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Il torpore della marionetta- Torino Fringe Festival 2018

All’interno del Torino Fringe Festival 2018, il nuovo teatro Caffè Müller ha deciso di portare avanti il progetto Rassegnainsilenzio di Maura Sesia e ha selezionato tre spettacoli con forti contenuti che siano godibili in silenzio, senza l’uso della parola. Gli spettacoli sono: Sentieri in rosa della Compagnia Ciclope di Palermo (teatro di narrazione in lingua italiana dei segni L.I.S.), Talita Kum della Compagnia Riserva Canini di Firenze (teatro di figura) e Note sul silenzio della fondazione Cirko Vertigo che fra l’altro ha proprio sede al Caffè Müller.

Lo spettacolo Talita Kum in particolare è molto interessante perché poetico e onirico, capace di trasportare in una dimensione surreale. Immaginato e scritto da Marco Ferro e Valeria Sacco, ha debuttato nel 2012 e ha avuto la fortuna di poter essere molto replicato e apprezzato soprattutto all’estero grazie al fatto che appartiene al genere del teatro di figura. Si esibisce da sola l’attrice Valeria Sacco, nel ruolo sia di marionettista che marionetta, e tiene in equilibrio un gioco di illusione dal vivo in cui la vita scorre alternata fra queste due figure.

Siamo in un luogo notturno ed interiore, una grotta desolata dove si sente il suono dell’aria che si infila tra le rocce e ci comunica una sensazione di freddo, suggerita anche dalla piacevole freschezza del Caffè Müller. Al centro della sala è posta una specie di tenda indiana, dietro alla quale si sviluppa un gioco di luci dando vita a ombre cinesi. Si può intravedere il profilo di una graziosa marionetta e dalla tenda viene fuori una creatura oscura dalle sembianze umane, che si muove scomposta come se funzionasse a zampilli vitali intermittenti. La creatura si sente sola, tira fuori da una valigia una radio da cui provengono suoni intermittenti e frammenti di programmi radio internazionali e infine delle corde, con cui si allontana rintanandosi nella tenda. Un gioco di ombre ci fa intravedere i suoi movimenti e la distinguiamo mentre lega la marionetta al suo corpo.
Fin da subito le due figure ci accompagnano in un sogno, in una dimensione che stimola il lato emotivo e che vive di regole proprie, in cui la ninfa vitale scorre fra la creatura oscura e la fragile marionetta di dimensioni umane.  Ballano assieme sulle note del valzer sentimentale di Čajkovskij e nell’arco dello spettacolo la marionetta prende vita, impara dal suo marionettista a bere, mangiare e a ballare, finché non rimane lei l’unica in scena, assorbendo tutta l’essenza del marionettista, che si scopre essere infine lei, fin dall’inizio. Mette in piedi un gioco illusionistico un po’ particolare, dove la stessa marionetta non si sa se è consapevole di essere lei che manovra tutto oppure ne prende conoscenza solo alla fine.
Per tutto lo spettacolo riesce a farci dubitare che sia sola in scena e ci confonde fino alla fine, quando finalmente ci svela il segreto della sua esibizione smontando le parti del corpo della marionetta.

L’impianto scenografico è molto semplice, ci sono pochi oggetti e la suggestiva tenda è l’uso della luce è interessante più che altro per le ombre cinesi che si allontanano e avvicinano, confondendo lo spettatore su quello che sta avvenendo dietro, e per i rumori che creano una specie di colonna sonora. Ma forse l’aspetto più interessante dello spettacolo, oltre alla formidabile bravura di Valentina Sacco nell’animare una marionetta e usare anche il suo corpo in scena, è il titolo dello spettacolo; Talita Kum è un’espressione aramaica proveniente dal Vangelo che significa “Fanciulla, alzati”.
La marionetta si è effettivamente alzata e ha sbalordito il pubblico, in uno spettacolo che va rivisto una seconda volta per comprendere le dinamiche in scena.

Andreea Hutanu

Fotografie di Domenico Semeraro

TALITA KUM
Immaginato e creato da Marco Ferro e Valeria Sacco
Disegno luci Andrea Narese
Disegno del suono Stefano De Ponti
Musiche originali Luca Mauceri, Stefano De Ponti, Eleonora Pellegrini
Con Valeria Sacco
Regia Marco Ferro
Una Produzione Riserva Canini

Il musical Evita al Teatro Regio

Il celeberrimo musical firmato da Andrew Lloyd Weber e Tim Rice, la coppia d’oro di successi come Jesus Christ Super Star e The Phantom of the Opera, è al Regio dal 4 al 9 maggio 2018. Uniche date italiane del tour internazionale per questa produzione di Bill Kenwright in accordo con The Really Useful Group e prima esecuzione assoluta della versione per orchestra sinfonica: Sir Lloyd Webber in persona ha curato la revisione e orchestrazione della partitura, con David Cullen.

