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XXII Festival delle Colline Torinesi , Conferenza Stampa

Mercoledì 19 aprile presso il Goethe-Institut ha avuto luogo la conferenza stampa di presentazione della XXII edizione del Festival delle Colline Torinesi, un appuntamento da non perdere dedicato alla creazione teatrale contemporanea. Dialogano sull’argomento: Jessica Kraatz Magri, direttrice dell’Istituto Culturale della Repubblica Federale di Germania, Sergio Ariotti, direttore del Festival, Antonella Parigi, assessore della regione e Barbara Graffino (Compagnia di San Paolo).

Qui si racconta e si anticipa un’edizione tutta dedicata alla donna, che porta alla ribalta moltissime autrici (come Sasha Marianna Salzmann, Mirjana Bobic Mojsilovic, Milena Costanzo..), registe (tra le quali Paola Rota, Daniela Nicolò, Fiona Sansone, Chiara Guidi..) nonché interpreti e performer di altissima qualità. E, come se non bastasse, di una donna è anche il segno d’artista del Festival 2017: parliamo di Marisa Mertz, artista italiana di altissimo talento, per di più unica rappresentante femminile della corrente dell’Arte Povera. Ventisette sono le compagnie che presentano i loro lavori, alcuni dei quali sono in prima assoluta (altri in prima nazionale o quantomeno regionale), con nomi di spicco della creazione contemporanea. Diciannove i giorni a disposizione (4/22 giugno).
Italia, Germania, Grecia, Serbia, Somalia e Libano sono invece i Paesi ospiti da cui provengono gli spettacoli internazionali.
Segio Ariotti ha guidato i presenti nella lettura del programma, attraverso un breve ma efficace focus sugli spettacoli, raggruppabili per famiglie tematiche. Delle ventisette rappresentazioni complessive, sei presentano al centro dell’attenzione poetesse e letterate. Tra queste vanno ricordate: Lettere della notte, che vede l’incontro tra Chiara Guidi e Nelly Sachs, scrittrice e poetessa tedesca di origine ebraica, Premio Nobel 1966; L’amica geniale, che prende spunto dal notissimo ciclo di romanzi dell’autrice senza volto Elena Ferrante; Il cielo non è un fondale, un atto drammatico apparentemente “senza trama e senza finale” che prova a restituirci i continui spostamenti di senso tra quello che noi siamo e quello che ci succede intorno; Emily di e con Milena Costanzo, seconda parte del progetto su Sexton, Dickinson e Weil; Amelia la strega che ammalia and friends (dove Amelia è Amelia Rosselli) di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Corale numero uno, di e con Elena Bucci, che racconta di una singolare e sventurata eroina zingara, Bronislawa Wajs (nome d’arte Papusza), poetessa anch’essa, liberamente tratto dal testo Sputa tre volte di Davide Reviati, uno dei più interessanti autori di graphic novel internazionale.
Hanno invece a che fare con l’identità di genere, tema principe dell’edizione passata, dal quale il festival non sembra essersi ancora liberato del tutto –continua a spiegare il direttore- , lo spettacolo dei Motus, che ritornano a furor di popolo con Raffiche, reinvenzione di una pièce minore di Jean Genet, in una versione provocatoriamente al femminile; Pedigree, messa in scena di un testo inedito, firmato da Valeria Raimondi e Enrico Castellani, dedicato alle famiglie arcobaleno; 50 Grades of Shame, lo spettacolo del collettivo femminile tedesco She She Pop, appuntamento clou del cartellone 2017; Masculu e Fiammina di e con Saverio La Ruina, che interpreta un uomo che racconta se stesso e la propria identità sessuale davanti alla tomba della madre, e infine un performer greco, Euripides Laskaridis, il quale con Titans, nome dello spettacolo, propone le sue trasformazioni, cercando di comprendere perché facciamo ciò che facciamo e di cosa abbiamo realmente bisogno.
Un altro gruppo di titoli combina teatro e musica. Allora nominiamo: Abebech-Fiore che sboccia fiore che sboccia, spettacolo di Saba Anglana, cantante italo-somala, dedicato al sacro nella cultura d’Etiopia, con un personaggio meraviglioso di nonna sullo sfondo; Personale Politico Pentothal che vede in scena Marta Dalla Via, accompagnata dal vivo da cinque rapper; The black’s tales tour di Licia Lanera, al dancing neo-liberty Le Roi Music Hall, la cui architettura, particolare e suggestiva venne progettata nel ’59 dal famosissimo architetto Carlo Mollino.
Infine l’ultima famiglia tematica, che raccoglie tra gli spettacoli del cartellone quelli che presentano interessanti legami con il cinema. Tra questi: Roberta va sulla luna, Ifigenia in Cardiff, con le regia di Valter Malosti, Pixelated Revolution, So little time, Elephant woman, Zoo(m)out, ed infine il lavoro dei fratelli De Serio, Stanze/Qolalka, pronto ad anticipare il nuovo triennio dedicato alle diaspore. Un altro percorso che si completa al Festival è quello di Elvira Frosini e Daniele Timpano. I due presentano Acqua di colonia che affronta il tema del colonialismo italiano. Da non dimenticare, ovviamente, i molti giovani artisti, in relazione ai quali menzioniamo: Diario di una casalinga serba, tratto dal romanzo omonimo di Mirjana Bobic Mojsilovic, L’inquilino, Human animal, Educazione sentimentale. Un cenno finale naturalmente va alla drammaturga prescelta: Sasha Marianna Salzmann, la quale porta in scena Lingua Madre Mameloschn, il cui spettacolo fa parte del progetto Fabulamundi.Playwriting Europe della Pav di Roma ed è coprodotto dallo Stabile di Genova.

Ma il festival non si riduce al cartellone. Al contrario, porta con sé interessanti appuntamenti, approfondimenti ed esposizioni, che arricchiscono e coronano l’appuntamento torinese. Prosegue il progetto “Mezz’ora con..” a cura di Laura Bevione, che consiste in incontri con gli artisti del Festival (e non solo), al quale si aggiungono “Un teatro pieno di interrogativi”, tre incontri per ricordare il Convegno di Ivrea, che nel giugno 1967 radunò alcuni protagonisti del cambiamento teatrale allora in atto e “Cinema in scena” in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, che prevede, come ogni anno, proiezioni abbinate agli spettacoli in cartellone. Non solo. Ritorna l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori.

Per concludere, e a voler sottolineare la forte transculturalità che permea il Festival e che quest’ultimo a sua volta effonde e restituisce, uso l’espressione inglese “last but not least”, per parlare della complicità necessaria e vitale dello spettatore, al quale si richiede, come ogni anno, curiosità e partecipazione. Per i più affamati e impazienti segnaliamo allora le due settimane speciali (20/4-3/5) durante le quali i biglietti possono essere comprati online a prezzi scontatissimi. In alternativa i punti vendita dal 20 aprile sono il Teatro Astra, Rivendite vivaticket, infopiemonte-Torinocultura, vendita serale (online: www.vivaticket.it).
Vi aspettiamo!

@Contatti (per info e abbonamenti):+3901119740291; +393462195112; +info@festivaldellecolline.it
@Luoghi: Le Roi Music Hall (Via Stradella 8), Scuola Holden (Piazza Borgo Dora 49), Polo del ‘900 (Corso Valdocco ang. Via del Carmine), Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Ristorante Marechiaro (Via San Francesco d’Assisi 21), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Teatro Marcidofilm!, Serming- Arsenale della Pace (piazza Borgo Dora 61), Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Le Petit Hotel.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

La sacralità della vita nel teatro civile. Pasolini e la morte: un rito culturale

“È teatro sociale”, esclama Mauro Avogadro, uno degli attori dello spettacolo Pasolini e la morte: un rito culturale, dopo il debutto al Teatro Baretti di Torino, mercoledì 15 Marzo scorso.

Con una sigaretta in bocca, il sorriso di chi è stanco ma soddisfatto, scambia qualche parola con me e altri curiosi che vogliono sentire qualcosa in più su uno spettacolo che ha lasciato a tutti qualcosa su cui riflettere. “Non esiste più” continua Avogadro, “ma io credo che sia essenziale. I greci hanno iniziato a fare teatro per questo. Io in questo spettacolo inizio a parlare con calma, perché gli argomenti sono importanti e non voglio spaventare lo spettatore. Poi cerco di evocare qualcosa su cui riflettere tutti insieme”. Ed è questo che lui e i suoi due colleghi hanno fatto, con l’aiuto di una troupe fantastica. Ma facciamo adesso un passo indietro.

Mauro Avogadro

Il Teatro Baretti è intimo, raccolto, un luogo dove la magia del teatro non fa fatica a materializzarsi. Questa volta però, gli spettatori entrando non si trovano di fronte a un sipario chiuso, curiosi di sapere cosa nasconda. Il sipario è aperto, gli attori sono già sulla scena e camminano immersi nei loro pensieri, mentre il resto dei collaboratori sistema le ultime cose. La quarta parete viene quindi abbattuta, noi sappiamo che quelli sono gli attori che, attraverso le loro parole, ci faranno intraprendere un viaggio in cui lo spettatore non potrà essere passivo e coccolato, e sedendoci non possiamo far altro che accettare la sfida.

