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PREMI UBU 2019

Anche quest’anno abbiamo assistito al consueto appuntamento di consegna dei Premi Ubu, ossia il più importante riconoscimento teatrale del panorama italiano. Il 16 dicembre scorso, presso il Piccolo Teatro di Milano, si è tenuta la quarantaduesima edizione del premio, condotta da Cinzia Spanò e Graziano Graziani con l’accompagnamento musicale di Francesca Morello. La serata è stata trasmessa radiofonicamente da Radio 3 ed è stata seguita da gruppi d’ascolto sparsi in tutta Italia.

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UNA NUOVA STAGIONE PER PIEMONTE DAL VIVO

“Innovazione non è fare cose nuove, ma far bene cose giuste in un contesto che cambia continuamente”.

Mercoledì 23 ottobre 2019, Matteo Negrin ha condotto la conferenza stampa  di Piemonte dal Vivo presso il Talent Garden Fondazione Agnelli. La stagione 2019/20 che si sta aprendo rappresenta l’ultimo anno di un percorso triennale, durante il quale – il direttore lo può sottolineare con meritato orgoglio – la Fondazione ha quasi raggiunto tutti gli obiettivi che si era proposta.

In apertura alla conferenza, l’Assessore alla Cultura, Turismo e Commercio Vittoria Poggio – in rappresentanza della Regione Piemonte, socio unico della fondazione – seguita dalla presidente di Piemonte dal Vivo, Angelica Corporandi d’Auvare, rivolgono senza indugio lo sguardo a quelle che sono i pilastri di Piemonte dal Vivo: il lavoro sul pubblico e l’ampliamento delle piazze. È interessante notare a tal proposito, come Negrin abbia scelto di condensare l’operato della Fondazione facendo suo il pensiero sull’innovazione, che abbiamo messo in esergo, di un famoso sarto torinese scomparso da poco. Si tratta in tutto e per tutto di una metafora particolarmente azzeccata, guardando oltre la citazione scelta e concentrandosi anche sulla sua provenienza: l’uomo era di origine friulana ed aveva la sua sartoria in zona San Salvario, a Torino; si parla di accoglienza e attenzione all’individuo: Piemonte dal Vivo si riconferma anche quest’anno forte sostenitore delle realtà piemontesi, dispiegando allo stesso tempo le sue reti sull’Europa e sul mondo intero. Secondo un disegno che sta prendendo piede in Europa, la Fondazione ha scelto di porre al centro del suo lavoro il pubblico, non solo come target a cui rivolgersi ma come vero e proprio collaboratore: lo spettatore è co-immaginatore. È proprio in questo aspetto che sta la preziosità di Piemonte dal Vivo, tale da meritare il punteggio massimo tra i circuiti multidisciplinari a livello nazionale ed attestarsi un ruolo di rilievo, nonché di modello per qualità e innovazione.

La nuova stagione porterà in scena 900 repliche, di cui 150 di teatro per ragazzi. Ciò, unito all’invito a partecipare a spettacoli in luoghi e tempi insoliti, dimostra la reale volontà di Piemonte dal Vivo di cercare di demolire l’effetto intimidatorio ed esclusivo che le porte di un teatro ancora provocano ai più. Portare il teatro o la danza nei bar, come anche nei musei o nei tendoni da circo è un passo avanti verso una maggiore partecipazione dei cittadini allo spettacolo dal vivo. Allettante risulta anche la proposta di inserire le notti al museo – serate di performance negli spazi museali – all’interno di un particolare abbonamento musei.

L’anno 2019/20 porterà inoltre a piena realizzazione alcuni dei programmi che negli scorsi anni erano stati in fase di rodaggio, tra i quali merita attenzione l’abbonamento PLUS, che permette agli abbonati di teatri piccoli di fruire di spettacoli maggiori in centri più grandi, oltre a quelli presenti nella programmazione del proprio paese. Il progetto di interconnessione non solo consente allo spettatore un’esperienza più completa, ma permette anche ai teatri più piccoli di caratterizzarsi, seguendo la propria inclinazione, senza negare la possibilità di altri tipi di spettacolo al proprio pubblico.