La presenza di un musical nella stagione Opera & Balletto ha fatto storcere il naso ai melomani tradizionalisti e in difesa della scelta qualcuno ha addotto la necessità di avvicinare all’opera gli under 30, presenze rare nei teatri lirici. La sera della prima erano presenti alcuni giovani, ma c’erano soprattutto anziani abbonati e persone di mezz’età che “avevano visto il film” (di Alan Parker, 1996, con Madonna e Antonio Banderas). La scelta del direttore artistico Gaston Fournier-Facio mira ad abbattere confini rigidi tra i generi, tema sempre dibattuto tra i musicologi, e ci offre la possibilità di godere di un brillante esempio di teatro musicale “leggero”.

Nelle ambizioni di Lloyd Webber c’era quella di avvicinare il suo musical alla tradizione operistica, in particolare a Giacomo Puccini: Evita è un sung-through musical in cui i dialoghi parlati sono sostituiti da recitativi e tutti i numeri musicali sono organicamente funzionali allo svolgersi dell’azione drammatica.

La vicenda segue la parabola esistenziale di Marìa Eva Duarte, adolescente ambiziosa e spregiudicata, che sposa il colonnello Juan Domingo Peròn e diventa Evita, influente first lady. Lloyd Webber e Rice furono accusati di aver reso glamour la dittatura, nonostante abbiano tracciato con parole e musica un ritratto ricco di contrasti. Il personaggio del Che (liberamente ispirato, ma non storicamente coincidente, con un altro argentino particolarmente affascinante) è una sorta di alter-ego di Evita ma anche voce di un popolo non compatto nell’osannare la Santa Peronista. Il Che pone le domande direttamente al pubblico, fa sorgere dubbi e ironizza sugli aspetti più smaccatamente celebrativi.

La regia di Bob Tomson e Bill Kenwright, insieme con la coreografia di Bill Deamer, mette in risalto gli aspetti più glamour e insieme contraddittori della vicenda. La visione che ci restituisce l’allestimento è quella di un panorama politico che funziona attraverso i meccanismi dello star system. Madalena Alberto rifiuta di sentimentalizzare l’eroina da lei interpretata e ne esalta invece le qualità di performer. La voce della Alberto si mostra sempre adatta a interpretare Evita mentre diventa sempre più bionda e più indispensabile al marito e da soubrette si trasforma in guida spirituale dell’Argentina. Ironica ed energica quando chiede di “Christian-Dior-izzarla”, soffice e suadente nella celebre Don’t cry for me Argentina. I due atti sono idealmente imperniati proprio su quest’ultimo song, che riassume la vicenda umana della protagonista e costituisce il più importante Leitmotiv, tessendo una trama di rimandi drammaturgicamente significativi e conferendo all’opera una eccezionale unità formale ed espressiva. Il Che è interpretato da Gian Marco Schiaretti, la sua voce è capace di esprimere una variegata gamma di tonalità e porta con sé un mix di passione e disincanto. Il Coro di voci bianche del Teatro Regio e il Coro del Conservatorio “G.Verdi” ben si amalgamano al cast di protagonisti. L’Orchestra del Teatro Regio diretta da David Steadman presenta, integrata all’organico sinfonico tradizionale, una sezione di strumenti appartenenti alla musica pop che rendono con forza espressiva stili diversi, tra cui tango argentino, ritmi sudamericani e rock anni Settanta: l’insieme che ne deriva è godibilissimo.

La prima di Evita è stata una serata in cui il piacere dei sensi e (la possibilità di) riflessione critica si sono incontrati lasciandoci l’amara consapevolezza che il populismo risuona fragorosamente nelle politiche contemporanee.

Una serata con Don Giovanni

Al Teatro Carignano di Torino, dal 3 al 22 aprile 2018, è andato in scena Don Giovanni di Molière, uno spettacolo in prima nazionale diretto da Valerio Binasco, al suo esordio come direttore artistico del Teatro Stabile torinese.

Arriviamo al Carignano. Cerchiamo il nostro posto. Ci sediamo e attendiamo l’inizio. Le luci si spengono: ci siamo! Il palco è illuminato da una candela in scena. C’è un telo scuro, semi trasparente. Attacca un arpeggio di chitarra. È Stairway to Heaven dei Led Zeppelin che accompagna la scena: Don Giovanni sta andando a caccia (di una donna). Lo scambio di battute è proiettato sul telo durante lo svolgimento dell’azione, quasi un omaggio al cinema muto.

Si tratta del prologo del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, primo ideatore di Don Giovanni. Un inizio interessante, anche perché estraneo – quasi fosse un frammento a sé stante – per scrittura, interpretazione, modalità, toni e musica al resto della commedia.

L’opera di Molière, suddivisa in cinque atti, narra le (ultime) avventure di Don Giovanni, seduttore seriale ante litteram, e del suo servo Sganarello, sempre al fianco del padrone in ogni nuova impresa e conquista: da Donna Elvira fino alle “contadinotte” Maturina e Charlotte. I due protagonisti sono costantemente in fuga dalle ire dei fratelli della prima e dal promesso sposo di Charlotte. Per trovare riparo e un po’ di riposo, si rifugiano per la notte in un bosco, in cui si imbattono dapprima nei già nominati fratelli e in seguito nella statua del Commendatore che tempo prima Don Giovanni aveva ucciso. Provocata da Don Giovanni che la invita a cena, la statua risponde positivamente e si presenta l’indomani per trascinare il seduttore impenitente con sé nel mondo dei morti.