Quando le luci si abbassano, gli attori attirano la nostra attenzione con le loro bellissime voci e subito comprendiamo che la storia è semplice: un regista (Mauro Avogadro) vuole girare un documentario su Pasolini. Egli stesso interpreterà lo scrittore che risponde alle domande di un giornalista (Gianluca Gambino), che sembra incarnare un po’ l’idea dell’”uomo medio” tanto odiato da Pasolini e bersaglio di Orson Welles ne La ricotta, mentre Lorenzo Fontana interpreta Pasolini durante alcuni momenti di stasi della narrazione.

Lo svolgimento e i temi dello spettacolo però sono tutto tranne che scontati: partendo dall’ipotesi che Pasolini sia stato coscientemente regista del film della sua vita, viene ripercorso sinteticamente il montaggio di esso, attraverso stralci di un intervista lasciata a Duflot e alcune sue poesie. Del resto, come mi suggerirà più tardi Avogadro “si parla solo della morte di Pasolini e del mistero attorno ad essa. Ma è importante parlare dell’uomo che è stato, perché quello che ha scritto è incredibilmente attuale”.

Ma andiamo con ordine: gli argomenti toccati dall’intervista sono molti ed eterogenei. Il giornalista e Pasolini sono seduti su due sedie bianche, che contrastano con il nero dello sfondo e dell’impalcatura. Su quest’ultima si muove l’alter-ego di Pasolini, al quale è affidata la declamazione delle poesie, accompagnate da proiezioni di immagini o di fotogrammi dei suoi film. In particolare questi momenti creano un’atmosfera sospesa, grazie anche all’uso della musica e, mentre la voce profonda e ferma di Avogadro sembra dare vita ai pensieri più profondi di Pasolini, la voce sottile e drammatica di Fontana recita le poesie con un dolore, una sofferenza e una consapevolezza che presagiscono già il terribile epilogo da tutti conosciuto.

Pasolini

Uno dei primi temi trattati è quello della sacralità della vita, molto caro a Pasolini: egli affermava infatti che tutto è santo, ma la santità è al tempo stesso una maledizione. Diceva di avere nostalgia del sacro perché rimaneva legato agli antichi valori, tanto che sperava che venisse costruita una democrazia senza cancellare il sentimento del sacro.

Successivamente viene trattato un argomento attuale più che mai, l’immigrazione, parlando di un’integrazione necessaria alla convivenza nelle città, perché se si accetta il “colore” di quelli che vogliono entrare con “innocente ferocia” nella nostra società, potremo arricchirci grazie alla loro “sacra tribalità” e così raggiungere un effettivo progresso.

Purtroppo però Pasolini si era già reso conto che non solo essi spesso vogliono occidentalizzarsi e non mantenere la loro cultura, ma anche che la maggioranza degli italiani è diventata di una “intolleranza violenta”, persone che non vogliono ricordare la povertà che li aveva caratterizzati.

Memorabile e commovente è stato sicuramente il momento in cui è stata proietta una parte de La ricotta, ovvero quella della citazione figurativa della Deposizione di Pontormo (1526-28).

In questa occasione l’intervistatore chiede a Pasolini della sua misoginia ed egli risponde di non essere affatto misogino, ma di “raffaellizzare le donne, di voler donare loro una forte aura di sacralità”.

Questo in particolare è stato un momento in cui il pubblico ha tenuto il fiato sospeso e si è ritrovato a riflettere su tutte le tematiche che lo spettacolo ha tirato fuori e che sono in realtà insite in ognuno di noi, solo che a volte serve un po’ d’aiuto per ragionare sulla realtà.

ricotta_deposizione

 

A spettacolo quasi finito, in un momento di buio dominato dalla musica, Fontana-Pasolini si spoglia, rimanendo nudo in scena: questo gesto vuole forse alludere alla morte dello scrittore, interpretando la vita in maniera circolare e quindi la fine di essa come un ritorno al ventre materno. Dopo questo gesto, infatti, l’attore si rannicchia su una poltrona, coperta da un telo bianco, in posizione fetale e recita un’ultima poesia, con una certa quiete e serenità. Questa tranquillità è sottolineata dall’uso della luce calda che crea quasi un’immagine caravaggesca di un uomo che nella morte ritrova una condizione di umanità.

L’ultima battuta è affidata ad Avogadro che nel frattempo è salito sull’impalcatura per annunciare agli spettatori di sapere che “siamo tutti in pericolo”, una delle frasi dell’ultima intervista che Pasolini ha rilasciato proprio il giorno prima di morire. Sicuramente un finale che ha fatto correre a tutti un brivido lungo la schiena, anche a coloro che non conoscevano bene le vicende e i pensieri dell’intellettuale, ma hanno seguito con attenzione lo spettacolo.

Gli attori hanno mostrato in scena di aver profondamente interiorizzato la lezione di Pasolini e incontrando successivamente Avogadro dietro le quinte ne ho avuto la conferma, poiché ha rivelato di averlo da sempre amato e studiato e che sentiva fortemente l’esigenza di realizzare uno spettacolo non di Pasolini, ma su Pasolini.

Da segnalare la scenografia, essenziale ma ben costruita, che in realtà è parte integrante dello spettacolo proprio perché su alcune sezioni specifiche vengono proiettate non solo scene da film pasoliniani ma anche riprese dal vivo della performance da angolazioni invisibili allo spettatore, ricordando proprio i documentari pasoliniani; scenografie che sottolineano anche la poliedricità degli argomenti trattati. Inoltre, tramite le riprese proiettate in real-time, si è potuto sottolineare ancora di più la forte contemporaneità degli argomenti, ma anche della figura stessa di Pasolini in quanto uomo.

Le luci sono state usate in modo da sottolineare la drammaticità degli argomenti e dei momenti rappresentati.

Tutti questi elementi hanno richiamato l’attenzione di un pubblico che di certo ha avuto molto da metabolizzare ed è stato così invitato a riflettere anche sulla nostra attualità attraverso le parole di un uomo davvero contemporaneo e che rimarrà per sempre nella Storia.

di Alice Del Mutolo

 

“Pasolini e la morte: un rito culturale”

Drammaturgia di Ola Cavagna

Con Mauro Avogadro, Lorenzo Fontana, Gianluca Gambino

Regia e allestimento Ola Cavagna, Ginevra Napoleoni, Massimiliano Siccardi

Regia video live Umberto Sareaceni

Musiche a cura di Tommaso Ziliani

Luci Alberto Giolitti

Associazione Baretti

 

“Mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”: Natale in casa Cupiello

Martedì 10 Gennaio 2017 debutta al Teatro Carignano di Torino “Natale in Casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, con laregia di Antonio Latella.

La tragicommedia è stata scritta nel 1931 e De Filippo la porta in scena con la sua compagnia fino agli anni Settanta, apportando continue modifiche. Attraverso la figura del protagonista Luca Cupiello, che cerca di riunire la famiglia ispirandosi all’ideale del presepe, che diventa per lui quasi un’ossessione, l’autore vuole mettere in evidenza l’impossibilità di ricreare il nucleo familiare, ormai sfasciato, solo durante una ricorrenza annuale come il Natale.

Antonio Latella supera il naturalismo della rappresentazione di De Filippo, rivolgendosi al pubblico attraverso simboli e invitandolo a immaginare il contesto in cui si svolge la storia. Il sipario si apre rivelando una disposizione lineare e simmetrica degli attori, con al centro il protagonista, Luca Cupiello, interpretato da Francesco Manetti, vestito di bianco, diversamente dagli altri personaggi che indossano abiti di tonalità scure e con gli occhi coperti da una mascherina. Al segnale del bastone di Luca, immagine della malattia incombente, tutti i personaggi iniziano a camminare verso il proscenio mentre dietro di loro viene calata una grande stella cometa, che rimanda al presepe tanto amato dal protagonista, e unico oggetto della scenografia presente nel primo atto. Latella utilizza pochi oggetti di scena, ma fortemente simbolici. Infatti ad ogni personaggio nel corso del secondo atto verrà attribuito un “pupazzo” raffigurante un animale che lo rappresenta (ad esempio Nicolino ha un maiale che rimanda ai suoi comportamenti rudi verso la moglie Ninuccia), ad eccezione di Concetta, moglie di Luca, che traina un carro grande quanto il peso delle vicende familiari che ricadono tutte sulle sue spalle. Nel terzo atto invece l’oggetto predominante è una grande culla, all’interno della quale si trova Luca ormai in fin di vita, circondato dai familiari disposti a formare il presepe, che richiama il tanto agognato sogno familiare del protagonista, che a quanto pare può realizzarsi solo in prossimità della morte. È chiaro dunque che Latella riduca la scenografia lavorando su immagini metaforiche che diventano macroscopiche.

