percorso di ‘impossessamento’ e di rielaborazione della fiaba, è il lavoro di Dante sui finali, cioè sulla ‘morale della favola’. Se non c’è morale – dichiara – la fiaba non ha funzione. E’ lo stesso per il teatro: per Dante se lo spettacolo non fa riflettere, se lo spettatore non si alza dalla sedia un po’ cambiato rispetto a prima, il teatro fallisce la sua funzione, che è sempre anche una funzione sociale.

A maggior ragione, il teatro ragazzi: pur pensato per intrattenere, è un tipo di teatro che chiama a una responsabilità maggiore, perché i bambini non sono equipaggiati come i grandi, e quindi i gesti devono essere lineari e non equivocabili. In La bella Rosaspina addormentata, la principessa doveva essere svegliata dal primo che passava di lì e, poiché a passare per prima era una ragazza, per i bambini era naturale che fosse lei a baciare la principessa e che, una volta svegliatala, la principessa se ne innamorasse, perché questo è ciò che dice la favola (“Ti innamorerai della prima persona che ti risveglierà con un bacio”). Si trattava di un bacio tra le due donne, ma non significava qualcosa di erotico. A questo punto, di solito, i bambini guardano i genitori per capire se possono accettare in maniera libera questa cosa. Quasi sempre è l’adulto a intendere quel bacio in termini di erotismo osceno. Diversi genitori hanno protestato fuori dai teatri per questo bacio.

Per quanto riguarda Hans e Gret, Emma Dante cambia il finale per ristabilire una morale, perché per lei è importate dire ai bambini che cosa quella fiaba ci può insegnare. Nelle sue riscritture, la regista-autrice tende sempre a punire i cattivi, a non perdonarli (senza però, come uscì tempo fa sui giornali, demonizzare Walt Disney e i suoi happy end). Fa un lavoro che cerca di scardinare certe convenzioni, in primo luogo l’obbligo di perdonare un malvagio solo perché alla fine si pente. “Non è giusto ”, dice Emma Dante, che le matrigne siano perdonate e la  facciano franca. Per contrappasso, “La matrigna di Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, per esempio, ho voluto trasformarla in una zecca e le due sorellastre in due cani su cui la matrigna va a vivere e di cui si nutre”. Dunque, fare in modo che i buoni vincano, ma anche che i cattivi non solo perdano, ma che siano puniti.

La riscrittura trasforma Hans e Gret in una favola sulla miseria, in una riflessione sulla mancanza di cibo, che in una società consumistica come la nostra forse non si sente più. Questa favola vuole raccontare la presenza dei poveri che nessuno vede, uno stato di privazione tale da generare un gesto mostruoso e vile:  spinto dalla matrigna, il padre arriva ad abbandonare i propri figli nel bosco. Dante prova imbarazzo a raccontare questa favola a suo figlio, soprattutto il punto in cui il padre abbandona i figli, e si chiede: “Che cosa può pensare mio figlio di questo momento? Se lo fa quel genitore allora potrei farlo anche io?”. In più, continua la regista, questo gesto terribile viene raccontato nella fiaba come la cosa più naturale del mondo, e viene addirittura ripetuto due volte. La favola permette anche di riflettere sulla distinzione tra matrigna e madre. Per Dante, “Chi cresce i figli è madre”. In questa fiaba la matrigna è la strega, è la vera cattiva che costringe il padre a compiere il gesto vile dell’abbandono. Il padre invece alla fine si redime, si pente e capisce che la vera ricchezza è stare insieme, dice Emma Dante, che ritiene sia molto importante che lo spettacolo si chiuda su questa battuta del padre. La scelta dettata dall’amore e lo stare insieme per superare le difficoltà: ecco la morale.