La nuova stagione sarà insomma una stagione caleidoscopica, come l’ha voluta definire la Fondazione stessa. Una stagione che si scompone e si ricompone costantemente, riadattandosi di volta in volta ad un nuovo equilibrio, esattamente come il tenace lavoro di Piemonte dal Vivo in perenne trasformazione in relazione ad un contesto che cambia continuamente.

In ultimo, la Fondazione ci tiene a ringraziare il suo intero corpo organizzativo, che detiene il vanto di essere formato da numerosi giovani. Il vantaggio di questa composizione è certamente quello di poter contare su una spinta verso un cambiamento particolarmente attento, in quanto interno e vicino alla società in movimento, ma è anche un augurio per tutti coloro che hanno voglia di esser parte di questo cambiamento.

Ada Turco

Teatro Regio: la stagione 2019/2020

La prossima del Teatro Regio sarà una stagione particolarmente ricca. Ben diciassette titoli (un record) distribuiti tra opere italiane, francesi, tedesche, balletti, musical, opere-non-opere, opere celebri, opere meno celebri, persino una prima assoluta per l’Italia. E in tutto ciò c’è pure qualche nome interessante, tra registi, cantanti e direttori d’orchestra. C’è insomma di che farsi venire l’acquolina.

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Quasi niente, Qohélet ironico di Deflorian/Pagliarini

Quasi niente, ultimo lavoro di Daria Deflorian e Antonio Pagliari, in scena alla ventiquattresima edizione del Festival delle colline è un ritratto autoironico e colto dell’uomo occidentale contemporaneo.

L’origine, l’idea generativa è Deserto Rosso di Antonioni, ma affiora poco nei discorsi degli attori, lo spettacolo infatti conserva una sua autonomia.

Immaginiamoci – noi contemporanei – come fossimo un quadro impressionista. Immaginiamo che un Renoir ci abbia detto di osservarci alla distanza di un braccio. Ebbene, con Quasi niente, Deflorian/Tagliarini disobbediscono: prendono uno specchio e ce lo mettono di fronte, ma non seguendo le prescrizioni del Pierre-Auguste. No, lo mettono vicino, mostrandoci la nostra inadeguatezza nei confronti della vita, la nostra scomodità nell’abitare il mondo e ci regalano la possibilità di ridere di noi stessi attraverso una delle armi più potenti dell’essere umano: l’autoironia. Lo fanno in uno spettacolo raffinato, pieno di riferimenti colti: dalla Munro a David Foster Wallace, passando per Mark Fisher e Han Kang.

Deflorian segue con grande efficacia la lezione di Peter Brook: la scenografia è essenziale – pochi mobili, tra cui una poltrona, collocati ai margini della scena – saranno poi gli attori a portarli più al centro, nel momento in cui li menzionano –  alcuni inizialmente ribaltati.

 Lo spettacolo è in mano agli attori, davvero notevoli, che attraverso gesti e tempi comici perfetti creano il mondo scenico. Teatro nella sua accezione più pura.

I cinque attori interpretano cinque manifestazioni diverse dell’uomo contemporaneo: Monica Piseddu è una quarantenne depressa, Daria Deflorian una sessantenne ipocondriaca e ansiosa, Francesca Cuttica, una trentenne che si sente buona a nulla, Bruno Steinegger e Antonio Pagliarini, rispettivamente, un quarantenne e un sessantenne, l’uno oppresso dal lavoro, l’altro omosessuale in solitudine.

Quasi niente mostra tante manifestazioni della sofferenza, denunciando, senza reticenze e senza smancerie, che stare al mondo è difficile, che la vita è storta e che vani sono i nostri tentativi di raddrizzarla. Inadeguate si rivelano le strutture con cui cerchiamo di dare un senso, un ordine nostro vivere. L’unica arma è l’autoironia, nell’attesa di un nuovo dolore.