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Tornando al primo atto, dopo il posizionamento della stella cometa, gli attori, sempre su segnale del bastone di Luca, iniziano a recitare coralmente e fedelmente le didascalie mentre vediamo Luca che muove la mano come se stesse scrivendo: Latella sembra così voler sottolineare la fedeltà al testo eduardiano immettendo eccessi di teatralità, ad esempio quando gli attori pronunciano, all’interno delle battute, anche gli accenti (gravi, acuti o circonflessi) accompagnandoli con movimenti che ricordano passi di danza. Inoltre Luca “scrive” l’opera mentre si sta compiendo quasi per ricordare al pubblico la presenza dell’autore, poiché la storia dello spettacolo è un patrimonio di confronto che non deve essere dimenticato tanto che, nel secondo atto, risuona costantemente la voce di Eduardo De Filippo “mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”, per rammentare la sua presenza persistente, mentre gli attori si guardano spaesati attorno, come per cercarlo.

Da segnalare sono sicuramente due aspetti: in primo luogo l’uso sapiente delle luci, statiche per quasi tutto lo spettacolo e che mettono così in risalto l’intensità delle azioni e dei sentimenti, che diventano poi intermittenti e artificiose a metà del secondo atto, dove la tensione accumulata a causa del triangolo amoroso che vede protagonisti Nicolino, Ninuccia e Vittorio, esplode in una danza frenetica durante la quale risuonano versi di animali come in una “giungla” di conflitti familiari. Nel finale le luci tornano a creare un’atmosfera cupa, che rimanda all’incombenza della morte, e forti chiaroscuri che rendono la scena come un dipinto. In secondo luogo, gli attori sono molto abili a passare dall’italiano delle didascalie al dialetto napoletano delle battute e dei dialoghi repentinamente, in particolare possiamo mettere in evidenza la bravura di Monica Piseddu, che interpreta Concetta.

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È rilevante il cambiamento apportato da Latella al finale: il figlio Tommasino uccide, soffocandolo con un cuscino, Luca, con l’approvazione di tutti i presenti, ponendo così fine alle sue sofferenze. Da un lato questo può essere considerato un gesto di amore e pietà nei confronti del padre, nonostante per tutta la vicenda Tommasino si sia dimostrato ingrato e scansafatiche, dall’altro potrebbe anche essere uno spunto del regista per esortare le nuove generazioni a fare tesoro dell’insegnamento della tradizione ma, al contempo, a superarla, rinnovando e sperimentando, facendo così rinascere il teatro.

Alice Del Mutolo
Stefania Pero

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone,
Emilio Vacca, Alessandra Borgia
drammaturga del progetto Linda Dalisi
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino – luci Simone De Angelis – musiche Franco Visioli
Teatro di Roma

 

La notte porta consiglio

Niente di più attuale del testo di Hanoch Levin portato in scena da Andrèe Ruth Shammah, considerato negli anni della sua stesura “scomodo”, il quale affronta una crisi esistenziale tra le mura domestiche avuta dal protagonista Yona Popoch, interpretato da Carlo Cecchi. Una crisi, più di mezza età che coniugale, che porterà a riflessioni filosofiche e a considerazioni sulla vita e sulla morte, quasi preannunciata nelle battute iniziali dal dolore al petto di Yona che si manifesta più volte durante lo spettacolo.

Sipario aperto, letto matrimoniale ben in vista grazie al pavimento inclinato, si spengono le luci ed entra la coppia. Lui, beffardo e duro tanto da definire la moglie un“culo”, lei, Leviva (Fulvia Carotenuto), onesta, come spesso si definisce, e incredula alla reazione improvvisa del marito nel cuore della notte il quale, preso dai pensieri e, apparentemente, dal timore che la moglie lo tradisca, la butta giù dal letto insieme al materasso. Battute comiche si alternano a scene patetiche in cui viene messa a nudo la tristezza e la sofferenza dei personaggi, l’incapacità di comprendere a fondo questa loro vita e ti trovare una scappatoia. I personaggi, infatti, trascorrono più tempo a parlare, a lamentarsi e a insultarsi che ad agire. Leviva minaccia il suicidio ma tenterà sempre e solo di convincere il marito a restare e a invecchiare accanto a lei; Yona proverà ad andarsene di casa per rifarsi una nuova vita senza la moglie, ma nel momento decisivo ecco che sopraggiunge un loro amico, Gunkel (Massimo Loreto), un uomo solo, senza moglie, invidioso di loro. Sarà poi la solitudine di quest’ultimo e la sua infelicità a far cambiare idea a Yona, più che per amore verso la moglie per paura di morire solo. Gli atteggiamenti si invertono: Yona più remissivo, Leviva più audace. E’ lei ora a prendersi beffa del marito, servendosi dello stesso sarcasmo riservatole prima, chiedendo anche sostegno al pubblico, anime dell’aldilà che osservano la loro vita, tra cui si cela anche lo spirito della madre del suo compagno “che se la ride”. Rottura della quarta parete, dunque, così che il pubblico è costretto a vedere la finzione sotto una nuova luce e a guardare meno passivamente, forse un richiamo a Brecht, ben noto per rompere deliberatamente la quarta parete, per incoraggiare il suo pubblico a pensare in modo più critico ciò che stava guardando. Lo spazio del palcoscenico è dominato da Cecchi, quasi mai fermo, il quale trascina il pubblico nel suo sogno di libertà, ma è la voce di Fulvia Carotenuto a prevalere maggiormente, ad attirare l’attenzione del pubblico ed a riportarci con i piedi per terra. Intanto il tempo scorre. Il lavoro di vivere è un testo conflittuale, una commedia crudele e ironica, con battute pungenti. Niente è lasciato al caso come il rumore delle gocce d’acqua: durante l’arco dello spettacolo è possibile udire lo scarico del gabinetto che perde, goccia dopo goccia, come a scandire i secondi che passano, forse un altro modo per farci intuire che Yona ha i minuti contanti.

“Mistero Buffo” in Valsesia

Il sipario si apre e in scena niente, non una sedia, non uno sfondo, nessun elemento scenografico. Dopo alcuni secondi esce Ugo Dighero in maglietta e pantaloni neri, inizia a parlare agli spettatori di quello che vedranno in scena e, ancora prima che inizi veramente lo spettacolo il pubblico in sala è già conquistato.

Mercoledì 18 gennaio Ugo Dighero ha portato sul palcoscenico del Teatro Civico di Varallo, in provincia di Vercelli, due monologhi tratti dalla più celebre opera teatrale di Dario Fo, Mistero Buffo. Lui regista e unico interprete ha saputo calcare la scena brillantemente in entrambi i pezzi: Il primo miracolo di Gesù bambino e La Parpaja Topola . Composto nel 1969, Mistero Buffo è descritto (dallo stesso autore e primo interprete) come una giullarata popolare. Esso, come ci spiega Dighero, è un insieme di monologhi che si ispirano ad alcuni episodi dei Vangeli Apocrifi o a racconti popolari della vita di Gesù. La tecnica di rappresentazione è il grammelot, linguaggio inventato dal Premio Nobel. Esso è un insieme di suoni onomatopeici e di idiomi che assomigliano a diverse lingue o dialetti, i quali in realtà sono inventati. Nella fattispecie i due monologhi presentati hanno una cadenza molto vicina al lombardo, con suoni anche di altri dialetti, in particolare quelli dell’Italia centrale. Il tutto mescolato assieme crea comicità e diverte il pubblico proprio perché sconcerta vedere delle figure sacre o legate alla chiesa in questa veste, per così dire, “terrena”.

«Mi sono arrivate diverse lettere» dice Dighero «non oso immaginare a Dario Fo quante gliene siano arrivate in cui veniva accusato di blasfemia. Io però, fin dalla prima volta che ascoltai questi pezzi rimasi strabiliato e credo che lui abbia trovato un meccanismo straordinario per far empatizzare le persone con le figure sacre, che in genere […] siamo abituati a vedere con una certa distanza. Qui invece ne apprezziamo la profonda umanità, i drammi e le esperienze umane, il che ci svela un aspetto poco conosciuto e estremamente interessante.»

Il ritmo dei due monologhi è incalzante e la parlata è sciolta e spigliata. Il movimento del corpo è fluido e scomposto, non certo paragonabile alla scioltezza di Fo, ma decisamente giullaresco. Dighero pare quasi un bambino che salta, corre per il palco e a volte perde l’equilibrio. L’elasticità e la leggerezza nei movimenti sono dovute anche alla briosa interpretazione di questo attore che, da solo, entra e esce dai vari personaggi con grande maestria e, mantiene sempre, con il pubblico, un contatto diretto spiegando ciò che sta facendo; lo stesso modo in cui, come diceva Fo, i giullari medioevali intrattenevano il loro pubblico nelle piazze. I temi centrali di questi due monologhi sono il potente e il diverso, o forestiero e la difficoltà di integrazione dei nuovi arrivati in una comunità in cui non sanno cosa succeda all’interno, ma di cui vorrebbero far parte ugualmente. Così ne Il primo miracolo di Gesù bambino, che narra, a partire dalla fuga in Egitto, l’infanzia di Gesù, troviamo un episodio che inizia con un divertente sguardo al passato, l’arrivo dei tre re magi al presepe, per poi concentrarsi sulla vita del giovane Jesus a Jaffa, che per essere accettato dagli altri bambini decide di fare un miracolo, far volare con un soffio un uccellino di argilla. Arriva poi il figlio del capo del villaggio, un bambino dispettoso che distrugge tutti gli uccellini e “Palestina”, così viene soprannominato ironicamente Gesù, invoca suo padre Dio. Nella Parpaja Topola invece, il protagonista è un eremita che dopo aver ereditato una grande fortuna, per inganno sposa una giovane donna, l’amante del parroco di un paese vicino. Il monologo narra della prima notte di nozze e delle avventure di Giavanpietro alla ricerca della Parpaja smarrita, peripezie causate da un insieme di equivoci esilaranti che fanno provare empatia e tenerezza per il povero personaggio. Ogni episodio è all’insegna della comicità e della giocosità, dati da una mimica facciale policroma, fatta di tante sfaccettature che ricalcano ogni personaggio. I temi affrontati sono oggi attualissimi, conosciuti e vissuti da tante persone, ma Dighero li affronta con una tale leggerezza e ilarità che non può che suscitare risate; infondo è proprio questa l’idea di Mistero Buffo, rivisitare in chiave buffonesca temi sacri e attuali.

