COPPIA APERTA QUASI SPALANCATA

Coppia aperta quasi spalancata,  questo è il titolo di uno dei più famosi spettacoli dal carattere comico riflessivo di Dario Fo e Franca Rame, che dal 1982 ad oggi ha registrato  più di 700 repliche in tutto il mondo. Viene riproposto a Torino, e non solo, prima al Teatro Stabile nel 2022 e poi, nel 2023, al Teatro Alfieri. Il 25 novembre di quest’anno, Chiara Francini e Alessandro Federico ci colpiscono e ci stupiscono con la loro interpretazione, in occasione, tra l’altro, della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il giorno non è casuale. La trama, sicuramente d’impatto ed attuale, scritta e recitata da Franca Rame, vuole denunciare il forte cambiamento di una società allora profondamente segnata da una violenza verso il genere femminile, ritenuta normale, che inizia passo dopo passo ad essere riconosciuta e trattata in quanto  tale. Franca Rame scrive questo testo in un atto di consapevolezza, come grido di indipendenza e crescita personale. Il 9 marzo 1973  fu infatti protagonista di un orribile episodio di rapimento, diventato violenza carnale e conclusosi con il suo abbandono in mezzo ad un parco da parte dei carnefici. Da donna forte quale si è dimostrata agisce nella politica così come nei teatri. A farne le veci nel 2023 sembra essere proprio Chiara Francini, in una performance che si sviluppa attentamente  in ogni suo gesto. La voce, troppo spesso spenta nella vita reale, diventa protagonista della scena, con decisissimi cambi di tonalità.  Ripetizioni, ansie e angosce si verificano in un loop interminabile, ci sentiamo anche noi in trappola, come lei, nell’amara verità che questa pièce teatrale sta violentemente ponendo dinnanzi ai nostri occhi con lo strumento, spesso crudele, della risata. Alessandro Federico non fa una performance di meno valore, anzi, l’odio e l’amarezza percepita nei suoi confronti dimostrano il suo carisma nell’interpretazione del personaggio,  tuttavia, è condannato, dallo spettacolo stesso, a scomparire dalla principale attenzione del pubblico. Gli attori parlano direttamente a noi, protagonisti più o meno coscienti della nostra stessa vita. La scenografia è costituita da un cubo centrale, le cui pareti, spostate e direzionate, costituiscono una casa, un ambiente familiare, all’interno del quale la violenza, fisica e psicologica, avviene da entrambe le parti, in una possessività sviluppata per disperazione.

 “Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti – diceva Franca Rame – È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca. Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura. Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido… Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani (Franca Rame per Vanity Fair).

Coppia aperta, quasi spalancata, solo se si tratta di uomo però, questo dice la stessa attrice nel suo personaggio: appena la donna inizia ad avvalersi delle proprie legittime libertà, ecco che l’uomo impazzisce, in preda ad istinti primordiali, in un carattere quasi primitivo. I riflettori non si pongono quindi solo su attori apprezzati e conosciuti o su coloro che prima di questi hanno esercitato questo tipo di teatro. I riflettori, chiedono al pubblico l’attenzione verso un tema che, dopo anni e molte battaglie, risulta essere ancora estremamente caldo e delicato, macchiato di un rosso acceso, lo stesso che sgorga dalle ferite di ogni donna, tagliata profondamente dalla lama della violenza. Le risate non mancano; eppure, vedere una donna, su un palco, in preda ad azioni suicide crea nel pubblico un atto di consapevolezza. Come faccio a saperlo? Davanti a me ci sono donne, che colpite da profondi ricordi si irrigidiscono ed eliminano qualsiasi contatto fisico con l’uomo al proprio fianco, altre invece, pervase da un sentimento positivo, appoggiano la propria testa sulla spalla del compagno, che con delicatezza dona un bacio, sulla fronte. I gesti parlano, così come i silenzi, ed arrivano dritti al cuore, come pugnali, armi bianche, macchiate di sangue. 