4. Crescere. Boschi e sottoboschi di una cultura consumistica

L’altro lato della medaglia, e dunque della storia, è l’importanza del distacco, della separazione come crescita, afferma Mazzocchi. Emma Dante ammette che c’è anche quest’aspetto, perché alla fine il bosco è il posto dove tutti finiamo, chi a 10 anni, chi a 40, chi a 60… Il bosco, commenta Dante, non è solo un luogo buio in cui perdersi, è anche luogo delle meraviglie. Compaiono colori, scendono dall’alto palle di fiori, i due piccoli protagonisti hanno paura, ma allo stesso tempo si abbandonano a questo bosco che è anche il luogo in cui le cose accadono, accadono illusioni, abbindolamenti… Si tratta di cose fondamentali, di prove che servono a trasformarci, a farci crescere, per tornare alle origini “con i sacchetti pieni” di conoscenza. Così i due bambini tornano a casa con sacchetti, sì, ma carichi di cibo. Del resto, per Dante il supermercato è il luogo in cui passiamo gran parte del nostro tempo, è un po’ diventato la nostra chiesa, una sorta di luogo della ricompensa. In Sicilia, come ovunque, ormai ci sono moltissimi centri commerciali, supermercati che sono diventai i nuovi luoghi di culto, lontani dalla tradizione genuina del mercato che, paradossalmente, è ormai sinonimo di radical chic.

Eppure, a Torino i mercati sono ancora i luoghi dove i poveri possono trovare solidarietà e cibo. Spesso i venditori mettono da parte il cibo non venduto prima di chiudere per donarlo agli anziani che non arrivano alla fine del mese, fa notare Graziano Melano, direttore artistico della Fondazione TRG. Egli sottolinea che è necessario raccontare, anche attraverso il teatro, la realtà difficile che ci circonda. “La povertà esiste eccome”, conclude.

5. La musica e il coraggio dei giovani di rompere i vetri

Simona Scattina (Università di Catania) interviene per ricordare il libro La favola del pesce cambiato, pubblicato da Emma Dante con illustrazioni di Toccafondo e Le principesse di Emma, questa volta con illustrazioni di Maria Cristina Costa, citata in apertura anche da Mazzocchi, e per chiedere a Dante quale sarà il ruolo della musica in Hans e Gret, considerando l’importanza che la musica ha nel suo linguaggio espressivo. 

Emma ricorda che questo è uno spettacolo molto melanconico che, soprattutto all’inizio, si svolge nel silenzio, in cui si sente molto lo scricchiolio del palcoscenico, che sembra avere una sua voce. La musica arriva non come sottofondo, ma come elemento creativo che aiuta il dialogo, e che dialoga con i corpi degli attori. In particolare, c’è una canzone scritta ed eseguita dai cinque attori, tutti usciti dalla scuola di teatro di Emma Dante. La regista ci tiene a sottolineare l’importanza di premiare il merito, promuovere i giovani. Cita a esempio la scelta di Maria Giulia Colace, sua ex-allieva, esordiente voluta come protagonista per Eracle (Teatro di Siracusa, 2018), con seimila spettatori a sera. “Mi sono presa un rischio grosso” –  dice Dante –  “ma non ho paura delle sfide. C’era in lei un’acerbità che trovavo interessante, è ai giovani che bisogna dare la parola, perché non hanno malizia scenica. Maria Giulia sentiva tutto con la verità di chi non ha i filtri smaliziati del mestiere. Bisogna avere il coraggio di mettere i giovani nei posti di prestigio.  I linguaggi nuovi vengono dagli errori, dal modo sgraziato con cui si prova a fare una cosa, non viene da una maturità, da una sapienza che però non ha più niente da dire. Ben venga l’immaturità di uno ‘sganazzato’, per dirla alla palermitana, che viene e rompe i vetri, che fa un sorta di piccola rivoluzione, che può fare paura perché non rispetta la tradizione”.

6. Domande a Emma Dante: curiosità e puntualizzazioni.

  • E se la famiglia che rimane insieme in Hans e Gret non fosse solo per amore ma per salvarsi dalla povertà?

E’ un po’ tutte e due le cose – afferma Emma Dante –, un po’ per esigenza, un po’ per amore. L’amore è qualcosa che ha a che fare con la convenienza, non ci sono dubbi su questo. Facciamo chiarezza su quello che è l’aggregazione degli esseri umani. Gli esseri umani sono animali feroci… Poi, noi siamo educati, abbiamo la virtù, perché abbiamo smesso di mangiarci gli uni con gli altri e quindi in qualche modo rispettiamo l’altro. Nel momento in cui non ti mangi l’altro diventi in qualche modo una persona virtuosa. Accetti la possibilità di una presenza dell’altro senza distruggerlo. Però questo non significa che l’essere umano non sia profondamente, dentro di sé, un animale feroce. Quindi, la famiglia diventa un po’ una tana, un posto comunque dove tornare, perché c’è una sorta di protezione, che è un po’ animale.