A chiusura della serata l’attore porta sul palco una poesia di sua composizione. Una “lirica populista” (definita così dallo stesso Dighero) che egli scrisse ai tempi della Guerra in Iraq, ma purtroppo sempre attuale visto come stanno andando le cose ancora oggi. Si intitola Ho deciso di esportare una merce nuova, che sarebbe poi la democrazia. Ironicamente Dighero suggerisce come le potenze occidentali siano andate a “liberare” i popoli del medio oriente, ma a modo loro, con tanto di armi, di bombe e di imposizioni culturali. «Facciamo una pazzia, esportiamo la democrazia chi non ce l’ha lo spaziamo via…» declama Ugo Dighero. La sua è una critica al potere, non solo americano ma anche europeo e italiano. Per possedere anche solo una piccola parte di oro nero, nessuno esita a spacciarsi per difensore di pace e libertà. «Pace e concordia al modo intero riempiendo il cimitero…» continua. E conclude: «Noi siamo i buoni abbiamo una mania esportare la democrazia, ma non la tua, la mia.» Il tema principale è sempre il potere, affiancato questa volta dalla bramosia di conquista di nuove terre e dall’imposizione di nuove ideologie. Ugo Dighero ha una grande forza espressiva, in grado di comunicare con chi lo sta ascoltando e, ancora una volta suscita negli spettatori la risata. Questa volta però è una risata più amara perché le ferite che queste guerre hanno lasciato e stanno lasciando sono ancora aperte.

Mi sono seduta al mio posto, prima dell’inizio dello spettacolo con qualche riserva, senza un vero motivo in verità. Alla fine però mi sono dovuta ricredere, Ugo Dighero è stato molto bravo e all’altezza delle interpretazioni del grande Fo. Il pubblico ha riso di gusto, me compresa e ha battuto le mani con calore e partecipazione, proseguendo per diversi minuti nel finale.

 

Trad-attori parricidi: il Natale in casa Latella

Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli; quando sono fedeli non sono belle (Carl Bertrand)


di Matteo Tamborrino

ph: Brunella Giolivo
Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Lino Masella (Nennillo) – ph: Brunella Giolivo

Questo estemporaneo avvio dedicato alle belles infidèles, ci permette in realtà di riflettere su quanto imprescindibile sia il nesso tra traduttologia, filologia e cultura teatrale. Si tratta di una relazione a tre che travalica le mere contingenze della messinscena  (per capirci, l’annosa questione: “Quale edizione del testo scelgo? Come lo traduco o rappresento?”), e che riguarda invece (e soprattutto) una condivisione di metodo, di approccio teorico e dunque di spirito.

Ripartiamo perciò da qui, dallo spirito. Da quella che i filosofi chiamano essenza. Siri Nergaard, docente di Lingua e letteratura norvegese all’Università di Firenze e di Teoria della traduzione presso la Scuola di studi superiori dell’Università di Bologna, ha pubblicato ormai 23 anni fa un’illuminante antologia dal titolo La teoria della traduzione nella storia (seguita poi dal volume, sempre edito per Bompiani, Teorie contemporanee della traduzione), che ripercorre – da Cicerone a Derrida – i maggiori contributi in merito alla questione della “trasposizione di codici e linguaggi”, un tema da cui registi e attori non possono prescindere.

Lettera o spirito? Erompiamo così dalla selva di richiami accademici e giungiamo lesti a ciò che più ci compete. Natale in casa Cupiello, per la regia di Antonio Latella, calca il palco del Teatro Carignano  – con il suo nutritissimo e meritevole ensemble di interpreti – tra il 10 e il 22 gennaio, destando – come prevedibile – reazioni alterne. Come costruire una relazione ottimale con un pubblico che, almeno in parte, si turba al solo pensiero di veder “stravolto” (sull’opinabilità poi di tale assunto torneremo) il divin Eduardo? «Non possiamo adeguarci supinamente alla domanda» è la risposta perentoria di Francesco Villano. «Noi dobbiamo imitare l’essenza di Eduardo, non scimmiottarne la forma attorica. Dobbiamo insomma trovare nuove forme per rendere viva, ancora viva, la sua natura di rivoluzionario, la sua parola d’autore». È il rispetto per lo spirito dunque la legge che governa la traduzione e la trad-azione (nel senso di trasposizione teatrale) di un classico, specie se si tratta di un attore-regista-autore come era l’erede di Scarpetta.

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Tormentato fu il lavoro di Eduardo su questo dramma, riscritto e meditato a partire dal 1931, anno di debutto con i fratelli nella compagnia del Teatro Umoristico, fino alla fine degli anni ‘70, con propaggini radiofoniche e televisive. Parimente tormentata risulta la cornice scenografica all’interno della quale si articola questo pregevole lavoro, che sembra contaminare l’umbratile genio pittorico di Bosch, Caravaggio e Füssli,. Dalla cieca fissità iniziale degli attori, esposti in proscenio e gravati da un’ingombrante cometa di vaporosità simile a un enorme corallo dorato, l’azione esplode poi in un trionfo bestiale di fisicità, tra il gioviale e l’effimero. Ad avvolgere l’intero allestimento, una luce funerea, un coacervo baroccheggiante di tensione geometrica e sensualità animalesca. La scena in cui Ninuccia/Valentina Acca viene rimbalzata come un testimone tra Nicola/Francesco Villano e Vittorio/Giuseppe Lanino racchiude in sé tale dialettica.

Francesco Villano è Nicola
Francesco Villano è Nicola

In un universo contraddittorio che alterna carnalità e mistica, cartapesta e simboli, in cui la tradizione è profanata in maniera irrevocabile, diventando mortifera consuetudine, Nicola è il più outsider di tutti: «Quello di Nicolino è un mondo frustrante, fatto di denaro e bottoni», spiega Villano parlando del proprio personaggio. «Il suo disagio nasce dal non riuscire a esprimere dei sentimenti, che pure egli prova. Non è cattivo, ma non conosce altri linguaggi. È questa situazione di umiliazione a condurlo poi verso il grido finale. Verrà infatti estromesso dai riti dei Cupiello». Villano è dunque un villain atipico: «Quella di Antonio è una regia “orizzontale”: ci offre degli spunti, dei suggerimenti sulla genesi dei nostri caratteri. Poi tocca a noi. Nel mio caso, sapevo di dover dar voce a un uomo innamorato sì, ma che in fondo non ha alcuno strumento per esprimerlo». È il vate del mercimonio, è il Buffalmacco che compra i capponi: «Parla di cibo, sempre: vuol comprarsi la benevolenza della famiglia».

Tradurre è tradire. Tradire (tradĕre) è consegnare. Offrire cioè in una lingua d’arrivo un certo contenuto, che possa sortire un effetto paragonabile all’originale in un pubblico diverso (per idioma e cultura) rispetto a quello per il quale l’opera era stata pensata. Tradurre è dunque l’utopia esperantista, la capacità di saper parlare a tutti, in una “lingua ideale” (cfr. Cicerone, Libellus de optimo genere oratorum), e in ogni tempo. Per rendere immortali delle parole, dei valori, e non le persone che se ne fanno temporanei vettori. Eduardo fu un Grand’attore, ma ora è tempo di farlo Grand’autore, di prender coscienza della sua dipartita (e, con lui, dei suoi mugolii, dei suoi silenzi, della sua inimitabile e inimitata maschera facciale).

“Cominciamo da capo tutto” è il loop disarmante che inquieta gli attori. L’Eduardo promiscuo, l’Eduardo attore s’intende, è morto il 31 ottobre 1984. Dal 1° novembre, rifarlo fu impossibile. Non si tratta di arte, ma di biologia. E se non è ancora morto va almeno debellato, consegnato alla storia (che Amleto, Edipo o anche solo il timido Pietro Rosi ce ne diano la forza!). E in tale “inattuabilità del lutto” ha avuto di certo un ruolo fondamentale (sembra assurdo dirlo) l’enorme quantità di materiale audiovisivo a nostra disposizione. Che ha continuato a renderlo vivo ai nostri occhi. Perfino Carlo Cecchi, che pure mastica De Filippo ad ogni sua nuova prova teatrale, ha saputo recuperarlo concretamente non  prima del Sik Sik del 2000.