Quasi niente è lavoro di grande umanità, come tale molto coraggioso, perché denunciando, con pungente ironia, il non senso, l’impossibilità della cura definitiva, questo Qohélet teatrale dà i necessari anticorpi per resistere alla società del Think positive! che ci pretende sempre performanti e ci illude di poter cancellare totalmente la sofferenza. Ribadendo con grande intelligenza che i momenti più vitali sono proprio quelli dei piccoli grandi tormenti. Non rimane che amarsi e ridere insieme: Quasi niente, ma non è poco!

Giuseppe Rabita

Piemonte dal vivo. conferenza stampa

Mercoledì 15 aprile 2019 ha avuto luogo la conferenza stampa di Piemonte dal Vivo in Piazza della Repubblica a Torino. Non poteva tenersi in una cornice migliore, quella del nuovo Mercato Centrale, dal quale è possibile ammirare l’intera città pur rimanendo all’interno del suo cuore pulsante. Sicuramente un’analogia con quella che è l’attività della Fondazione, di smuovere, valorizzare e vivificare culturalmente l’intera regione piemontese, con le radici ben piantate nel suo territorio.

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Fair Play, il pugilato dolce e malinconico della stagione 2019-2020 TST

Travolgente, inatteso, ardente di passione come gli amori extraconiugali (il mio matrimonio, celebrato e consumato, era con il cinema), l’amore per il teatro.

Ed ecco quindi che, dopo una serie di serate memorabili della stagione del Teatro Stabile di Torino non ancora conclusasi (Arlecchino! Novecento…! La scorticata…! Così è (se vi pare), ma anche L’Abisso, Pueblo, i recenti Amleto e Petronia!), il 7 maggio, a mezzogiorno sono al Carignano per la conferenza stampa in cui si annuncia la stagione 2019-2020, goloso come una golosa di Gozzano, che pur mentre inghiotte, / già pensa al dopo, al poi; / e domina i vassoi / con le pupille ghiotte. Ad aprire la stagione, Valerio Binasco come regista e attore (evviva!), al Carignano con Rumori fuori scena, spettacolo ormai cult del teatro contemporaneo in cui una scalcagnata compagnia tenta di mettere in piedi uno spettacolo (passare non può senza menzione nel cast il nome di Margherita Palli, scenografa che vanta collaborazioni con Luca Ronconi; quest’anno ci ha lasciati senza fiato con le sue architetture sceniche di Se questo è uomo,  con la regia di Valter Malosti che apprezzeremo anche nella stagione ventura: è infatti una delle tre riprese in cartellone). Sempre Binasco firma la regia di Uno sguardo dal ponte, altro classico contemporaneo che chiuderà le danze della stagione.

Dai primi titoli è già lampante che si tratta una stagione con i piedi ben piantati per terra e uno sguardo – velato di malinconia – sul mondo: a confermarcelo, la bambina pugile sul manifesto all’ingresso che ha sostituito quella della scorsa stagione che aveva occhi sgranati di meraviglia. Pugilato e teatro. Un’arte e uno sport che hanno a che fare col corpo e non hanno paura della sporcizia umana. L’attore e il pugile devono affrontare un avversario. La differenza: l’attore è solo contro una moltitudine. Sono pugni malinconici quelli che ci prenderemo dalla stagione prossima, assestati con dolcezza. Non a caso l’immagine richiama, come ben ricorda Binasco, una raccolta poetica molto amata: La bambina pugile di Livia Candiani. Ha proprio ragione: la bambina pugile è la nostra anima, l’anima del teatro, «quella di tutti gli artisti e di chi ama l’arte». Il titolo completo della raccolta è La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, e a me sembra che tutto torni perché la stagione si chiama Fair Play. Ora, se oltrepassiamo la comune traduzione di “buone maniere” come ci chiede di fare Binasco, scopriamo che significa anche “gioco leale, corretto” e tutto questo ha a che fare con la precisione, con la precisione dell’amore.