Don Giovanni, interpretato da Gianluca Gobbi, è spogliato e rivestito di una contemporaneità lontana dalla tradizione letteraria francese seicentesca. I suoi punti di forza sono fisicità e voce, potenti come un tuono. E’ un’interpretazione, sia da parte del regista sia del protagonista, insolita, originale, estremamente viscerale e corporea. Don Giovanni è uno spietato cacciatore di prede, estremo nel concepire il contatto amoroso solo all’interno di logiche di puro consumo. E’ sposato sì, con tantissime donne in ogni città, ma l’unico vero rapporto di fedeltà è con il suo servo, interpretato da Sergio Romano, che lo segue dappertutto, facendosi trascinare da un’avventura all’altra e provando ogni tanto a farlo ragionare, come una moglie sensibile e pacata farebbe con il proprio marito.

Un altro tema fondamentale è il rapporto con la religione e con la morte (approfondito a più riprese con l’omicidio del Commendatore, interpretato da Fabrizio Contri che veste simbolicamente anche i panni di Don Luigi, il padre del protagonista). Don Giovanni si fa beffe di due delle esperienze che fondano ogni esistenza umana.

Non manca, inoltre, l’intenzione di richiamare la tradizione italiana, quella basata sui dialetti, in particolare per le scene nella locanda con i promessi sposi Pierrot (Lucio De Francesco) e Charlotte (Elena Gigliotti).

Le peculiarità del Don Giovanni contemporaneo affiancate alla tradizione dialettale e musicale che incontriamo all’interno dello spettacolo sono cifre stilistiche di un regista che ha come suo primo obiettivo la comunicazione con il pubblico. Parafrasando le sue parole nell’incontro di presentazione dello spettacolo nel ciclo Retroscena: a Don Giovanni, come a qualsiasi classico che si rispetti, piace emozionare ed essere aggiornato.

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» – Italo Calvino, Perché leggere i classici

Federica Beccasio

Riccardo Ezzu

di Molière

con Fabrizio Contri, Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Gianluca Gobbi, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Sergio Romano

e con Vittorio Camarota, Marta Cortellazzo Wiel

regia Valerio Binasco

scene Guido Fiorato

luci Pasquale Mari

costumi Sandra Cardini

musiche Arturo Annecchino

assistente regia Nicola Pannelli

assistente scene Anna Varaldo

assistente costumi Silvia Brero

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

La Traviata al Teatro Carlo Felice di Genova

Dopo il successo del 2016 torna al Teatro Carlo Felice di Genova la Traviata di Giorgio Gallione, con allestimento di Guido Fiorato e coreografie di Giovanni Di Cicco. Il successo verdiano, che due anni fa venne diretto da Massimo Zanetti e vide, lo ricordiamo, una giovane e talentuosa Maria Mudryak nel ruolo di protagonista, per questa ripresa è stato affidato al direttore d’orchestra australiano Daniel Smith.

Traviata debuttò il 6 marzo del 1853 al Teatro La Fenice di Venezia, con un libretto di Francesco Maria Piave che, riprendendo La signoria delle camelie di Dumas, cercò di spostare sensibilmente il confine della moralità, come amava il pubblico dell’epoca. Dalla mondanità parigina, fatta di feste licenziose e lieti calici, il testo attraversa un ambiente domestico di campagna, relativamente pacato e felice, per approdare infine, senza pietà, al letto di morte di una donna che ha scelto di sacrificare se stessa alla gioia del suo amato. Per la borghesia ottocentesca non poté che rivelarsi un cult, destinato ad entrare immediatamente nella storia del melodramma.

Se in Traviata dunque immoralità e rettitudine si scontrano nella personalità della protagonista, questo emerge innanzitutto dal libretto e dalla partitura musicale: di più difficile gestione è senza dubbio il piano scenico. Dai festini borghesi al giaciglio della malata, molti sono i caratteri che attraversano l’ambientazione dell’opera, e che più registi hanno ritenuto possibile dipingere di una tonalità onirica. Tra questi troviamo Giorgio Gallione che scrive: “Forse Violetta muore già nel preludio e l’opera è tutto un allucinato flash back visionario e spettrale”.

Tuttavia, mentre la regia rimane pressoché classica, a non convincere è l’allestimento moderno di questa Traviata che, muovendosi sul filo del cattivo gusto, “modernizza” gli ambienti dell’opera come a voler scandalizzare senza scandalo, in un luogo sterile e banale. I salotti parigini diventano tendaggi di bicchierini appesi, calati didascalicamente in prossimità del celebre brindisi intonato da Alfredo, la casa di campagna si trasforma in un ludico tappetone di mele finte, alcune delle quali ruzzolano appositamente verso il basso, causa il palco aggettante, arrestandosi contro una piccola balaustra prima di finire nel golfo mistico. Un albero caratterizza più di ogni altro elemento la scenografia, bianco, spoglio, agghindato con piccole candele. Nel primo atto questo troneggia in mezzo al palco e Violetta, coraggiosamente issata su dai mimi, canta una parte arrampicata su di esso. Un altro albero, identico, ma questa volta calato dal soffitto, disegna il secondo atto, in cui i ruoli sociali e sentimentali si ribaltano, modificando tragicamente il corso degli eventi. Infine, nel terzo atto, un colpo di scena: l’albero giace riverso a terra. A pochi centimetri da questo, sdraiata sul pavimento vitreo, Violetta fronteggia la tisi.