  • Che cos’è per te il tornare alle origini?

Tornare alle origini non è necessariamente tornare in un posto dove stai bene, ma tornare in questo posto dove ci sono tanti conflitti, tante cose non risolte e cercare di affrontale. Non tornare per chiudersi, ma andare via e tornare equipaggiati, per poter risolvere questioni lasciate in sospeso. Non credo nella fuga, credo nell’allontanamento, perché ci sono dei momenti in cui devi prendere un tempo e una distanza per capire le cose e poi tornare, perché alla fine torni sempre. Dove sei nato, tu torni sempre, ed è naturale che sia così. Questo è molto animale. Il nostro tornare a casa può essere tornare al posto dove siamo cresciuti, la via, la casa madre. Prima o poi, tutti ci torniamo, perché l’esigenza è troppo forte, ma ciò non significa che sia un ritorno sentimentale, romantico. Può essere anche solo semplicemente istintivo, di appartenenza.

  • Che cos’è per te la famiglia?

Mi sto sempre più convincendo che la famiglia per me non è quella in cui sono vissuta che era fatta di mamma, papà, figli, fratelli, ma quella attuale che mi sono costruita in maniera arbitraria. Mi sono scelta un marito e ho adottato un bambino. Quindi, è una famiglia strana perché noi tre – io, mio figlio e mio marito – non abbiamo geni in comune, non abbiamo lo stesso sangue, non ci assomigliamo neanche un po’, ma siamo una “verissima” famiglia. La famiglia più bella che io abbia mai conosciuto. 

7. Il repertorio della Fondazione TRG

Graziano Melano torna a precisare che, riguardo al discorso del repertorio degli spettacoli, la Fondazione ha quindici spettacoli prodotti e in repertorio che girano in Italia e all’estero. Per esempio Pigiami, che ha trentacinque anni di vita e che tutti conoscono, è a Montreal in questo momento. E’ ovvio che alcuni spettacoli sono invecchiati, non rappresentano più il linguaggio dell’infanzia o dei giovani e vengono messi da parte, oppure gli attori non li vogliono più fare, o ancora ci sono spettacoli che sono più impegnativi economicamente e quindi sono più difficili da far girare (l’economia ha, com’è ovvio, un grande peso nella diffusione di uno spettacolo). Fare repertorio sarebbe molto importante e potrebbe garantire un sano futuro per i giovani che vogliono fare teatro. Tuttavia, la situazione non è rosea, sempre meno le compagnie possono andare in tournée, e quindi fare esperienza e si fanno spettacoli che hanno un tempo di vita limitato, purtroppo per logiche poco lungimiranti dei nostri legislatori.

8. Nella mia fine è il mio principio

Tre spettacoli, tre momenti diversi di riflessione sulla fiaba, intesa come mito, relativo alle modalità in cui il mondo stesso e le creature viventi si delineano nella loro forma presente, si manifestano e, nel loro prender forma e manifestarsi, ce ne fanno scorgere un senso. Perché il teatro – ha detto Emma Dante – deve “avere una funzione sociale” o non ha motivo di esistere.

A cura di Nina Margeri

LAVANDERIA A VAPORE – nuovo membro delle European Dancehouse Network.

 Attiva dal 2008, la Lavanderia a Vapore di Collegno, oggi è gestita da una RTO che vede a capo Fondazione Piemonte dal Vivo in collaborazione con Associazione Culturale Mosaico Danza, Associazione Culturale Zerogrammi, Associazione Coorpi e Associazione Didee Arti e Comunicazioni.