È l’altro Eduardo, quello dei copioni, a dover diventare classico, tradizione, “presepio”. Come?

Annibale Pavone è parte del Coro
Annibale Pavone è parte del Coro che – al pari di una tragedia greca – segue lo sviluppo dell’azione

Il testo è rispettato con estrema fedeltà dal regista, ma – per così dire – sovra-costruito. «Da diverso tempo – racconta Annibale Pavone, direttore artistico e parte del coro – Latella conduce uno strenuo lavoro sui testi. Nel caso di Cupiello ha scelto di scavare in profondità, fino al non-detto, penetrando nelle tonicità della scrittura e nelle didascalie» (sempre così abbondanti, peraltro, nei testi dell’autore, il che denota una sua particolare cura nei confronti dell’attore). «Dopo le prime letture, ha definito quella partitura che avete potuto ascoltare», così straniante, così brechtiana: gli accenti gravi, acuti e circonflessi flettono gli attori, nel corso del primo atto, come se fossero tesi da un filo invisibile, intenti a giocare a “sacco pieno-sacco vuoto”. Nel frattempo, il protagonista redige un impercettibile brogliaccio. La fatica e la concentrazione degli attori raggiungono anche gli spettatori più lontani: «I primi quaranta minuti – continua Pavone – prevedono solo movimenti minimi e solo da parte di chi si è già tolto la benda. Per gli altri è un lungo lavoro d’ascolto, che non ammette distrazioni. La cecità ci confonde, ma ciò che deve essere esibito è in primis il testo di Eduardo». È come un’enorme mente, che silenziosa e buia, legge. Altri ostacoli si avvertono poi sul cammino: gli animali del presepe portati a zonzo per il palco (e che diventano opprimenti doppi), o il carretto funebre spinto dall’eccellente Concetta di Monica Piseddu.

Che cosa significa tuttavia confrontarsi con un mostro sacro? L’abbiamo chiesto a Francesco Manetti, l’efficace pater familias in giacca albina (che interpreta però anche la parte dello scrittore in fieri): «Credo che Latella si sia rivolto a me perché ho la fortuna di non avere nulla in comune con l’Eduardo attore. Per età, per provenienza (io sono fiorentino), per storia artistica e biografica. Mi sono approcciato a Luca Cupiello come ad un qualsiasi altro personaggio, ‘come se fosse – e cito Latella – un Checov’. L’intento di Antonio era di creare un padre fuori luogo, incapace di gestire quella famiglia. C’è stata poi da parte sua una richiesta precisa: che il napoletano fosse letto e non detto. Il che sarebbe invece venuto automatico dopo mesi di repliche». Ma d’altronde, compito degli attori non è illudere, “camuffare”. Sul tema, interviene di nuovo Villano: «Il teatro post-drammatico non lascia spazio all’immedesimazione. Il teatro è un gioco: un po’ lo fai, un po’ lo racconti, ma bisogna essere onesti con il pubblico, senza ingannarlo». L’attore persiste, insomma, sulla superficie del personaggio.

Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti
Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti

Checché se ne dica, comunque lo si voglia definire, il Natale latelliano – come già l’Arlecchino –  rappresenta una svolta notevoledeo gratias – in questa impasse storico-teatrale di inizio millennio, che troppo spesso si avventura su sentieri manieristici. E di tale neo-manierismo (dal gelo del 1985 in avanti) lo spettacolo in questione è acme e nemesi. Un Cupiello dunque filologicamente deferente. Non stravolto, né calpestato. Semplicemente ri-formato. Ne tradisce (qui intendi “sovverte”) l’estetica, ma ne tradisce (“consegna”) il senso. Perché solo con una “bella  (eccezion fatta per alcune lungaggini finali) infedele” questo testo può finalmente essere attraversato, capito e restituito alla propria grandezza (parafraso qui Manetti): «Per accettare un’eredità bisogna preventivamente constatare che il padre sia morto».

Plauso (non di rito) a tutti gli interpreti, “artefici magici” di un esempio incantevole di attore-testimone-interlocutore-restitutore. Di un attore, insomma, traduttore. Trad-attori.

Gli insoddisfatti si diano pace.

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
drammaturgia Linda Dalisi
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino
luci Simone De Angelis
musiche Franco Visioli
prodotto da Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Il lavoro di vivere: “più facile a dirsi che a farsi!”

Sono le due di notte, le tende delle finestre oscurano la stanza matrimoniale dei due coniugi Yona e Leviva Popoch. Al centro di quest’ultima: un letto, sottosopra e disfatto, quasi “sciupato”, metafora senile dell’individuo.

Dormono, quando improvvisamente l’uomo viene colto da un malore al cuore: è una meditazione sul “male di vivere” -molto simile ai due protagonisti calviniani de La vita difficile –  è il bruciore del rimpianto di cose mai fatte, è il desiderio impossibile di tornare indietro negli anni per intraprendere un nuovo ciclo di vita; ma è anche la bramosia di rinascita; infatti, Yona è come una fenice alla quale hanno tagliato le ali, ed ora sembra deciso a riprendersele. Arrabbiato e insoddisfatto, quest’ultimo, decide di destare la consorte dal suo sonno profondo e quieto, ribaltandola letteralmente giù dal materasso, buttandola per terra senza alcuna remora, come si farebbe con un sacco dell’immondizia, per poi, cinicamente, chiederle: “Perché sto con te, Leviva?”

Ed è proprio in questa stanza- che pare un quadro dai colori ormai sbiaditi a causa del tempo- che ha inizio una lunga e logorante guerra di trincea che vede l’alternarsi di ragionamenti filosofici, di insulti ironici e di divertenti sfottò; la rabbia viene “vomitata” l’una addosso all’altro, per sfociare, infine, in violenti e sarcastici atti carnali che ricordano tanto quelli di Philip Roth.

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“Guardatevi sembrate due cani rabbiosi” dice l’impertinente amico Gunkel, osservando la coppia. Gunkel è giunto nella stanza forse perché in cerca di un’aspirina contro il mal di testa, o forse a causa della sua sofferenza scaturita dalla solitudine, in cerca di un po’ di compagnia contro cui inveire. Così, questi due esseri umani mutati in bestie, sprecano parole su parole senza mai agire veramente. Sono inetti di fronte ai loro stessi desideri!

Yona ha preparato la valigia, si è vestito, ha indosso persino una cravatta sopra il suo pigiama preferito, è desideroso di ricostruirsi una vita e perché no, di trovare un nuovo “culo sodo” che sostituisca quella flaccido della moglie. È già in viaggio… sì, ma con la mente, di certo non fisicamente: i suoi piedi rimarranno, infatti, radicati in quella stanza “finché morte non li separi”! La moglie inizialmente inscena, in modo astuto, e pur di non perdere il suo compagno di vita, un gioco di adulazione verso il marito: si offre completamente a lui, inginocchiandosi al suo cospetto, quasi fosse una madonna vergine, per poi trasformarsi in un giannizzero disperato, che recluta il marito, affinché combatta al suo fianco quella cruda ed estenuante guerra di vecchiaia e di morte, che altro non è che il lavoro di vivere.

L’uomo sembra finalmente aver messo da parte la rabbia accecante, per rendersi conto che, in fondo, andare via di casa all’età di cinquant’anni non è poi una grande idea, che in fin dei conti non gli conviene poi tanto rinunciare alle comodità quotidiane, e dunque, a un bel frigorifero pieno, al piatto caldo, e a tutte quelle abitudini che solo trascorrendo una vita insieme, l’altra persona può arrivare a conoscere: dalla quantità di sale per condire le varie pietanze, alla quantità di zucchero da sciogliere nel caffè!

Andrée Ruth Shammah ci regala una regia d’effetto, quasi cinematografica e curata nell’estremo dettaglio. Carlo Cecchi che interpreta il burbero marito, è formidabile nella sua recitazione “stanca”, trascinata e a tratti persino “biasciacata”; estremamente vera la recitazione di Fulvia Carotenuto (Leviva) e Massimo Loreto (Gunkel); merito anche del testo di Hanoch Levin, israeliano scomparso prematuramente -purtroppo poco conosciuto in Italia- che mescolando una freddezza tipica dello straniamento brechtiano ad una violenza già cara al teatro sperimentale del secondo Novecento, ci pone di fronte a dei protagonisti che sono degli anti-eroi per eccellenza, inetti soldati che combattono piccole grandi battaglie quotidiane, ai quali non resta che lamentarsi e crogiolarsi  nei loro fallimenti.

Il lavoro di vivere è una piccola grande analisi sul trionfo delle parole sulle azioni, che spesso caratterizzano la vita di noi fragili esseri umani; è una amara celebrazione dell’abitudine sulla forza vitale, e dunque sulla nostra incapacità di agire, rimanendo stigmatizzati e incatenati ad una situazione che sappiamo peggiorare sempre di più…dunque non ci resta che lamentarci, continuamente lamentarci, perché in fondo ci piace e ci fa comodo così.

Un testo sulla difficoltà e sulla pesantezza di vivere, che vale la pena di essere visto, perché tutti noi, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo sentito o sentiremo, di non essere più in grado di andare avanti.