Dunque, sul ring, tra i 74 titoli in programma – 17 produzioni TST  (9 nuove produzioni esecutive, 5 nuove coproduzioni e 3 riprese), a combattere lealmente saranno tante donne. Per Elena Serra addirittura il ring non sarà a fine gennaio tra le mura teatrali, ma all’interno di una delle più note gallerie torinesi, la Franco Noero, accanto al Carignano: a lei dobbiamo Scene di violenza coniugale / Atto finale co-prodotto con il Teatro Nazionale di Dioniso. Una doppietta di Serena Sinigaglia: a novembre dirigerà una riscrittura goldoniana operata da Trevisan, La Bancarotta,alle fonderie Limone, a marzo Macbeth, al Carignano, entrambi prodotti dal dallo Stabile di Bolzano. Da non perdere il ritorno, con un produzione del Teatro Stabile di Torino, di Kriszta Szèkely dal teatro Katona di Budapest. Sua sarà la regia di Zio Vanja con la partecipazione di Pierobon e Marescotti. Laura Curino (che tra pochi giorni salirà sul palco del Gobetti) tornerà anche durante Fair Play in compagnia di Lucia Vasini con L’anello forte, spettacolo tratto dall’omonimo testo di Nuto Revelli, «una gigantesca Spoon River contadina», come scrisse Stajano di questi racconti di donne povere.

Ma il mondo umano è un continuo scambio tra maschile e femminile, in questa lotta meravigliosa quotidiana e infinita di equilibri mai raggiunti. Il teatro è il luogo per eccezione dove questo accade: non è un caso che un fiore all’occhiello della stagione sarà Macbettu. (E badate, chi come il sottoscritto ha avuto la fortuna di vederlo  alla scorsa edizione del Festival delle Colline Torinesi non può essere imparziale: è il cuore che parla!). Tre uomini nei panni delle streghe, pietre terra sangue e maschere, questi gli ingredienti con cui Alessandro Serra ci racconta in sardo la tragedia inglese; mai potrei mancare dal 19 al 24 novembre alle Fonderie Limone. Il talentuoso regista sardo, che affonda le radici del suo percorso artistico nel teatro di ricerca, ci regalerà anche la regia del primo dei due titoli di Ibsen nel cartellone della bambina pugile: Il costruttore Solness, capolavoro della maturità nel quale colui che ha messo a nudo l’anima borghese di fine Ottocento racconta della lotta a perdere di uomo contro il tempo che passa. Lo spettacolo vedrà in scena Umberto Orsini, che peraltro – eh, tante volte mi fa l’occhiolino questa Fair Play – sarà impegnato nel titolo Il nipote di Wittgenstein, tratto da un testo di Bernhard, autore da me molto ammirato. L’altro titolo del norvegese messo in scena è Nemico del popolo, Popolizio alla regia. Tra gli altri must della storia del teatro: ritornano Arlecchino servitore di due padroni, diretto da Binasco, e la regia buñueliana del Così è (se vi pare), a oggi il successo della stagione in corso, portato a casa da Filippo Dini (al lavoro anche per la regia di un’altra produzione dello Stabile: il kinghiano Misery), poi Mistero Buffo, produzione TST e regia di Eugenio Allegri (il suo posto in Novecento lo prenderà Alessandro Baricco con un reading del suo testo al Carignano). Chicca: Allegri, con il placet di Dario Fo, aggiunge misteri inediti ai tanti irriverenti del premio Nobel scomparso nel 2016. Ancora: I Giganti della montagna con Gabriele Lavia regista e attore; e infine in questa rassegna di classici, Tartufo, regia del maestro del teatro internazionale Koršunovas.