Ma basta davvero un albero mobile a fare di questa traviata una traviata simbolista? Se come dice il regista le traviate devono essere sublimi e volgari, va detto che sul piano scenico questa non pare né sublime né volgare. Tutt’al più, citando ancora Gallione, “una tragica carnevalata”, che, nel tentativo di rivitalizzare una pietra miliare della cultura italiana, rischia di farne nient’altro che una tenue parodia.

Per quanto concerne l’interpretazione è stata molto apprezzata Marta Torbidoni, il soprano italiano che ha sostituito Irina Polivanova, originariamente scritturata per la parte di protagonista. Fra le tre personalità di Violetta è probabilmente la terza quella che la Torbidoni interpreta al meglio, dolce e commovente. Altrettanto valido il baritono Mansoo Kim nel ruolo di Germont padre, che è solito raccogliere un forte successo nella serata con l’aria Di Provenza il mare, il suol. Ottimo il lavoro del Coro e dell’Orchestra del Teatro Carlo Felce.

Il coreografo Giovanni di Cicco ha realizzato una buona scrittura di danza, funzionale alla produzione. I suoi danzatori, eterogenei e duttili, spaziano dalla pantomima alla contact, gestendo molto professionalmente l’accoppiata tacchi/pavimento inclinato. Molto convincente il solo di danza che apre l’ultimo atto: l’interprete Melissa Cossetta, alter-ego della protagonista, esegue una coreografia lenta ed espressiva che ricalca nota dopo nota la condizione dolente del preludio. È il riscatto di un corpo danzante dopo gli abusi cui è sottoposto dal libretto nell’atto primo e secondo, notoriamente dediti ad una marcata esteriorità, tutt’altro che intima.

Il teatro ha registrato un pienone per lo più giovanile di non addetti ai lavori che, nonostante nel breve cambio scena del secondo atto si alzassero dai loro posti per fare intervallo, dà comunque una gran gioia vedere a teatro.

I Lombardi alla prima crociata del Teatro Regio

I Lombardi alla Prima Crociata, opera giovanile di Verdi, è in scena al Teatro Regio di Torino dal 17 al 28 aprile. Considerata emblema del melodramma primo-ottocentesco, intrisa di valori risorgimentali, l’opera debuttò al Teatro Alla Scala di Milano l’11 febbraio del 1843, un anno dopo lo strepitoso successo del Nabucco.

La regia di Stefano Mazzonis di Pralafera è nata nel marzo del 2017 per Jérusalem, in coproduzione con l’Opéra Royal de Wallonie-Liège, ma presenta qui la doverosa aggiunta del fondale iniziale raffigurante la piazza milanese di Sant’Ambrogio. Fedele all’impianto tradizionale, l’allestimento si costituisce di numerosi quadri, poco coreografati, decorati con scenografie classiche e costumi non troppo appariscenti, né anacronistici. Unica sperimentazione il breve video nell’interludio del quarto atto, a rappresentazione della battaglia fra crociati e musulmani. La musica di scena, sulle vecchie immagini in bianco e nero, spezza la recita con un pizzico di modernità.

Alla prima tra il numeroso pubblico figuravano diversi volti dell’élite torinese oltre ad esperti del settore. In seguito all’annuncio che il tenore Gabriele Mangione avrebbe sostituito Giuseppe Gipali nel ruolo di Arvino, un inaspettato gracchiare di microfoni ha divertito la sala e preoccupato il fonico che prima di risolvere il problema ha dovuto dire a gran voce al direttore d’orchestra: “Michele aspetta”. Risolto il guasto, l’opera ha potuto svolgersi piacevolmente sotto la direzione di Michele Mariotti, al suo debutto ne I Lombardi. Nel ruolo di protagonisti il basso-baritono Alex Esposito (Pagano), il soprano Angela Meade (Giselda), il tenore Francesco Meli (Oronte)e il basso Antonio Di Matteo (Pirro). Notevole l’interpretazione del celebre assolo di violino a sipario chiuso nel preludio del terzo atto. Meritati inoltre gli applausi per il Coro del Teatro Regio i cui unisoni delicati, puntuali e dinamicamente ben regolati sono il vero e proprio corpo portante dell’opera.

Nonostante il libretto di Temistocle Solera presenti una certa confusione drammaturgica, con quel groviglio di eventi che si succedono frettolosamente, la partitura verdiana già rivela la grandezza del compositore. La firma di Verdi basta a giustificare la ripresa di un’opera di per sé minore o la scelta va cercata in altri motivi, non solo artistici? La linea ideologica del soggetto è chiara a tutti: la lotta dei cristiani contro i musulmani nella prima crociata, terminata nel 1099 con la presa di Gerusalemme. Al tema della gelosia scatenata dall’amore e della redenzione del personaggio malvagio si accompagna la celebrazione dell’invasione nostrana in terra d’oriente, che termina fra le esultazioni patriottiche di un popolo fiero di aver conquistato la terra promessa. Riconosciamo che sarebbe tuttavia limitante rinunciare a una creazione del genere per via dei tempi che corrono. La scelta del regista è stata di concludere con le due parti che si abbracciano e cantano insieme. Al di là delle scelte di messa in scena, è una grande possibilità dell’opera lirica quella di farci vedere la realtà con una maggiore coscienza storica, anche quando si presenta nei suoi aspetti più controversi.