Riconosciuta a livello nazionale e internazionale, la Lavanderia a Vapore dal 2018 diventa membro della prestigiosa rete europea EDN (European Dancehouse Network), puntando a seguire il modello dei centri coreografici europei. Il centro è eccellenza regionale della danza e unico centro di residenza del Piemonte riconosciuto dal Mibact.
Fondamentale per la Lavanderia a Vapore è la centralità dell’artista che svolge la residenza: il processo creativo dell’artista, a cui viene dedicato non solo spazio ma anche tempo per il confronto, è di vitale importanza per la crescita artistica dei progetti e degli artisti.
L’obiettivo secondo Matteo Negrin, presidente di Fondazione Piemonte dal Vivo, potrebbe essere quello di coordinare le residenze artistiche e sostenere le realtà piemontesi, ponendosi come capofila di un processo di sviluppo della danza.

QUELLO CHE CI MUOVE, dichiaratamente ispirato al libro “quello che ci muove. Una storia di Pina Bausch” di Beatrice Masini, è il titolo della stagione 2018/2019; un omaggio a Pina, ricordando che proprio quest’anno ricorre il decennale della sua morte.

Dal 16 al 18 novembre, è stata organizzata un’immersione nel mondo del Tanztheater di Wuppertal; tre spettacoli, una video installazione, un cortometraggio, due mostre fotografiche, un workshop per danzatori, un seminario di studio, vari incontri con artisti e presentazione di libri si sono susseguiti durante la Maratona Bausch – danzare la memoria, ripensare la storia.
A cura di Susanne Franco, la volontà di questi tre giorni intensivi era quella di far confrontare lo spettatore con l’eredità che ci ha lasciato Pina, eredità reperibile in forme e molti modi diversi.

© Fabio Melotti

LA STAGIONE CONTINUA NEL 2019. Danzare la memoria, il progetto che già l’anno scorso aveva dato vita ad un evento specifico per la giornata internazionale della danza, verrà ripreso attraverso the Nelken-line by Pina Bausch e sarà realizzato il 28 aprile a Torino. Quest’anno la città vedrà persone di ogni età e preparazione riproporre un frammento della famosa coreografia Nelken, danzando per le sue strade

Il programma continua con la “nuova danza”, nello specifico con tre appuntamenti: prove d’autore, in collaborazione con la rete Anticorpi XL a febbraio, Cédric Andrieux di Jerom Bel e la morte e la fanciulla della compagnia Abbondanza/Bertoni, a marzo.

Fondazione Piemonte dal vivo e la Lavanderia a Vapore continuano a sviluppare percorsi finalizzati all’audience engagement: da un lato con il progetto Fuori da Coro, legato ai temi dell’inclusione sociale con il percorso Mediadance, e dall’altro con l’indagine delle metodologie di lavoro e delle modalità di inclusione attraverso la danza contemporanea. Questo secondo obiettivo viene realizzato con tre azioni specifiche dedicate: una ai malati di Parkinson con Dance Wells-movimento e ricerca per il Parkinson, in collaborazione con il comune di Bassano del Grappa, una ai giovani richiedenti asilo con le Residenze Trampolino, e una agli studenti con Mindset, laboratorio sui processi creativi degli artisti in residenza.
Mediadance, invece, è realizzato in collaborazione con Agis Piemonte e il sistema bibliotecario urbano della città di Torino e rivolto alle scuole per indagare temi diversi attraverso linguaggi multidisciplinari.
L’inconscio, il bullismo, la diversità, la disabilità, l’inclusione sociale, l’immigrazione, sono i focus centrali del progetto scelti per quest’anno. Gli spettacoli attraverso i quali verranno affrontate queste tematiche sono programmati in orario mattutino, ma aperti a tutti e accompagnati da dibattiti. Il primo è stato Pesadilla di Piergiorgio Milano, a novembre, seguiranno poi Da dove guardi il Mondo? di Valentina del Mas a febbraio, Le fumatrici di pecore della compagni Abbondanza/bertoni, a marzo, e Transhumanance 1 elogio a perdere del Teatro Metastasio di Prato per Contemporanea Festival 2016, ad aprile.
Troveranno casa alla Lavanderia del Vapore, tra aprile e maggio, anche Solocoreografico, rassegna ideata da Raffaelle Irace sulle coreografie d’assolo, con la partecipazione del coreografo Jacopo Jenna, e la serata Permutazioni in collaborazione con Zerogrammi, con il debutto dello spettacolo Luci di carni di Amina Amici.