Rossella Cutaia

regia Alessandro Tedeschi
scenografia Katia Titolo
costumi Francesca di Giuliano
musiche Setti Pasino
luci Alessandro Barbieri
aiuto-regia Rachele Minelli
fonico Gianluca Meda
macchinista Raffaele Basile
foto di scena e grafica Manuela Giusto
organizzazione Marcella Santomassimo, Luisa Di Napoli
amministrazione Morena Lenti, Riccardo Rossi
produzione Infinito Teatro, Argot Produzioni

DENTRO. UNA STORIA VERA, SE VOLETE – GIULIANA MUSSO

UNA NITIDA SPORCA VERITÀ

Squilla un telefono per qualche secondo, poi una voce registrata: «Vi siete spaventati? Pensavate fosse il vostro telefono, vero? Ecco, ricordatevi di spegnerlo» e un sorriso divertito da parte di tutto il pubblico del Teatro Astra. Inizia così lo spettacolo Dentro di cui Giuliana Musso è attrice, drammaturga e regista. Un’introduzione simpatica a un esercizio teatrale che invece vedrà uscire gli spettatori tutto fuorché alleggeriti. 
Un pugno nello stomaco. Una verità che scuote.

Il palco si tinge di rosso: le sedie, l’illuminazione, il pavimento, tutto è rosso. Rosso è il simbolo della lotta alla violenza di genere, rosso il volto della rabbia provocata dall’ingiustizia, rosso è un urlo che non si censura più, che vuole farsi sentire.

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Dialogo con Roberto Tarasco, inventore della scenofonia. «Come un rabdomante trovo le luci e i suoni giusti per la scena»

La mia passione per il lavoro di Gabriele Vacis dura dal 2016, da due lezioni folgoranti, di cui ricordo ogni dettaglio.
Ricordo come entrò nell’aula, attraversando il grande spazio vuoto in silenzio, fino a raggiungere l’unica sedia della stanza, in mano l’Amleto tradotto da Cesare Garboli. Noi seduti per terra, attorno a lui.
Ricordo come ci mostrava le casse armoniche naturali del corpo umano, facendosi passare la voce dal naso, al diaframma e anche dietro nelle spalle. Me lo ricordo illustrarci la differenza tra tono, volume e ritmo, aggiungendo: «e state attenti alla manomissione delle parole. Nei talk show, quando dicono abbassate i toni si riferiscono al volume » e così poi ci dimostra come si può tenere una nota acutissima a un volume bassissimo.
Me lo ricordo citare Aldo Busi – con la veletta – che dice: «La letteratura è ritmo». Me lo ricordo mentre ci fa ascoltare l’Aria dalle Variazioni Goldberg suonata da Glenn Gould, prima negli anni’50, velocissima, e poi più lenta, nell’incisione degli anni ’80. «Glenn Gould» ci dice Vacis «incanta il tempo, quando leggete ad alta voce, avete la possibilità di incantare il tempo».
Me lo ricordo mentre tira fuori Il piccolo principe e parla dei lagami che si possono creare tra chi legge e chi ascolta; me lo ricordo mentre legge l’incipit de Il profumo, di Süskind, e dice: “La lingua è un’orchestra”. Me lo ricordo, il secondo giorno, quando ci ha preparati alla lettura ad alta voce, mostrandoci come si abita lo spazio e il tempo, come si sta in relazione con lo sguardo. Mi ricordo l’emozione, dopo quella lezione, di come abbiamo applaudito con le lacrime agli occhi, mentre lasciava l’aula.
Due lezioni intensissime che non bastavano a contenere il lavoro di una vita; volevo saperne di più.
Così l’ho cercato, e l’ho seguito il più possibile.
La prima cosa che ho imparato è che il suo teatro si declina solo al plurale, dagli esordi con Laboratorio Teatro Settimo, addirittura le regie dei primi lavori sono regie collettive. E se qualcosa ho capito del modo in cui lavora Vacis, un mistero per me rimaneva il processo creativo del suo sodale che lo accompagna dalla prima ora, Roberto Tarasco.
Tarasco si occupa di Scenofonia. Volevo saperne di più, e gli ho proposto di fare una chiacchierata assieme, mentre i PEM si preparano alla ripresa di Antigone e i suoi fratelli, che ha debuttato lo scorso anno alle fonderie Limone.
Tarasco è energico, le frasi sempre vitali, ama raccontare, ma prima centra il cuore della questione, senza troppi giri di parole.