Recensione di Tobia Rossetti e Marida Bruson

ARTE La verità di una tela bianca

Al Teatro Gobetti di Torino, giovedì 15 e venerdì 16 marzo, è andato in scena Arte della drammaturga francese Yasmina Reza, diretto dalla regista esordiente Alba Maria Porto e tappa conclusiva del progetto “Arte: Dialoghi in Contemporanea”.

Serge, Marc e Yvan – interpretati rispettivamente da Christian La Rosa, Elio D’Alessandro e Mauro Bernardi – sono tre giovani che si conoscono dai tempi della scuola, che hanno condiviso scelte e gusti, ma che si sono allontanati in età adulta, separati da differenti obiettivi e sensibilità. La storia comincia quando Serge acquista per 200.000 euro un quadro totalmente bianco, gesto che provoca ilarità, ma anche sgomento nei due amici, specialmente in Marc. La loro amicizia è messa a dura prova da quelle che, all’apparenza, sembrano semplici divergenze d’opinione, ma che, con il progredire dello spettacolo, trovano ragioni più profonde. I tre personaggi inevitabilmente s’interrogano sul senso del loro rapporto, su un’amicizia che sembra basarsi solo sul ricordo del legame che li univa nel tempo lontano della scuola, e che ora si ritrovano perché Yvan ha chiesto agli amici di un tempo di essere i testimoni alle sue nozze, programmate per il giorno dopo.

L’immagine chiave del testo è quella del labirinto, in cui discussioni che sembrano sul punto di spegnersi vengono riaperte e rilanciate, in un ribaltamento continuo del punto di vista. A differenza di Il dio del massacro (diventato un successo internazionale grazie alla versione cinematografica diretta da Roman Polanski intitolata Carnage), Arte osserva i personaggi sotto una luce più marcatamente ironica, intrecciando momenti di riflessione e situazioni apertamente comiche. Sia per l’efficacia del testo, sia grazie agli interpreti, che si dimostrano in grado di cambiare pelle e adattare i toni e i sentimenti alle situazioni, lo spettacolo procede senza fare mai cadere la tensione, tenendo viva l’attenzione fino al momento finale.

Il labirinto trova il suo centro (che apre e chiude la pièce) nel dipinto.

La tela bianca, o meglio il concetto di arte che essa rappresenta, è il pretesto per far emergere le relazioni, le aspettative disattese, le illusioni, i diversi ego che cercano di imporsi sugli altri, le prese di posizione rispetto alle cose che accadono. La questione del punto di vista è resa dalla regista attraverso una scelta minimalista e austera per quanto riguarda scene e costumi. Tutto ciò che è in scena ha un valore. Gli abiti permettono allo spettatore di cogliere fin da subito l’indole dei personaggi. Yvan è l’unico dei tre che non presenta un colore dominante e il cui abbigliamento, abbastanza sciatto, segnala la scarsa capacità di gestire la propria vita e di avere una opinione propria, indipendente da quella degli amici. Serge, invece, ha un aspetto più raffinato, da artista, veste – in accordo con il suo dipinto – con tonalità chiare, che alludono a una sorta d’innocenza e a un ottimismo quasi infantile. Infine, Marc indossa un completo nero e una camicia viola scuro che rispecchia il suo atteggiamento nichilista e non di rado sarcastico. L’abitazione in cui si svolge la vicenda è allusa mediante un’impalcatura di luci al neon, scelta calzante per evitare soluzioni naturalistiche e valorizzare al massimo la parola del testo e l’interpretazione degli attori.

Come i tre personaggi che vedono nella provocazione del dipinto verità diverse, gli spettatori sono messi a loro volta di fronte al quadro bianco per trarne una verità, non assoluta, ma valida per loro. Poiché, parafrasando Herman Hesse, “di una storia è vero solo quello che lo spettatore crede”.

Riccardo Ezzu

Arte 

di Yasmina Reza

nuova traduzione Luca Scarlini

con Mauro Bernardi, Elio D’Alessandro, Christian La Rosa

regia Alba Maria Porto

scene e costumi Lucia Giorgio

in collaborazione con gli allievi dell’Accademia Albertina di Belle Arti

musiche originali Elio D’Alessandro

progetto video Indyca

un progetto di Alba Maria Porto, Annalisa Greco, Claretta Caroppo

in collaborazione con Il Mulino di Amleto, Tedacà

e con ERT per la residenza a Villa Pini

partner The Others Art Fair, Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, Brevidistanze

si ringraziano l’autrice Yasmina Reza

e Dominique Christophe Laboratorio Artistico Pietra

realizzato con il contributo della Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “ORA! Linguaggi contemporanei, produzioni innovative”

Bravo bravissimo! Al Regio l’inarrestabile vitalità di Rossini.