Dalle numerose sere di Wonderland posso confermare le parole del presidente Lamberto Vallarino Gancia, quando alla conferenza sottolinea che il rischio culturale è il comun denominatore di molti spettacoli dello Stabile, continuo è infatti lo sguardo al nuovo e alla contaminazione di linguaggi: nella stagione sono presenti spettacoli come L’arte di morire ridendo o Lodka che guardano al mondo dei clown. Come dimenticare, inoltre, la presenza del maestro del teatro di ricerca Peter Brook con il suo Why? in scena alle Fonderie Limone a maggio? Nemmeno i frequentatori degli spettacoli di danza resteranno a bocca asciutta: sempre viva è infatti la collaborazione con il Festival Torinodanza.

Nell’attesa che si spengano le luci delle sale del Teatro Stabile di Torino, che si riconferma un’eccellenza nazionale riconosciuta anche a livello europeo.

 Concludiamo con le parole del direttore Filippo Fonsatti: «La bambina che indossa i guantoni da pugilato, pronta a difendere lealmente una nobile causa, ci ricorda Greta Thunberg  e  Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante: un inno all’adolescenza, alla sua energia e alla sua bellezza come visione politica per cambiare il mondo. Oggi più che mai, per gestire questo cambiamento senza scontri astiosi abbiamo bisogno di fair play nelle dinamiche socio-economiche e nella convivenza civile, nelle relazioni umane e nelle scelte politiche, recuperando il valore assoluto dell’etica comportamentale, della lealtà, del rispetto per chi la pensa diversamente».

Ci vediamo in sala!

Giuseppe Rabita

Va Pensiero – una settima con la compagnia Teatro delle Albe

Può la parola farsi vita? Con certezza rispondo negativamente a questa domanda: nell’eterna lotta con la vita la parola scritta perde. La sua salvezza è tornare alla fonte, alla vita, alla carne. È questo che cerco che e che trovo nel teatro che più mi segna.

Accompagnato da queste riflessioni vado  un pomeriggio, nello studio del  mio docente di Storia del teatro con l’intenzione di farmi indicare le strade più interessanti da seguire in questa forma d’arte così antica, eppure per me ventenne pressoché inesplorata.

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Il capitalismo in tre atti. Lehman Trilogy di Stefano Massini

C’è un libro che tutti gli studenti di economia dovrebbero leggere: Lehman Trilogy di Stefano Massini (Einaudi). E’ un testo teatrale del 2014 che segue la storia della banca americana Lehman Brothers, dalla nascita nel 1850 al fallimento nel 2008. Un fallimento con debiti per 613 miliardi di dollari, considerato una della cause principali della crisi attuale. Ma Lehman Trilogy non è solo una lezione di economia, è un testo scritto con perizia tecnica e molto divertente, in cui l’elemento centrale sono i singoli personaggi che dirigono la banca, che Massini ritrae in modo veramente originale.

Nel 1850 Hayum Lehmann, ventiduenne ebreo di origini tedesche, sbarca a New York e il suo nome diventa Henry Lehman; apre un negozio di stoffe a Montgomery, capitale dell’Alabama, dove lo raggiungono i fratelli Emanuel e Mayer. Questo è il punto di partenza della Lehman Brothers. Da qui in poi la loro storia non sarà che un scalata nel mondo del commercio, una scalata che inizia per caso e forse nemmeno desiderata, portata avanti con umiltà, profondo senso religioso e capacità di adattamento. Quando le piantagioni della città vanno a fuoco Lehman Brothers diventa un’azienda di compravendita di cotone; quando la guerra civile devasta gli Stati Uniti Mayer trasforma l’azienda in banca con l’incarico di finanziare la ricostruzione del Sud. Poi il trasferimento a New York e l’ingresso a Wall Street: la banca è tra le più importanti al mondo e investe in carbone, caffè, ferro, in tutto. Nel frattempo il figlio di Emanuel, Philip, un calcolatore, un parlatore, già a dieci anni un banchiere perfetto, diventa direttore della banca e non sbaglia una mossa: è lui che investe sulle sigarette, sulle ferrovie, sulla costruzione del canale di Panama. E’ lui soprattutto che trasforma la Lehman Brothers in una banca che non investe più in oggetti concreti come il caffè o la stoffa, ma in denaro: ecco la borsa valori. Il figlio Robert lo affianca nella direzione, ma nel frattempo siamo già al 24 ottobre del ’29…