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HANDLE WITH CARE – FUNA

Archivio emotivo di memorie mai vissute

Nell’ambito della seconda edizione del Nice Festival Torino, con una fitta programmazione durante l’intero mese di dicembre, è andata in scena la prima nazionale dello spettacolo Handle with care del collettivo femminile FUNA presso il Café Müller, teatro polivalente nel centro di Torino. Il festival propone una selezione di lavori di artisti e compagnie di calibro internazionale che spaziano dal circo al teatro, fino alla danza e alla musica dal vivo. Il tema di quest’anno è quello dell’identità e delle differenze, che trova nel circo contemporaneo la massima espressione dell’autenticità: concetto molto presente nella ricerca di FUNA. Il collettivo, nato a Napoli nel 2018, si muove tra la danza e il circo contemporaneo, le discipline aeree, la danza verticale e il teatro fisico al fine di ampliare i confini espressivi nel rapporto tra corpo, voce e spazio. Le performance sono spesso concepite per spazi scenici non convenzionali e outdoor come musei, luoghi pubblici, aree ex-industriali.

Dal dialogo con le tre coreografe ed interpreti Maria Anzivino, Ginevra Cecere e Viola Russo, è emerso che questo primo studio è stato concepito e pensato come un site specific per gli spazi del Café Müller a seguito di un problema tecnico che ha ostacolato la messa in scena del progetto precedentemente proposto.

“Avevamo immaginato di portare tutt’altro, una carrucola umana a una corda in tre, ma trovate nello spazio abbiamo capito che non era realizzabile e ci siamo reinventate facendoci ispirare dallo spazio” (Ginevra Cecere)

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SPETTATORE CONDANNATO A MORTE

La rappresentazione teatrale Spettatore condannato a morte avviene in un luogo suggestivo.  Ci troviamo a San Pietro in Vincoli, un ex cimitero, nello specifico in una chiesa sconsacrata. Ci accoglie un giardino esteso che guida i nostri passi verso la biglietteria: una donna, attenta e gentile, dopo averci dato i nostri biglietti, ci indica un tavolo dove farci servire delle bibite calde e dei dolcetti. L’atmosfera inizialmente fredda, comincia a riscaldarsi, ci sono dei portici, arredati con poltrone, tavolini ed altri arredi domestici; in fondo, il cimitero è una casa per tutti. Un’altra ragazza ci accoglie in un graditissimo tepore, un grembiulino blu le fascia la vita e i suoi capelli ricci, scendono delicatamente sulle spalle. Un biglietto della lotteria finisce nelle nostre mani “non perdetelo, vi servirà dopo per un’estrazione”. I nostri biglietti non hanno segnato il numero del posto, la coda per entrare nella chiesa è lunga e trepidante. Attendiamo. Scattano le 19 in punto. Un ragazzo, alto e dal viso valorizzato da un baffo, ci strappa i biglietti e ci fa entrare. I posti sembrano distribuiti casualmente, eppure, una signorina ci guida attentamente: siamo disposti in semicerchio, ricorda un anfiteatro, come fosse un rimando al teatro antico.