In occasione dell’anno rossiniano torna l’allestimento de Il barbiere di Siviglia creato nel 2007 dal Teatro Regio di Torino e più volte ripreso fino a diventare un piccolo classico. Le quattro recite (16, 20, 23 e 25 marzo) hanno registrato il tutto esaurito.

Il regista Vittorio Borelli restituisce la vocazione all’allegria propria di quest’opera, che Verdi definì «la più bella opera buffa che esista». La semplicità della regia se forse appiattisce la drammaturgia musicale di Rossini e Sterbini, che avevano sostituito all’incontenibile risata di Paisiello un sorriso divertito e malizioso, ha certo il merito di evidenziare i nodi essenziali della vicenda e di divertire il pubblico. Merito, quest’ultimo, da non sottovalutare.

Nel Rossini comico lo scavo psicologico è del tutto assente e sarebbe inutile e fuorviante andare a cercarlo. Il motore è l’ingegno, non necessariamente messo a servizio dei buoni sentimenti, e il propellente è il ritmo. Si pensi ai celeberrimi crescendo e ai magnifici concertati d’insieme: l’individualità dei personaggi è trascesa nell’effervescenza di un meccanismo ingegnoso descritto cronometricamente dalla pulsazione.

La direzione di Alessandro De Marchi trasmette, senza esagerazioni, il piacere del suono e del ritmo, la gioia che si sprigiona dalla partitura rossiniana.

Al godimento della vicenda ben si prestano i semplici parati lignei dipinti mossi a vista a definire gli ambienti della scena, a cura di Claudia Boasso, e i costumi di gusto andaluso di Luisa Spinatelli.

I cantanti si fanno apprezzare per la loro vis comica, in particolare Simone Del Savio nei panni di Don Bartolo e Carlo Lepore in quelli di Don Basilio.

Il giovane baritono Davide Luciano interpreta il barbiere factotum facendosi apprezzare, con il suo timbro scuro e caldo, sia per l’effervescenza, sia per il controllo dell’esecuzione.

Il tenore Francesco Marsiglia nel ruolo di Almaviva è capace di restituire i passi che richiedono particolare agilità, così come i momenti più lirici.

In questa versione è presente l’aria Cessa di più resistere, spesso tagliata perché considerata inutile al dramma. Lungi dall’essere una mera esibizione vocale, questo rondò con coro porta a compimento l’azione e riconsegna al personaggio del conte l’importanza che doveva avere per Rossini e Sterbini. Si ricorda che l’opera debuttò al Teatro Argentina di Roma nel 1816 con il titolo Almaviva, o sia l’inutile precauzione e nel ruolo del protagonista c’era la star Manuel García.

Ad ogni modo, che si ponga l’attenzione sull’élan vital di Figaro come celebrazione della nuova borghesia o se, al contrario, si riconosca nella vittoria di Almaviva un atto da Ancien Régime, tutt’altro che progressista, l’essenziale è l’aspetto ludico. Benvenuti, allora, quegli allestimenti non oscurati da improbabili echi di ghigliottine.

Gli applausi scroscianti del pubblico affermano, ancora una volta, l’importanza del gioco e del riso, elementi fondamentali del nostro vivere.

Marco Cavallo per i 40 anni della Legge Basaglia

Il secondo appuntamento della rassegna Quello che tutti chiamavano manicomio, promossa da Lavanderia a Vapore, Fondazione Piemonte dal Vivo, Regione Piemonte e Comune di Collegno in occasione del quarantennale della Legge Basaglia, ha ospitato il 7 Marzo sul palco della Lavanderia La storia di Marco Cavallo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Selve. La regia è di Franco Acquaviva, che è anche l’attore solista presente sulla scena, e l’aiuto alla regia è di Anna Olivero.

All’interno della cornice della rassegna occorre mettere in luce lo spirito col quale nasce il Teatro delle Selve: fondato nel 1998 da Franco Acquaviva e Anna Olivero, si impegna a promuovere una idea di cultura teatrale in grado di valorizzare le relazioni tra l’ambiente e la memoria che lo abita. Appare chiara l’aderenza rispetto al tema proposto dall’iniziativa e al luogo dello spettacolo: l’attuale Lavanderia a Vapore nasce infatti dalla ristrutturazione di quelle che erano le originarie lavanderie del manicomio di Collegno (questo l’ambiente) ed entra in pieno contatto con il tema proposto, volto a ricordare e riattualizzare il problema dell’esclusione sociale (questa la memoria collettiva). Come ci ricorda lo stesso regista infatti lo spettacolo “appare necessario oggi che molte delle conquiste sociali e civili di quegli anni sono messe in discussione” e la sua idea nasce principalmente da un bisogno di dialogo e di apertura sociale.