 

Il testo è di sicuro una lezione di storia dell’economia. Viene spiegato come la Lehman Brothers è organizzata internamente, come discute un progetto che deve finanziare, come si crea la propria rete di collaboratori. Come un padre tiene lontano un figlio dalla banca, o un neolaureato arriva a essere dirigente. E’ molto interessante vedere che quando si affacciano sul mercato le invenzioni che cambieranno il mondo, l’aereo, la televisione, il cinema, alcuni perplessi non vogliono investire. Nascono nuovi campi in cui allargarsi, situazioni da sfruttare e perciò scelte da fare: scopriamo che è grazie alla Lehman Brothers che certi prodotti sono entrati nelle case di tutti. In generale il libro mostra la trasformazione dell’economia nel corso del tempo, fino al concetto di agenzia di trading.

 

Ma Lehman Trilogy è particolare anche per altre cose, a cominciare dal modo in cui sono descritti i personaggi. E’ un testo teatrale, ma non ci sono parti: un’unica voce racconta, parla dei personaggi in terza persona, in versi, interrotta qua è là da schegge di discorsi diretti o dialoghi. Questo permette di raccontare la vita dei personaggi e scrivere i loro pensieri come in un romanzo, ma è chiaro che a teatro si sarà costretti ad adottare soluzioni insolite. Baricco ha scritto: “Avevo pensato: impossibile farla a teatro. Mica per altro, è che il testo non ha le parti per gli attori, non ha dei personaggi, non ha una struttura da testo teatrale: è un fiume, in cui le voci si mescolano, i dialoghi nuotano dentro il racconto, la voce narrante compare e scompare, cose così. È molto più un romanzo o un poema epico” (Luca, Vanity Fair del 9 dicembre 2016). Così nel fortunatissimo spettacolo che ne è stato tratto, l’ultima regia di Luca Ronconi, gli attori parlavano in terza persona di se stessi.

 

Massini affronta le figure di questi banchieri con pagine veloci, con tecniche che spiegano il personaggio in poche righe. Per esempio, a ognuno è attribuito un oggetto che lo rappresenta: Henry è la testa, Emanuel il braccio, Mayer una patata. Philip è l’agenda, dove segna in stampatello tutti i suoi problemi/ e giorno per giorno deve scrivere anche la soluzione. Con strumenti come questo l’autore costruisce i personaggi, anche estremizzando alcune personalità, e scrive pagine a volte divertenti, a volte profonde, ma sempre immediate. Un esempio, il matrimonio di Philip Lehman. Philip è talmente quadrato che sceglie la moglie con una classifica sull’agenda, con una stretta selezione tra 12 candidate, del tipo:

 

MESE: NISSAN

CANDIDATA: ADA LUTMAN-DISRAELI

PORTAMENTO: AUSTERO

SPIRITO: ACCIGLIATO

CULTURA: MASSIMA

SINTESI: UN RABBINO

PUNTEGGIO: 120 SU 200

 

MESE: TAMUZ

CANDIDATA: ELGA ROSENBERG

PORTAMENTO: DECORATO

SPIRITO: INGESSATO

CULTURA: ELEMENTARE

SINTESI: CERAMICA DIPINTA

PUNTEGGIO: 71 SU 200

 

I tre fratelli fondatori, invece, sono ritratti da Massini con molto più affetto, sottolineandone l’umanità e la semplice voglia di farsi strada. Ecco come Emanuel corteggia una ragazza, ma da bravo braccio non sa cosa sia la diplomazia:

 

“Non potreste fare un matrimonio migliore

e al tempo stesso un affare:

vendiamo il cotone di 24 piantagioni.”