 

Martina Di Nolfo

 

Di Hanoch Levin

Uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah

Con:

Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto

Musiche Michele Tadini

Teatro Franco Parenti/ Marche Teatro

Lo specchio di Edith

Non si è mai vista una bella donna che non facesse smorfie davanti a uno specchio (William Shakespeare)


ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

Ogni specchio – si sa – è in grado di trattenere frazioni microscopiche del nostro animo: sguardi, smorfie, corrucci, pensieri. Ma che cosa ci attrae di più? L’epifania virtuale di noi stessi (che giunge puntuale, ad ogni successiva riflessione), oppure l’oggetto in sé, quel vetro “narciso” che ci dischiude mondi bislacchi, templi di illusioni rovesciate?

E più ci avviciniamo alla superficie del miraglio, più ci chiudiamo in noi stessi, più smarriamo quel senno che ci rende “ordinari”. Che ci rende, cioè, parte di un mondo “civilizzato”, fatto di altri. Ma nel podere selvaggio e viscerale di Big e Little Edie non c’è spazio per nessun altro. Qualsiasi evasione, qualsiasi pretesa (e pretendente), qualsiasi tentativo di fuga debbono essere arginati. Al di là dei loro corpi – l’uno più spigoloso e teso, l’altro più morbido e fanciullesco –  non c’è (più) nessuno: resta soltanto la “casa romita”. Che le incornicia, come una pala d’altare acuminata. E una ringhiera, che le imprigiona.

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ph. Luigi Ceccon

C’è un breve istante, nello spettacolo di Chiara Cardea ed Elena Serra, in cui la giovane Edith si guarda allo specchio. Spalle al pubblico, Madre di fronte. Entrambe sono ferme, protette dalle asfittiche mura di Grey Gardens. È solo un attimo, sia pur di intensa ambiguità: chi è, davvero, la bella del (quondam) reame che appare sull’orlo traslucido di quella delicata suppellettile? È la donna dai soavi turbanti o quella dalla pungente lascivia, che ne è – in fondo – doppione e contrario?

L’allestimento – che rievoca la relazione morbosa delle parenti reiette di Jackie O’, Edith Ewing Bouvier Beale e figlia  –  trasuda di decadentismo, con un’ottima costruzione delle cromie e della dimensione ottica. Di fine pregio è la palafitta mobile al centro del palco (realizzata da Jacopo Valsania), di color azzurro cielo: la porta, che sbatte fragorosamente ad ogni passaggio delle protagoniste, scandisce il ritmo della rappresentazione. L’abitazione viene presentata al pubblico sotto vari punti di vista, o meglio inquadrata da varie angolature (forse in onore degli antichi “natali cinematografici” di questo plot).

I costumi, cavati da due belle boutique torinesi e curati da Anna Filosa, hanno un’importanza strutturale nell’economia del racconto: essi rimangono tali per l’intero svolgimento dell’azione; restano cioè costumi di scena, conservando la propria essenza mimetica senza mai degradarsi in vestiti dozzinali. Tra pizzi rococò e vestaglie da belle epoque, le due Edie strisciano, ora sinuose ora scomposte, nei propri simulacri di tessuto. La giovane li sfoggia come ultimo lacerto di una carriera declinata (e forse mai cominciata davvero), l’anziana li sfrutta per deprezzare e “denudare” l’high society statunitense che, di quegli abiti, aveva fatto uno status symbol.

foto EDITH
ph. Luigi Ceccon

«Cercavamo un testo capace di indagare la coppia femminile», racconta Elena Serra/Big Edie, spiegando la genesi di questo lavoro. «Volevamo però al tempo stesso ampliare il nostro orizzonte di indagine, oltre il panorama drammaturgico tradizionale: da teatranti, infatti, pecchiamo spesso di auto-referenzialità. Parliamo tra di noi e con il nostro mondo di riferimento. Ma che cosa, chi c’è al di là?».

Dopo un infruttuoso avvio con le Serve di Genet, arriva l’illuminazione: «Un giorno, un amico ci mostrò Grey Gardens, docufilm del ’75 di Albert e David Maysles sulla vita delle Bouvier Beale, zia e cugina di Jacqueline Kennedy. Fu amore a prima vista: rimasi folgorata dalla naturalezza con cui queste due donne gestivano la propria femminilità. Non si limitavano a subire il proprio corpo, bensì lo ponevano continuamente in scena. Recuperare un rapporto sincero con la propria fisicità è molto complesso, soprattutto per le giovani attrici: me ne rendo conto da tempo, lavorando al fianco di Valter Malosti in Accademia».

Due donne; sociopatia q.b.; rapporto atipico con la drammaturgia. Gli ingredienti necessari per un delicato bignè ci sono tutti. Per quanto concerne l’aspetto testuale, Edith nasce – come detto – da una pellicola, che al di là della conduzione “in presa diretta”, resta pur sempre un film, fatto perciò di montaggi e discorsi sconnessi. Le due attrici-registe hanno così proceduto dapprima con l’estrapolazione di segmenti dialogici, traducendoli in italiano, dopodiché li hanno riordinati tematicamente, privilegiando tre nuclei diegetici: la vita di Little Edie e il desiderio di tornare in città, il passato della famiglia (e dei suoi uomini, presenti solo a mo’ di spettri vocali) e infine il rapporto con la casa. Non mancano le interpolazioni, significative per la biografia artistica delle due attrici: fra gli altri, il “Domani, e domani, e poi domani” di Macbeth.

Il progetto, nel complesso assai pregevole, merita di essere segnalato anche per l’attento studio storico e psicologico condotto dalle interpreti/outsiders: oltre all’obbligata full immersion fra i libri di storia americana, le due Edith non hanno trascurato l’allestimento di eventi collaterali, utili – spiega la Serra – «per sperimentare la vita del patriziato: abbiamo così ricostruito al Circolo dei lettori (grazie a Terre Spezzate, leader nella creazione di GdR) il party di debutto di Little Edie in società. Tre ore per provare a immaginare che cosa avessero perso».

ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

L’abitazione, alla fine, urta la protagonista, distesa sul palco come morta. Si compie così quel profetare antico: “vanitas vanitatum et omnia vanitas”. E Yorick – lo specchietto a mano, per intenderci – resta lì sepolto, tra procioni e bellettame.

 

EDITH
di e con Chiara Cardea ed Elena Serra
voci off Michele Di Mauro, Vittorio Camarota e Matteo Baiardi
regia Elena Serra
progetto sonoro Alessio Foglia
scena e luci Jacopo Valsania
costumi e trucco Anna Filosa
assistente alla regia Davide Barbato
direzione tecnica Loris Spanu
artwork Donato Sansone aka Donny Sansuca | foto Luigi Ceccon
produzione Serra/Cardea | produzione esecutiva Teatro della Caduta
coordinamento e organizzazione Davide Barbato | ufficio stampa Giulia Taglienti
con il sostegno di Renaise – abiti d’Altra moda | Tiramisù alle Fragole | Lumeria
progetto realizzato in collaborazione con Terre Spezzate | Arca Studios | il Circolo dei lettori | Il Piccolo Cinema
prima nazionale 14 gennaio 2016 (Torino, Teatro Gobetti)

INTERVISTA A STEFANO SABELLI: L’ARTE PER VINCERE CONTRO OGNI LIMITE

Ha debuttato in prima nazionale il 29 giugno 2016 (con replica il 30 giugno), in occasione della trentottesima edizione di Asti Teatro, il capolavoro goldoniano LA LOCANDIERA O L’ARTE PER VINCERE nella nuova edizione prodotta dalla Compagnia del LOTO di TEATRIMOLISANI presso il Teatro Giraudi di Asti.

È stata la talentuosa Silvia Gallerano a indossare gli abiti in stile anni ’50 di una Mirandolina che tenta a tutti i costi di intraprendere la via dell’emancipazione. Con lei un asciutto e caustico Claudio Botosso nel ruolo del Cavaliere di Ripafratta e molti altri quali Dario Florio, Eva Sabelli, Giorgio Careccia, Chiara Cavalieri e Andrea Ortis.

La vicenda si svolge nel Delta del Po, in un’atmosfera acquitrinosa e a tratti onirica. Ce ne parla meglio l’eclettico Stefano Sabelli, regista di questa commedia.

Stefano Sabelli BR

 

Sabelli ha creato un riadattamento dello spettacolo di Goldoni, mantenendo fede al titolo originale aggiungendo però un sottotitolo: l’Arte per vincere. Che cosa significa esattamente?

Anzitutto da un lato si tratta di una battuta del monologo pronunciata da Mirandolina – protagonista della commedia – decisa ad andare a sedurre per la prima volta il Cavaliere di Ripafratta, famoso per la sua accesa misoginia, dunque, in questo senso, altro non si intende se non la vittoria del gioco di seduzione e dell’arte femminile; e dall’altro lato questo sottotitolo mi piaceva perché, secondo me, in Italia è rimasta unicamente l’arte come mezzo per vincere qualcosa!