“Che entri il giudice”, siamo in una corte di giustizia e davanti a noi, con toghe nere, passo deciso e voce altisonante si dispongono un procuratore, un cancelliere ed un giudice appunto. Dalla regia di Beppe Rosso nasce il riadattamento del testo di Matei Visniec, un lavoro dagli intrecci notevoli e complessi, interpretato da attori professionisti e da alcuni  partecipanti ad un precedente laboratorio dedicato allo spettacolo, quelli che saranno i testimoni, la donna gentile della biglietteria, la ragazza dal grembiulino blu e dai capelli ricci e lo strappatore di biglietti dal baffo prominente. La performance attoriale è intrisa di improvvisazioni, equivoci e incomprensioni, la risata del pubblico si scatena incontrollata e talvolta quella degli stessi attori. Un dettaglio peró che rompe un po’ la magia della pièce teatrale, distogliendo l’attenzione dal testo e dall’importante messaggio che vuole trasmettere. La scenografia è mobile e dinamica come lo stesso spettacolo, il legno la fa da padrona. Il protagonista è il pubblico ed in particolare uno spettatore che entra nell’occhio del ciclone della performance teatrale. A tutti i costi questo spettatore deve essere condannato a morte, le figure giudiziarie chiedono aiuto al pubblico per poterlo condannare, un pubblico che si manifesterà curioso e silenzioso seppur divertito. Il testo di Visniec vuole raccontare di come la giustizia, spesso, si perda nella delirante ricerca di un colpevole senza restituire la reale importanza della verità.

Quanto è infatti necessario trovare un capro espiatorio nella società odierna? E’ altrettanto importante la scoperta della verità, del movente, di un perché? No, non lo è, l’esigenza umana di attribuire un volto alla rabbia e all’odio è naturale, la verità  è invece una ricerca razionale, tipica di una civiltà intelligente, senza pregiudizi. Noi però siamo chiamati a giudicare e in uno scambio tra testimoni, pulito, veloce e dinamico, osserviamo, senza agire, il compimento di quella che sembrerebbe un’ingiustizia. “Forza uccidetelo, dai, uno di voi, si alzi e prenda questo fucile, uccidetelo”, il pubblico è talvolta confuso, quasi nessuno risponde alle sollecitazioni degli attori: chissà, forse perché sappiamo di essere ad uno spettacolo. L’uomo imputato resta in scena, in un angolo, seduto su una sedia, protagonista consapevole seppur non preparato, complice di un equivoco che spinge il pubblico a chiedersi continuamente se sia attore o spettatore, ebbene, ecco la risposta.

Come si è sentito?

Beh, sicuramente è stato per me, spiazzante

Sentiva l’impulso di reagire? Se si, perché non lo ha fatto?

Si, sentivo l’impulso di reagire, se non mi avessero detto di non fare nulla, probabilmente mi sarei inventato qualcosa.

E cosa avrebbe fatto?

 Avrei avuto voglia di sparargli.

Il pubblico siede sul liminale tra finzione e realtà, un confine difficile da stabilire, nella vita come in teatro. Quello che mi ha sollecitata mentre le battute scorrevano una dietro l’altra è stata la volontà di scoprire il pensiero degli attori, in particolare quello del giudice, presente in tutte le scene. 

Ti sei divertito?

Si, molto, sarebbe stato un problema fosse stato il contrario.

Come è stato il rapporto con il regista nella costruzione di uno spettacolo dalla sceneggiatura così articolata?

Devo dire difficile, abbiamo però trovato un ottimo compromesso.

Quanto è importante il silenzio del pubblico ?

 In questo spettacolo, come in tanti altri, è fondamentale, scandisce il ritmo, come fosse un’armonia musicale.

Quanto è stata importante l’improvvisazione? 

Fondamentale, direi.

Quando chiedevate reazioni dal pubblico, sapevate già non sarebbero arrivate? Oppure non avete avuto le giuste risposte alle vostre sollecitazioni? 

Si, sapevamo già non sarebbero arrivate, fossero arrivate le avremmo sicuramente gestite con l’improvvisazione ma ritornando sempre alla sceneggiatura originale.