L’idea di Fondazione Piemonte dal Vivo è quella di dare la possibilità di far vivere la Lavanderia a Vapore come vera e propria casa della danza, in tutte le declinazioni del linguaggio coreutico.

Foto di copertina © Beppe Giardino

A cura di Annalisa Luise

 

 

TUTTA CASA, LETTO E CHIESA!

Tutta casa, letto e chiesa è uno spettacolo scritto da Franca Rame e Dario Fo.

Nessuno più di Franca Rame sarebbe stata adatta a descrivere la condizione femminile ed in particolare le servitù sessuali della donna: nel 1973 la Rame fu infatti rapita, stuprata e picchiata per ore. Uno stupro “punitivo ” dovuto al suo impegno sociale e civile nonchè una vendetta dei neofascisti nei confonti del suo compagno di vita.

A partire dal 1975 la Rame ricorre all’analisi teatrale: non sul lettino di uno psichiatra ma davanti al pubblico, portando in scena il monologo Lo Stupro e raccontando senza remore l’accaduto.

Nel 1977 il debutto di Tutta casa, letto e chiesa alla Palazzina    Liberty di Milano.

Oltre quarant’anni anni dopo, figure di donne pensate e messe in scena negli anni Settanta vengono interpretate da Valentina Lodovini con parole che sanno essere più attuali che mai. L’attrice recita sola sul palco, accompagnata da continui giochi di luce, rivolgendosi indirettamente al pubblico tramite un dialogo immaginario che avviene talvolta col marito e talvolta con una vicina. La presenza dell’uomo incombe per tutta la rappresentazione, pur essendoci in scena unicamente una donna.

Il pubblico è partecipe, ride e si appassiona alla vicenda, ma spesso si crea un silenzio quasi irreale. Tra le pieghe di un testo comico, sarcastico e graffiante si nascondono infatti problematiche, richieste di aiuto e domande senza risposta, che emergono in maniera quasi inevitabile tramite le parole della protagonista. Lo spettacolo, suddiviso principalmente  in tre parti , ci presenta alcune situazioni tramite un’ironia amara e tagliente sapientemente espressa dalla Lodovini.

Nel primo monologo, Una donna sola, la protagonista interpreta una casalinga, dolcemente svampita, che si ritrova chiusa fra le mura domestiche avendo apparentemente tutto, meno che l’amore e la considerazione  del marito. E’ madre, domestica, moglie impeccabile, ma non donna. Un’eterna bambina intrappolta in una realtà che non le appartiene.

Abbiamo tutte la stessa storia è invece la rappresentazione di un rapporto erotico in cui la donna è adoperata come mero oggetto sessuale. Non ha possibilità di scelta, se non quella di sottostare ai desideri del proprio uomo.

Nel terzo brano, Il risveglio, l’attrice interpreta una donna operaia stremata, ai limiti dell’alienazione, sfruttata in casa, in fabbrica e a letto.  Attraverso la ricerca delle chiavi di casa smarrite ripercorre la sua intera giornata mostrandoci così la sua profonda malinconia.

L’epilogo è affidato ad una Alice, in un paese che ha perduto le sue meraviglie, quasi a volerci risvegliare da un sogno.La Lodovini (seppur molto lontana dalla Rame) è riuscita, forse anche grazie all’antitesi tra fisicità e personalità, a portare in scena con disinvoltura parole che celano il loro spessore dietro una vena comica e talora grottesca.

Al termine dello spettacolo ho avuto il piacere di poter chiacchierare con la protagonista: mi ha rivelato che il testo non è stato in alcun modo modificato, ad eccezione di alcuni tagli necessari e qualche sostituzione (per esempio “euro” al posto di “lira”).

Le modifiche apportate non riguardano però in alcun modo i personaggi delle donne create dalla Rame: questo ci permette di constatare, a malincuore, quanto queste circostanze siano attuali, quanto ancora oggi le donne si ritovino in situazioni analoghe e quanta sia quindi ancora la strada da percorrere.