“Visto che gli altri sono sordi mi fingo sordo per mantenere il teatro”, una frase che lei ha riportato in una precedente intervista a proposito di uno spot di cui era protagonista e che appunto si lega un po’ con il discorso precedente. Dunque è davvero attendibile?

(Ride) Sì, sì è verissimo! L’intervistatore mi aveva chiesto come mai avessi scelto di fare pubblicità e io gli ho spiegato che è uno dei tanti mezzi che mi permettono di fare teatro.

Quel “gli altri sono sordi” era chiaramente riferito agli enti pubblici nello specifico e anche ai nostri enti pubblici molisani visto che la compagnia comunque è residente in Molise. Intendevo dire che ormai l’unico modo per fare teatro e soprattutto per mantenere il teatro è anche questo. Io appunto ho mantenuto il teatro facendo la televisione, il cinema e la pubblicità. Non avrei potuto fare il contrario altrimenti, detto molto francamente.

Come al solito la scelta delle sue scenografie non è casuale, al contrario è parecchio significativa e simbolica: ricordo infatti l’utilizzo di una gabbia carceraria nello spettacolo Autodafè del caminante; in questo riadattamento goldoniano si utilizza invece una locanda-palafitta su di un girevole che si muta ora in una nave corsara ora in una casa di frontiera. Perché questa scelta?

Sì, nell’ Autodafè il pubblico si siede in questa gabbia carceraria svolgendo non solo il ruolo di spettatore ma anche di corte giudiziaria; è sicuramente un’esperienza particolare, quest’anno tra l’altro lo riprenderemo proprio a Torino.

Generalmente a livello concettuale posso sostenere che non mi piace lavorare esclusivamente sulla quarta parete, oltretutto in un’idea di teatro contemporaneo diventa riduttivo pensarla in questo modo. Il teatro nei secoli è sempre stato l’arte che ha condiviso e assorbito tutte le arti possibili. Oggi, per esempio, fare teatro senza pensare che esista il cinema, il linguaggio multimediale, senza tener conto delle nuove sonorità che si stanno affermando è impossibile nonché ridicolo; è pleonastico rimanere legati a un concetto dell’ottocento! Ora, questo spettacolo, è molto più tradizionale di quel che può sembrare: noi usiamo un meccanismo girevole che ci permette di creare contemporaneità fra delle azioni teatrali, rispettando comunque le indicazioni presenti nel testo goldoniano. L’unica variante che abbiamo realmente apportato, è un esterno (assente in Goldoni) e un interno, al fine di cercare di mantenere l’azione sempre viva; sapere infatti che l’azione è contemporanea e che perciò un fatto succede subito dopo l’altro in qualche modo ti tiene sul pezzo e mantiene viva la tensione…

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Come mai hai scelto proprio Silvia Gallerano per il ruolo di Mirandolina?

Perché sono rimasto folgorato da La Merda! È stato sicuramente uno spettacolo che mi ha colpito! È forse dal punto di vista interpretativo, uno dei più importanti degli ultimi dieci anni in Italia, non è un caso che abbia ricevuto parecchi premi a livello internazionale! Mi è piaciuta la sua la fragilità, la sua comicità che sapeva far anche commuovere; sotto certi versi mi ha ricordato un po’ Franca Valeri.

Silvia, ti sei chiesta come poteva essere Mirandolina negli anni ’50, rispetto alla Mirandolina settecentesca goldoniana?

Sicuramente la suggestione che avevamo sia io sia Stefano era quella di capire come non far diventare questo testo soltanto un testo di maniera, cercare quindi di tirar fuori una verità: quello che è venuto fuori è la totale verità di Mirandolina, in tutto quello che dice , da quando è maliziosa a quando è innamorata… perciò se dovessimo avvicinarla all’oggi o comunque al secolo passato diciamo che rappresenterebbe un personaggio dalle più svariate sfacettature.

Silvia [interviene Sabelli] ha molte verità ma tutte estremamente credibili, una contraria all’altra, non va per schemi, ed è proprio lì che risiede la sua modernità.

Perché la scelta di ambientare la vicenda negli anni ’50?

Il tutto parte da un’analisi del personaggio di Mirandolina, unica protagonista femminile di tutta la drammaturgia goldoniana, la quale rappresenta il carattere di una donna che non è rivoluzionaria, dal momento che utilizza ancora la malizia delle arti femminili per irretire gli uomini, ma che inizia a presentare tratti di emancipazione femminile. Si tratta infatti di una donna che cerca di affermare una propria identità su tutto e su tutti. Negli anni’50, quando lo abbiamo ambientato noi, sta succedendo esattamente la stessa cosa: io mi sono ispirato a Riso Amaro di De Santis perché lì le mondine diventano in qualche modo partecipi della loro vita, prendendone le redini nelle  loro mani; non dimentichiamoci poi del suffragio universale in Italia del ’46 che segna un periodo di svolta nella storia femminile.

Ovvio Mirandolina non è Rosa Luxemburg , non è nemmeno una femminista lineare, può essere però immaginata come una donna in una fase di pre contemporaneità e dunque di pre modernità in cui decide di rendersi indipendente e libera, esclusivamente con i propri mezzi di seduzione e di spirito d’accoglienza; concetto che peraltro è andato tristemente scomparendo nel nostro Paese.

Mirandolina di fatto è accogliente con i propri ospiti, ma questo, a parer mio, è una dote!

Nella nostra lettura abbiamo inoltre reso la donna maggiormente intrigata dal Cavaliere di Ripafratta, rispetto a quanto lo sia nel testo originale, spingendo su certi tratti di passione amorosa ambigui e non del tutto svelati.

Che ruolo ha la musica in questo spettacolo?

La musica è molto presente: abbiamo deciso di utilizzare il personaggio del marchese di Forlimpopoli (Andrea Ortis) che peraltro parla in veneto e rappresenta una sorta di “dandy fuorimoda”, come baluardo di quel gusto popolare per l’opera lirica, che è tipico della zona della Padania (Parma, Reggio, Ferrara). Per cui per tutta la durata della messa in scena, parla e canta indistintamente arie d’opera e arie di canzonette, come ad esempio “Ma l’amore no” e tante altre dell’epoca. Subentrano poi gli swing di Glenn Miller. Anche per la musica ritorna il riferimento a Riso Amaro e a Ossessione di Visconti, ma anche a De Sica in Ieri oggi e domani: ho infatti ripreso una scena proprio dal duetto tra la Loren e Mastroianni.

Possiamo dire allora che le tue messe in scena risentono parecchio dell’influenza del cinema?

Assolutamente, il cinema influisce particolarmente, soprattutto come linguaggio. Non solo il cinema però, anche l’arte contemporanea. Peraltro a me piace lavorare sui classici in maniera moderna: quest’anno ho deciso di fare un lavoro sul Saul, che ha debuttato su diversi palchi già qualche tempo fa, dando una matrice tutta yiddish, tutta legata alla musica Klezmer mischiata al Requiem di Mozart (contemporaneo di Alfieri) data la sua estrema modernità di linguaggio.

Quando lavoro sui versi penso sempre al cinema, sarebbe impossibile il contrario! Mi sono reso conto che ci sono ormai delle convenzioni teatrali che oggi non reggono più: ho messo in scena , ormai nel 2003, un Romeo e Giulietta che era tutto itinerante, ambientato negli anni ’30 fra il jazz e lo swing, tra due famiglie italo-americane, ho dovuto prendere Diego Florio, che peraltro qui interpreta Fabrizio, ma che ai tempi interpretava appunto Romeo e mia figlia Eva che interpretava Giulietta, qui Dejanira, in quel caso uno aveva 20 anni e l’altra 16, quindi possedevano un’età coerente col testo, ed è stato in quel momento che ho capito che se avessi voluto prendere attori più maturi questo sarebbe stato impossibile, poiché lo spettatore di teatro, come quello del cinema, non crede più ad una Giulietta di 40 anni! Ecco allora, in questo senso, oggi, mi ritrovo “costretto” ad assumere certi linguaggi del cinema, così come sono costretto a tener conto di certe verità. Ed è proprio il cinema che ti costringe oggi a recitare a teatro in maniera non barocca.

Rimane poi il fatto che è bello, secondo me, portare nei classici delle suggestioni che ci sono oggi! Ho fatto ad esempio un Amleto nel 2005 con Giorgio Careccia, portandolo tutto in un’ambientazione giapponese fra samurai, con costumi tipici quali il kimono, e con riferimenti al linguaggio giapponese, inserendoci e mischiando dell’altra musica: all’inizio lo spettacolo si apre sulle note di Elvis Presley per confluire nel duello con le katane fra Amleto e Polonio scandito da “All along the watchtower” di Bob Dylan eseguita da Jimi Hendrix.

(Sorride) La mia cultura in fondo è quella del rock ed esso è il mio vademecum, anche nella mia esperienza teatrale; penso sia proprio questa la bellezza di linguaggi diversi.

A proposito di influssi non occidentali: lei è fondatore del Teatro del Loto, allestito secondo il gusto orientale e curato in ogni minimo dettaglio per garantire versatilità, perché questa scelta di allestimento?