Porre queste domande e avere delle risposte ha chiarito tante mie perplessità nate durante lo svolgimento della pièce teatrale. Uno spettacolo che, a mio avviso, ha un potenziale incredibile, seppur per certi versi ancora latente. C’è però da specificare che questo è uno “spettacolo partecipato”, in cui solo 4 attori sono professionisti, le altre 25 persone intervenute in scena sono invece cittadini, reclutati per il laboratorio condotto da Beppe Rosso e Yuri D’agostino. Mi sento dunque di fare luce su questo “dettaglio” per evidenziare il grande lavoro fatto dalla regia e dall’aiuto regia . La tematica trattata, è infatti, estremamente attuale e ci chiede di osservare noi stessi dall’interno, una piccola società racchiusa in un ex spazio sacro, che ci porta ad una profonda analisi di coscienza, in fondo, come diceva Friedrich Nietzsche “dovremmo chiamare ogni verità falsa, se non la abbiamo accompagnata da almeno una risata”.

Rossella Cutaia


CREDITI

di Matei Visniec
traduzione Debora Milone e Beppe Rosso
Adattamento Beppe Rosso e Lorenzo De Iacovo
aiuto regia Yuri D’Agostino
regia Beppe Rosso
con Lorenzo Bartoli, Francesco Gargiulo, Andrea Triaca, Angelo Tronca e con venticinque cittadini nel ruolo dei testimoni
scene e luci Lucio Diana
riprese video Eleonora Diana
tecnico di compagnia Adriano Antonucci
sound Massimiliano Bressan
costruzione scene Marco Ferrero
produzione A.M.A. Factory

PRIMA NAZIONALE

Spettacolo programmato in collaborazione con Piemonte dal Vivo nell’ambito del progetto Corto Circuito

LA TRILOGIA DELLA GUERRA PT. 2 – di GABRIELE VACIS con PEM IMPRESA SOCIALE

Antigone e i suoi fratelli

Quel grande sentimento di “crisi della presenza”, per definirla alla Sartre, con cui si chiude Sette a Tebe, viene rievocato e messo in discussione anche in Antigone e i suoi fratelli, in particolare nel monologo scritto e interpretato da Lorenzo Tombesi di cui riportiamo un estratto:

Sono davvero invidioso dei giovani ucraini… gli è capitata la guerra e non hanno altra scelta che prendere in mano il fucile – ho voglia di guardare mia madre dall’alto disperarsi a causa mia, ma non per una multa per eccesso di velocità! Ho invidia di quelli che dall’Africa partono e non sanno dove vanno! Dico queste cose e allo stesso tempo mi accuso – mea culpa mea culpa mea culpa ma come faccio a non subire il fascino di chi sceglie di morire? Non voglio più avere tutte queste reti, tutte queste possibilità, tutte queste alternative! Come faccio a scegliere se c’è tutta questa scelta?

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BLACKSTAR – FABRIZIO ARCURI

Lo spettacolo inizia che le luci nel teatro sono ancora accese, una donna scende dalle gradinate e si rivolge a un ragazzo con la maschera da clown che è in piedi sul palco e la guarda:  lui è un clochard che canta davanti a un supermercato, lei una ricca professoressa universitaria che si è innamorata di lui.

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Laboratorio “Luci sulle Albe” – Ermanna Montanari e Marco Martinelli

“Io sono noi”

“Voi siete come asini, con orecchie grandi per ascoltare” . Ermanna Montanari

Noi, forti, testardi, instancabili animali da palcoscenico.