 

Ilaria Stigliano

 

Produttore: Pierfrancesco Pisani, Parmaconcerti

Regista: Sandro Mabellini

Luci: Alessandro Barbieri

Scenografia: Chiara Amaltea Chiarelli

Autore: Dario Fo, Franca Rame

Protagonista: Valentina Lodovini

produzione: TPE, Teatro Piemonte Europa

ONE BLOOD FAMILY

E LE RESIDENZA TRAMPOLINO DI COLLEGNO

Un nuovo progetto triennale vede coinvolta la Lavanderia a Vapore di Collegno, centro di residenze coreografiche che da 4 anni mette a disposizione i propri spazi per sperimentazioni e ricerche nel campo dei differenti linguaggi della danza contemporanea. In linea con il nuovo decreto ministeriale si propone un nuovo dispositivo in aperto dialogo con il territorio torinese attraverso residenze, che prendono non a caso l’appellativo di Trampolino, con lo scopo di sostenere e guidare lo sviluppo artistico di alcune progettualità individuate e selezionate nel corso del 2018.

Il 16 dicembre scorso abbiamo assistito alla prima restituzione pubblica di una di queste: il gruppo One Blood Family ha prodotto una coreografia che verrà nei prossimi mesi utilizzata all’interno del nuovo videoclip musicale del gruppo. One Blood Family, costituitasi solo un anno fa, accoglie nel suo organico alcuni giovani profughi provenienti da paesi africani e arrivati in Italia in cerca di asilo internazionale presso Villa5 di Collegno, una casa allestita a centro di accoglienza gestita dalla Cooperativa Atypica. I ragazzi di One Blood Family sono stati coinvolti nella prima Residenza Trampolino e hanno condiviso un progetto di ricerca coreografica con alcune allieve selezionate provenienti dalle scuole amatoriali di danza con cui la Lavanderia è solita collaborare. Al fine di una buona riuscita artistica si è potuto contare sul prezioso contributo del coreografo Jérôme Kaboré della Compagnie Wendinm, selezionato e proposto della direzione di TorinoDanza Festival, e dell’assistenza di Simona Brunelli, generando così un percorso che ha visto l’accostamento e la fusione di diversi linguaggi artistici: musica, canto e danza.

Quello a cui abbiamo assistito è stato dunque una restituzione di una sperimentazione linguistica nella sua prima stesura, composta da una nomenclatura prodotta dall’accostamento di codici differenti che non trovano ancora una loro omogeneità ma che al contempo trovano molti punti di raccordo. In particolare, emerge una volontà di far risaltare ogni singolo preformar e di dare forma corporea, e talvolta sonora, ai pensieri e alle storie degli artistici coinvolti. A Simona Brunelli va attribuito il lavoro guida dei neo danzatori mirato all’assimilazione e al perfezionamento dei passi. Un lavoro grezzo che nella sua abbozzatura fa trasparire un alto potenziale per la creazione di una nuova espressività che integra culture lontane ma non così distanti.

Recensione a cura di Matteo Ravelli

 

Coreografo Jérôme Kaboré
Assistente alla coreografia Simona Brunelli
Danzatrici Silvia Di Monda, Alessandra Fumai,
Emanuela Pennino, Letizia Turchi
Musicisti e cantanti Seedy Badjie, Sanna Bayo,
Ebrima Saidy, Gilbert Dah, Keba Ndiaye, Adama Ndow, Giorgio Benfatti, Gabriele Concas, Matteo Marini,
Simone Pozzi, Manuel Volpe
Sound concept a cura dell’Associazione
Culturale Spazio Rubedo
Riprese video Giorgio Blanco

In collaborazione con TorinoDanza Festival e Teatro Stabile di Torino

Il Riflesso della Traviata – “La Traviata” di Giuseppe Verdi

Il sipario è aperto. L’orchestra, diretta dal Donato Renzetti, intona la famosa ouverture dell’opera, e con lo sviluppo della melodia la scenografia prende forma: agli occhi degli spettatori avviene il graduale innalzamento dello specchio, elemento scenico chiave della messinscena firmata da Henning Brockhaus (regia e luci) e Josef Svoboda (scene). L’allestimento, Premio Abbiati 1993, è anche conosciuto propriamente come “La traviata degli specchi”.

Siamo al secondo appuntamento della stagione 2018-2019 del Teatro Regio con la trilogia popolare di Verdi: La TraviataContinua la lettura di Il Riflesso della Traviata – “La Traviata” di Giuseppe Verdi