“Complimenti, ma io che c’entro?”

“C’entrate molto

 dal momento che ci sposeremo

 io e voi.”

“Io e voi?”

“Lascio vostro padre

 decidere la data e la ketubàh.”

“E a me cosa lasciate?”

“Perché? Volete qualcosa?”

Quando la porta di casa Sondheim

si chiuse

violentemente

sulla sua faccia

Emanuel Lehman non si perse d’animo:

dette a se stesso appuntamento

lì davanti

fra non più di una settimana

e mise il mazzolino di fiori dentro un vaso

per non doverlo ricomprare.

 

Questi sono estratti divertenti; soprattutto nella seconda e terza parte però i personaggi sono tormentati, frustrati, e comunque raffigurati con pagine limpide. Con Robert Lehman, figlio di Philip, l’autore costruisce il personaggio più complicato del libro. Robert ha la passione dei cavalli, delle corse e delle scommesse, e il cavallo ovviamente sarà il suo simbolo: su cui puntare, ma che deve correre, che può anche perdere. Che a pochi secondi dalla fine improvvisamente supera tutti e vince. Pur essendo a capo della Lehman Brohers, Robert è oscurato dal cugino Herbert, governatore di New York dal ’33 al ’42, e lo sforzo immane che sta facendo per tirare la banca fuori dalla crisi passa inosservato; eppure è lui è quello che capisce che bisogna investire nel cinema e nei computer. La parte del libro dedicata a Robert è quella più complessa perché si mischiano molti stili, i sogni si sovrappongono alla realtà, l’ebraismo diventa protagonista (Robert si convince di essere Mosé).

 

Ronconi scrive nella prefazione all’edizione Einaudi: “In questo navigare tra i due opposti rischi- egualmente retorici- di assoluta esecrazione e piena incensazione del capitalismo, Massini riesce tuttavia a consegnarci un catalogo di personaggi privi di tesi, teatralmente efficaci proprio perché mobili, inafferrabili, immuni da quella malattia che alla Walt Disney ci fa dividere agilmente la lavagna fra presunti buoni (anticapitalisti) e presunti cattivi”. E lo stesso Massini conferma in un’intervista: “Mi sono attenuto al mio obiettivo di non emettere nel modo più assoluto alcuna forma di condanna”. Questo è vero se guardiamo alla voce narrante, che non si lascia scappare nessun giudizio su quello che racconta. Tuttavia il lettore è chiamato a giudicare perché molte pagine sono scritte con una sottolineatura della degenerazione del mondo delle banche, della natura puramente speculativa dei dirigenti, che guardano alla popolazione americana come a una risorsa da sfruttare e da spremere. Nella seconda e terza parte è questa la visione del mondo della Lehman Brothers. Per noi è impossibile non giudicare:

 

Philip Lehman si è fatto furbo

-ed è il suo capolavoro-

scrivendo sull’agenda

in stampatello

NOVECENTO= NEVROSI, NEVROSI= SVAGO

E fra tutti gli svaghi da finanziare

non ha scelto quello che va per la maggiore

cioè l’acool

[…]

ha puntato sul tabacco

o meglio: sulla National Cigarettes.

 

Senza dimenticare il discorso del Direttore Ramo Pubblicità (già nel secondo dopoguerra) in una riunione:

 

“Se noi trasformeremo la fiducia fra uomini

nella fiducia in un marchio

noi otterremo ben altro che nuovi clienti

otterremo persone che su di noi

non si faranno domande.”