In un’incredibile unione collettiva, si sviluppa il laboratorio con Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino dal 23 al 25 novembre. Definito da loro stessi un teatro alchemico, il loro percorso artistico ha l’obiettivo di rendere capace ognuno di noi di guardarsi dentro attraverso l’arte del teatro, superando limiti e confini, guidati da quella innocente selvatichezza, di cui il dio Dioniso si fa portatore. Dedicato a quest’ultimo è ogni laboratorio, la sua presenza aleggia nell’aria con una potenza percepibile, nel tentativo, chissà, di guidare ogni persona persa in sé stessa, verso la strada migliore, partendo dal teatro delle origini.  Disposte in cerchio, più di quaranta persone formano un coro perfetto, il corifeo, Marco Martinelli è al centro del coro, davanti ai nostri occhi. Un teatro dalle connotazioni rituali, il timore e la pudicizia frenano i nostri istinti, il corifeo però, come fosse l’incarnazione di Dioniso stesso, ci libera e diveniamo d’improvviso satiri. Vige una sola regola, seguire tutto ciò che il corifeo fa e dice; è vietato pensare, bisogna agire e lasciarsi trasportare, come acqua dalla corrente. Mi sento intorno ad un focolare, le nostre anime bruciano, quelle che all’inizio erano piccole scintille, ora diventano fiamme alimentate dall’ossigeno dei nostri respiri. Le nostre voci riecheggiano in tutta la sala perdendosi l’una nell’altra e diventando una voce soltanto, quella del coro. Inizia il canto. 

     Tutte le cose sotto della luna,

     L’alta ricchezza, e’ regni della terra,

     Son sottoposti a voglia di Fortuna:

     Lei la porta apre de improviso e serra,

     E quando più par bianca, divien bruna;

     Ma più se mostra a caso della guerra

     Instabile, voltante e roïnosa,

     E più fallace che alcuna altra cosa;

Orlando innamorato (1483)

Libro primo

Canto decimosesto

Cantati in ottave, questi versi si trasformano in un inno solenne, l’aurea della fede travolge tutta la stanza, ognuno di noi ci crede, per la prima volta la mia persona si esaurisce in un’altra, non ci sono errori, giudizi, formalità. Siamo tutti umani fatti di docili e aggressivi istinti, controllati solo dall’immenso rispetto che nutriamo l’uno per l’altra. Sconfiggere le proprie paure è la prova più difficile che esista, ognuno di noi, in quel cerchio ha vinto sé stesso per rendere libero qualcun altro. << Vedete, voi quando siete a Teatro, dovete far in modo che il pubblico si senta in questo cerchio con voi, anche se fisicamente siete rivolti verso di loro>> con queste parole Marco Martinelli, ci insegna il segreto più profondo del Teatro delle Albe ovvero il gruppo, l’inclusione, la collettività << io sono noi>>, motto inciso a fuoco sulla pelle di qualsiasi persona abbia lavorato con loro.  Nella vita siamo individualmente attori di ogni nostra scelta, il palcoscenico diventa qualsiasi centimetro di terra calpestato da noi stessi, solo che , nella brama di essere riconosciuti come “migliori attori”, ci dimentichiamo che le costellazioni sono fatte di tante stelle che brillano insieme. Ermanna Montanari e Marco Martinelli, stelle polari e genitori di un teatro governato da una apollinea selvatichezza, ci hanno regalato con questo laboratorio il potere di governare noi stessi, nelle emozioni, negli istinti, nella carne e soprattutto nella voce. Ho cantato il mio nome e quello di tutti coloro che componevano il cerchio, la nostra identità urlata a gran voce poteva essere stonata o intonata, l’importante era che fosse gridata senza paura e con fierezza. Usciti da quelle quattro mura il cuore esplodeva per poi richiudersi in sé stesso, proteggendo tutta la bellezza di quel 23 novembre. Il giorno dopo, stuzzicati dalla curiosità e brulicanti di adrenalina, abbiamo svolto, tutti e quaranta i  “giochi” dettati dal corifeo: << ora, come vi sentite, dovete fare il verso di un animale ed un gesto per accompagnarlo>>, alcune risatine, talvolta di imbarazzo accompagnavano le performances, che tuttavia alternavano serenità e tensione, tutti eravamo coro, tutti eravamo corifei : <<tutte le voci che abbiamo fatto fino ad ora, vi appartengono, ogni vibrazione, suono e tonalità, si perchè voi non siete solo la vostra voce di conversazione, quella che usate tutti i giorni, voi, siete molto di più>>.  Noi siamo molto di più, di tutto ciò che c’è fuori e che ci costringe ad essere in qualche modo diversi dalla nostra vera natura, tra quelle mura siamo liberi da ogni coercizione, possiamo lasciarci travolgere da tutto ciò, che fino ad allora, siamo stati costretti a controllare. I versi, i canti, i balli e i movimenti sciolti, vengono improvvisamente sostituiti da parole, cade il silenzio, versi di poesia vengono letti ed assegnati ad anime affini, ognuno di noi si affanna, seppur con un po’ di timore, cercando di accaparrarsi la poesia che possa valorizzare la vibrazione e la profondità delle nostre corde vocali, ormai allenate, come i polpacci di un calciatore. Tutti hanno un posto, tutti hanno Voce ed ognuno di noi è la voce del compagno, i “giochi” svolti fino ad allora, iniziano ad unirsi come tessere di un puzzle, sotto l’occhio consapevole di Marco Martinelli. Così, disinvolti, divertiti e colmi di emozioni, diventiamo uno spettacolo, Lo spettacolo. Le nostre voci fanno tremare le mura, i nostri sguardi gelano chiunque ci guardi, le nostre carezze riscaldano chiunque ne venga a contatto, i nostri respiri, affaticati, non ci impediscono di ridere, perché siamo liberi, perché siamo felici, perché non siamo soli. Lacrime. Il 25 di novembre è l’ultimo giorno, incomincia lo spettacolo, conosco le poesie di tutti i miei compagni, perché la loro voce è la mia, il nostro corpo a servizio della nostra anima, commuove chi ci guarda. È forte lo so, le nostre voci insieme sono incredibili, sembrano poter muovere il mondo, i miei errori sono gli errori degli altri, dei miei compagni che non mi giudicano ma mi seguono e mi appoggiano rendendo tutto perfetto. Giorgia, Tommy, Alessio, Dario, Flora, Eugenio, Norman, Sia, Alessandra, Sofia, tutti voi, tutti gli altri, eravate solo dei volti che il 25 novembre sono diventati famiglia. Lo sguardo dolce e severo di Ermanna Montanari osservava e imparava per poi intervenire e mutare, come bachi, i bruchi in farfalle. Abbiamo imparato a volare e potremo farlo altre mille volte. Lo spettacolo finisce, con un ballo, una danza rituale che porti fortuna e protegga le nostre anime, inizia il Ballo di San Vito. 