La storia di Marco Cavallo parla di quella che fu la prima esperienza di animazione teatrale condotta all’interno di un manicomio. Nel 1973 a Trieste, su idea di Franco Basaglia, un gruppo eterogeneo di persone (fra cui pittori, registi, insegnanti, scrittori, fotografi, animatori) decise di mettere a disposizione la propria professionalità per cercare un nuovo modo di stare insieme e modificare la realtà ancora chiusa e crudele del manicomio. Attraverso la creazione di un grande cavallo di legno e cartapesta dal colore azzurro, simbolo della gioia di vivere, e dalla pancia simbolicamente piena dei desideri di tutti i pazienti, l’esperienza aprì il manicomio alla città e contribuì a cambiare il modo di essere del teatro e della cura. Portata a termine la costruzione del cavallo venne infatti organizzata una grande parata per le vie di Trieste e il quadrupede di cartapesta divenne immediatamente il simbolo per eccellenza della liberazione manicomiale.

Il testo di Franco Acquaviva nasce dalla convergenza di diverse fonti rielaborate all’interno di una cornice drammaturgica creata specificamente per lo spettacolo. Marco Cavallo, il testo a cura di Giuliano Scabia, uno dei maggiori protagonisti dell’azione teatrale del ’73, è l’opera di riferimento, alla quale si aggiungono frammenti di altri testi che disegnano una situazione di teatro nel teatro con tre personaggi e diverse figure minori. Un teatro di narrazione, quello che il regista ci propone, attraverso una e-vocazione (più che una ri-evocazione) dell’atmosfera, delle idee e delle difficoltà proprie di quell’esperienza. L’attore, attraverso la forza della sua fisicità, crea un ricco tessuto di voci che dialogano nel corso della vicenda seguendo un ritmo sempre sostenuto, mai scontato. Il tutto prende avvio da un personaggio che ricorda un’esperienza risalente agli anni universitari, nei quali fu mandato a Trieste dal suo professore di Storia del teatro, nel manicomio quasi dismesso della città. Il suo compito era intervistare il responsabile di un laboratorio teatrale che si sarebbe realizzato nei padiglioni coi pazienti, ma inaspettatamente si ritrovò ad essere parte attiva dello spettacolo, dedicato appunto a Marco Cavallo.

Alle curiosità, ingenuità e resistenze del ragazzo si intrecciano il racconto dell’esperienza storica e le manie bizzarre e divertenti della compagnia dei matti. Nel reparto P troviamo un teatro partecipato, sudato, vissuto in comunità, “un gioco che però impegna”, nel quale i malati riescono a vedere un’attività libera, in cui poter fare ciò che desiderano. Lo studente, inizialmente scettico e dubbioso riguardo all’utilità dell’esperienza, grazie alla sua prolungata permanenza e al dialogo creato a mano a mano con la realtà che lo avvolge, riesce a comprenderne il valore, superando la crisi nata in lui in seguito all’uscita dall’ambiente universitario. Il ragazzo fa così ritorno dal professore senza aver compiuto l’intervista, ma portando con sé una diversa consapevolezza. L’attenzione portata dal regista sui muri interni alla mente dello studente ne è solo un esempio. Muri che, inoltre, ci riportano con un tuffo spontaneo nel presente, ai tanti muri, reali o simbolici, che la contemporaneità continua ad erigere nei confronti dell’altro. Uno spettacolo che, pur portando in scena un’esperienza passata, si dimostra nei suoi contenuti quanto mai attuale, rivolgendosi ad un pubblico appositamente composto da studenti liceali e universitari.

L’autore ci lascia con un messaggio: “la follia è un modo per uscire da se stessi”. Il teatro può rappresentare questa via, laddove esso non è semplicemente vita, ma “vita più follia”. Follia che deve essere insegnata a tutti perché è elemento positivo della vita, come l’acqua e il fuoco.

Si ricorda infine che il 19 marzo si è tenuto un prezioso incontro pubblico organizzato da Fondazione Piemonte dal Vivo e Lavanderia a Vapore presso il Polo del ‘900, nel quale sono intervenute importanti figure: Giuliano Scabia, Peppe dell’Acqua, Renato Sarti e Massimo Cirri. La riunione ha voluto rievocare il clima e le esperienze di quegli anni unitamente alla storia di Franco Basaglia per coinvolgere il pubblico in una riflessione partecipata sulla psichiatria.

 

recensione di Linda Casoli

La storia di Marco Cavallo

di e con Franco Acquaviva

aiuto regia Anna Olivero

produzione Teatro delle Selve 2014

con il patrocinio e il sostegno di: Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal vivo – Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo di Torino, Comune di San Maurizio d’Opaglio, Compagnia di San Paolo

 

Orfeo: il mito alle origini del teatro d’opera

L’Orfeo di Monteverdi andò in scena la prima volta nel palazzo Ducale di Mantova il 24 febbraio 1607. Se esso sia o meno considerabile dalla storiografia il primo esempio ufficiale di teatro musicale è una questione che tutt’ora fa dibattere i musicologi. Tecnicamente il primo melodramma fu l’Euridice di Peri e Rinuccini, rappresentato a Palazzo Pitti, a Firenze, il 6 ottobre 1600, a cui probabilmente Monteverdi assistette. Sicuramente l’opera monteverdiana è la più antica ancora presente nei cartelloni delle stagioni liriche.