Devo dire che è stata una scommessa, io ero direttore artistico del Teatro Savoia di Campobasso, un giorno entrai in questa sala parrocchiale in occasione di un invito di amici per vedere una commedia di Pirandello, e vidi questo spazio che offriva parecchie possibilità di trasformazione, quindi già da lì mi feci un’idea molto precisa per l’allestimento. Ottenni poi dalla curia la possibilità di rilevarla. Insomma ho fatto un investimento insieme alla cooperativa che ho fondato, e soprattutto privatamente, perché volevo creare uno spazio per i giovani, volevo creare uno spazio propedeutico a tale professione. Ho cercato di creare un luogo il più accogliente possibile, dove gli artisti si potessero sentire a casa.

Oggi molte personalità importanti considerano il Loto come il più bel piccolo teatro d’Italia, e devo dire che sono passati parecchi artisti: da Silvia Orlando a Elio Germano, da Fabrizio Gifuni a Silvia Gallerano, altri come Nanni Moretti, Sgarbi e Gassman ci hanno donato, secondo un’usanza tipica del teatro, la sedia in platea.

Posso affermare con orgoglio che oggi siamo riusciti a creare una compagnia che ha permesso di “coltivare” il nostro territorio, creando delle professionalità assenti prima nel nostro territorio; il cast attoriale e la troupe tecnica è infatti composta totalmente da enti molisani.

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Perché ha scelto di adottare il nome di un fiore?

Nella cultura buddista il fiore del Loto è un fiore che nasce nella stagnazione e i suoi petali sono perfetti nonostante la matrice di melma da cui si formano, questo sta a significare che le cose più preziose si originano da ambienti spesso impervi e dai quali nessuno si aspetterebbe nulla di buono… Io poi l’ho utilizzato anche come acronimo di LIBERO OPIFICIO TEATRALE OCCIDENTALE.

Quanto tempo ha impiegato per la realizzazione del suo teatro?

Eh, ci ho messo ben cinque anni. Mi serviva anche del tempo per trovare i soldi! Penso però che ne sia valsa la pena perché ha reso più felice qualcuno; penso anche a molti attori della compagnia, come Giulio Maroncelli, che qui interpreta il servo, che è proprio cresciuto nel Loto, e come lui, così tanti altri, i quali sono entrati nella compagnia ancora liceali e ne sono usciti professionisti.

Siamo poi riusciti a farci riconoscere come Compagnia dal Ministero dei Beni e della Cultura, nonostante ci siano ancora delle difficoltà a gestire questo spazio, tipiche del mestiere.

Il Loto prevede dei corsi di formazione teatrale anche per bambini, c’è quindi una volontà di “investire” sulle generazioni future nonostante questo momento di crisi per il teatro e per tutta la cultura?

Direi proprio di sì, ritorna infatti il concetto di “arte per vincere”, l’arte per vincere le paure della propria vita, l’arte per vincere la propria condizione sociale, poiché se si ha talento nessuno può fermarti; certo, siamo in un Paese dove questo non viene riconosciuto, ma se lo si possiede ci si può allora permettere di “scappare”, di abbandonare qualunque condizione si abbia, sia essa di povertà o di ricchezza. Il talento, difatti, aiuta a vincere la vita, a superare i propri limiti, è l’unica possibilità, secondo me, nel mondo occidentale…

L’arte poi sta anche per mestiere, dunque l’Arte per vincere è l’industriarsi per vincere, il mettere in gioco se stessi, che è poi quello che fa qui Mirandolina e che dovrebbe fare anche questo Paese, dunque anche qui i bambini imparano a mettersi in gioco con loro stessi sin da subito.

È solo l’arte che consente di andare oltre al proprio limite, permettendo un riscatto personale e aiutando gli altri a stare bene. In fondo avrei potuto inserire come sottotitolo l’Arte per vincere appunto o l’Arte per essere felici e sarebbe stata la stessa cosa!

Adesso quali sono i suoi progetti futuri?

Subito dopo la Locandiera, mi accingo a interpretare Re Lear, attraverso uno studio sulla pazzia nella senilità del potere e nella famiglia. Mi auguro possa andare al meglio!

 

Martina Di Nolfo

 

 

ASTI TEATRO 38

Direzione Artistica: Comune di Asti

 

Mercoledì 29 giugno – ore 20

Giovedì 30 giugno 2016 – ore 19

 

presenta

in Prima Nazionale

 

una produzione

 

Teatro del LOTO

Libero Opificio Teatrale Occidentale

di TeatriMolisani – Ferrazzano CB

 

 

Silvia Gallerano (Mirandolina)

Claudio Botosso (Cavaliere di Ripafratta)

 

in

LOCANDIERA

o l’Arte di Vincere

di Carlo Goldoni

 

 

 

 

 

adattamento e regia Stefano Sabelli

 

con

Giorgio Careccia – Conte di Albafiorita

Andrea Ortis – Marchese di Forlimpopoli

Chiara Cavalieri – Ortensia

Eva Sabelli – Dejanira

Diego Florio – Fabrizio

Giulio Maroncelli – il Servo

Piero Ricci – il Fisarmonicista muto

 

scene Lara Carissimi

decorazioni sceniche Michelangelo Tomaro

costumi Martina Eschini

disegno luci Daniele Passeri

aiuto regia Giulio Maroncelli

foto di scena Mauro Presutti

 

Teatro Giraudi (Asti)

Hearing

La funzione del linguaggio non è quella d’informare, ma di evocare Jacques Lacan

A un primo sguardo, Hearing sembra raccontare la condizione delle donne in Iran attraverso gli anni. La scena si apre sul dormitorio femminile di un collegio in cui due giovani ragazze vengono interrogate da una donna più matura, incaricata di mantenere l’ordine. Una relazione anonima ha denunciato che una delle due ragazze ha introdotto di nascosto nel dormitorio un ragazzo per trascorrere con lui la notte di capodanno.

La scenografia è un semplice  fascio di luce che illumina dall’alto le protagoniste e che restituisce, con acuta semplicità, l’atmosfera oppressiva del dormitorio-fortezza. Il sapiente uso delle pause e la recitazione quasi cinematografica delle giovani attrici fanno dimenticare subito la fastidiosa necessità di riferirsi ai sopratitoli per comprendere il dialogo.

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La ragazza che ha involontariamente fatto partire la denuncia non ha visto un ragazzo nella stanza della compagna, ne ha solo sentito la voce. E su quest’ambiguità, sull’insicurezza di una voce solo sentita (o immaginata?) si apre la seconda parte dello spettacolo. Con l’ausilio di una Gopro, Amir Reza trascina con maestria lo spettatore in un viaggio onirico a tratti spaventoso, spesso commovente, sicuramente d’impatto. Una delle giovani ragazze esce di scena e vi rientra pochi secondi dopo, quindici anni più grande. L’impianto  realistico della prima parte dello spettacolo viene così decostruito e ciò che conta adesso è l’happening: ciò che avviene qui e ora, sulle scale del teatro Astra che vediamo grazie alla Gopro, nella confusione dello spettatore che rimane catturato in un salto temporale. Alla destrutturazione del set corrisponde una destrutturazione del linguaggio, che intreccia passato e presente in un rimpallo serrato di ricordi, ammissioni, confronti. La memoria che qui viene rappresentata non può che essere restituita in questa maniera perché è la sua stessa essenza ad essere frammentata.

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“Gli spettatori rimangono confusi da questa seconda parte”, ci dice Amir Reza. Ma è proprio questo l’intento della regia: mettere in scena la confusione che si prova quando, arrivati all’età adulta, ci si volta a guardare la propria infanzia. Il percorso di crescita e gli anni trascorsi ritornano alla memoria come un tunnel buio, difficile da ricostruire, dal quale si esce “adulti, normali”. Per Amir Reza, Hearing è un viaggio personale per illuminare, almeno in parte, questo tunnel. Ecco perché non è e non vuole essere (solo) un’opera di denuncia sociale. Hearing non vuole lanciare un messaggio, ma restituire l’esperienza frammentata nella memoria di un percorso a tratti inconsapevole, quello della crescita e del passaggio all’età adulta, che è comune a tutti noi. Hearing non racconta solo la difficile situazione delle donne in Iran, ma anche un’esperienza universale, che travalica i confini lingustici, spaziali e temporali.

di Giulia Trivero

HEARING

(Prima nazionale presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo nell’ambito di Scene d’Europa)

di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani

assistente alla regia Mohammad Reza Hosseinzadeh
con Mona Ahmadi, Ainaz Azarhoush, Elham Korda, Mahin Sadri
video e direzione tecnica Ali Shirkhodaei
musiche Ankido Darash e Kasraa Paashaaie
suono Ankido Darash
luci Saba Kasmei
scena Amir Reza Koohestani assistito da Golnaz Bashiri
costumi e oggetti di scena Negar Nemati
secondo assistente Mohammad Khaksari
direzione di scena Mohammad Reza Najafi
assistente ai costumi Negar Bagheri
direttori di produzione Mohammad Reza Hosseinzadeh e Pierre Reis
tour manager Pierre Reis

produzione Mehr Theatre Group
coproduzione La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, BOZAR – Centre for Fine Arts Brussels

versione originale con sopratitoli in italiano
traduzione Laura Bevione per il Festival delle Colline Torinesi