Vecchi e giovani pizzicati, vecchi e giovani pizzicati

Dalla taranta, dalla taranta, dalla tarantolata

Cerchio che prude, cerchio che apre

Cerchio che spinge, cerchio che stringe

Cerchio che abbraccia e poi ti scaccia

Ho il ballo di San Vito e non mi passa

Ho il ballo di San Vito e non mi passa…

                   Vinicio Capossella

Non abbiamo il coraggio di salutarci, non può finire tutto questo, siamo artisticamente figli di professionisti nell’arte dell’anima, del teatro, siamo fratelli e sorelle poiché abbiamo avuto il privilegio di essere noi stessi. 

<<Ogni volta che entri in scena devi scavare il più possibile, per toccare l’anima del teatro>>  Ermanna Montanari

                                          Rossella Cutaia

progetto a cura di Armando PetriniMariapaola PieriniFederica Mazzocchi (Università di Torino, Dipartimento Studium, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, DAMS e CAM) 

in collaborazione con Albe / Ravenna TeatroFondazione Teatro Ragazzi e Giovani OnlusMuseo Nazionale del Cinema di Torino

comitato organizzatore: Fabio Acca (DFE), Leonardo Mancini (Studium), Federica Mazzocchi (DFE), Armando Petrini (Studium), Laura Piazza (Studium), Mariapaola Pierini (Studium), Elio Sacchi
(Studium), Matteo Tamborrino (Studium), Paola Zeni(Studium).