Ricordiamo che alla corte dei Gonzaga fu invitato un ristretto numero di cortigiani. Il fatto che a distanza di quattro secoli il pubblico contemporaneo continui ad applaudire la creazione mantovana è indicativo dell’appeal che ancora esercita sui suoi fans. Forse in virtù dell’ordine armonioso che Monteverdi e Striggio infondono ad un’articolazione drammatica in cui si mescolano echi classicheggianti, gusto pastorale e vari effetti scenici.

Arduo è per gli stessi musicologi decretarne un’appartenenza certa allo stile barocco o a quello rinascimentale. A detta di Alessio Pizzech, regista della versione in scena al Teatro Regio di Torino dal 13 al 21 marzo, l’opera sarebbe musicalmente già barocca, ma drammaturgicamente ancora rinascimentale. Il soggetto infatti, ispirato al mito greco, è trattato in chiave profondamente filo-umanista: l’uomo alle prese con la necessaria comprensione dell’irreversibilità della morte.

A riflettere sulla propria condizione, amorosa prima e tragica poi, è il protagonista Orfeo, interpretato dall’eccellente baritono Mauro Borgioni, con un timbro appropriato, sempre comprensibile e un’interpretazione sentita.

La rappresentazione si inserisce nell’ambito del Progetto Opera Barocca. L’orchestra e il Coro del Teatro Regio sono affiancati dall’Ensemble strumentale La Pifarescha.

Dispiace che l’esecuzione sia stata disturbata da alcuni rumori, come quelli delle moquettes erbose, goffamente trascinate via nel bel mezzo dell’aria della Messaggera, interpretata dall’intensa Monica Bacelli.

Il bellissimo trompe l’oeil da studiolo umanista di corte che ospita scenograficamente la vicenda ha forse qualcosa a che fare con un certo inganno visivo, filo conduttore di questa resa dell’Orfeo. Esso viene rappresentato con immagini suadenti, attraverso coreografie sensuali, costumi di gusto kitsch (Caronte Aquaman, Apollo dorato con cetra al neon, becchini di Al Capone che trasportano il cadavere di Euridice), scenografie più barocche del barocco e quantità esageratamente fastose di persone in scena (non sempre coordinate tra loro) e di fantastici oggetti mobili.

Il palco inclinato è metaforicamente aggressivo, un’immagine aggettante verso lo sguardo inerme e goduto dello spettatore. Una regia consapevolmente provocatoria o semplicemente dettata dalle ineludibili tendenze attualizzanti che investono il mondo dell’opera?

Tobia Rossetti e Marida Bruson

IL BALLO

Un’attrice, 5 voci, tanti specchi.

Sonia Bergamasco porta sulla scena del Teatro Gobetti una favola nera di Irène Némirovsky, scrittrice francese di origine ebraica vittima dell’olocausto.

E’ la storia di Antoniette, una ragazzina quattordicenne, figlia di ebrei arricchiti, trascurata da una madre troppo narcisista ed egoista per preoccuparsi di lei.

Finalmente la madre ha ottenuto la ricchezza tanto desiderata e può permettersi di dare il primo ballo, che le aprirà le porte al suo debutto in società. Ma Antoinette viene esclusa: non può parteciparvi, e tanto meno rivolgere la parola a qualcuno. Chiusa in camera. Quello è il suo posto.

La ragazza allora compie il suo atto di vendetta: in un attimo d’ira getta nel fiume gli inviti, così che nessun nobile lo riceverà mai.

E’ il giorno del ballo: il tavolo è imbandito con pietanze di ogni tipo, la sala addobbata a festa, l’orchestra pronta per suonare. Ogni cosa è predisposta per accogliere la più alta società.

Ma non arriva nessuno. Solo la vecchia cugina, presenza non gradita dalla madre, ha ricevuto il biglietto a mano, e si trova ad essere partecipe di quest’immensa umiliazione.

Di fronte alla disperazione, la figlia, col viso nascosto tra le braccia della madre in lacrime, ride. La vendetta è stata compiuta.

Sonia Bergamasco porta in scena con un’interpretazione magistrale il racconto in tutta la sua spietatezza, dando voce ai 5 protagonisti: Antoinette, la madre, il padre, l’educatrice e la vecchia cugina.

Come scrive la stessa Bergamasco è una storia “di vendetta e di disamore; (..) il teatro di un bambino solo che costruisce il suo mondo, perchè il mondo conosciuto (quello degli adulti) non è bello e non gli piace”

Ed è questo che noi vediamo: una figura esile e bianca, che si muove sola, in un palcoscenico pieno di specchi, in cui si è costretti a guardare e guardarsi: in cui madre e figlia sono costrette a rispecchiarsi.

Ma la storia di Antoinette è molto più di questo: “è l’arma di vendetta di una scrittrice che sempre, in ogni sua opera, ricorda e non perdona. La scrittura come arma, scoperta molto presto da Irène, proprio contro quella famiglia, quella madre che non aveva saputo amarla.”

Lara Barzon

Racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco
liberamente ispirato a 
Il ballo di Irène Némirovsky
disegno luci Cesare Accetta
scena Barbara Petrecca
costume di scena Giovanna Buzzi
Teatro Franco Parenti / Sonia Bergamasco