E’ qui che si vede di più la mediazione e la presenza di uno scrittore, che attribuisce una natura particolarmente negativa e grigia ad alcuni personaggi, discorsi e idee. Del resto nello spettacolo di Ronconi alcune figure sono state rese esplicitamente negative attraverso il modo in cui parlavano, l’abbigliamento e il trucco, come il broker Glucksman, pallido in faccia, addosso una specie di impermeabile nero, la voce stridente. Il lettore giudica perché confronta continuamente queste figure con gli umili e scrupolosi fratelli fondatori. Come dice Massimo Popolizio, che interpreta Mayer: “Questi tre ragazzi avevano un’idea del denaro diversa da quella che avranno poi i nipoti, più consona al tempo, più vicina all’umano, alle cose”.

Anche per questo ci sono riferimenti continui all’ebraismo. Dalla prima pagina viene chiarita l’importanza della religione nelle vite dei fratelli, una devozione prioritaria e scrupolosa. Quando muore Philip, invece, la Lehman Brothers non segue il rito ebraico da rispettare nei momenti di lutto e fa solo un minuto di silenzio. Questa perdita di radici coincide con la perdita della moralità della banca, con la trasformazione in squali.

 

La cosa che rimane di più del libro è la tecnica con la quale è scritto. Si mescolano più stili e il lettore riconosce non solo una perfetta conoscenza della lingua drammaturgica. C’è un certa musicalità in alcune pagine, nel senso che si costruisce un ritmo talmente incalzante che sembra di sentire sotto al testo una musica, allegra e molto veloce. Altre volte le pagine sono proprio costruite come strofa- ritornello, con un gruppo di parole sempre uguali che si ripetono durante la scena. Ma ci sono anche tecniche più nascoste: invece di scrivere semplicemente che il caffè viene spedito, Massini scrive: il caffè parte da New York/ contrattato/ firmato/ pagato/ imbarcato. Ci sono, poi, figure simboliche, come quella dell’uomo che cammina sul filo: ogni giorno, quando Philip Lehman va a Wall Street, trova un equilibrista che cammina su un filo sospeso tra due palazzi. Philip in borsa è quell’equilibrista. Già questa scena sarebbe impensabile se si girasse un film sui Lehman Brothers o se ne scrivesse un romanzo, perlomeno un romanzo con l’obiettivo del realismo. Iin verità tutte queste tecniche e questi personaggi sarebbero considerati inadeguati per altri generi, mentre questo è un testo in cui tutto è possibile, perché è una scrittura a metà tra la canzone, l’epica e il teatro.

Lehman Trilogy è un testo che certamente insegna molte cose, ma è un insegnamento che va di pari passo con la componente letteraria. E’ un libro che inizia con uomini che collaborano tra loro e finisce con uomini che cercano di superarsi e sfruttarsi a vicenda. Tu capisci i protagonisti, vivi le loro vite, i loro dolori, i pesi che hanno addosso, eppure da un certo momento in poi non stai più dalla loro parte.

Stefano Massini, Lehman Trilogy, pp 344, Torino, Einaudi, €17,50

Incontro con Emma Dante – Tradire la fiaba per ritornare alle origini

Incontrarsi è una cosa sempre più rara siamo sempre con lo sguardo “calato” sui nostri display e il teatro serve ad avere questo sguardo dritto in un momento in cui dritto non è.

Emma Dante

1. Pre-messa o ri-messa in scena

Venerdì 7 dicembre 2018 all’Auditorium Quazza di Palazzo Nuovo (Università di Torino), Emma Dante ha incontrato gli studenti del DAMS per presentare i suoi tre spettacoli in scena a Torino nella stagione teatrale 2018/2019.  Accanto a lei, Anna Barsotti (Università di Pisa) e Federica Mazzocchi (DAMS, Torino).   

Emma Dante ha voluto precisare sin dall’inizio che per lei e per la sua compagnia è molto importante “fare repertorio”, ovvero far sì che spettacoli “antichi” possano continuare a vivere e a girare, confermandosi, modificandosi e arricchendosi, perché siano sempre vivi e attuali.

Così è per lo spettacolo Gli alti e bassi di Biancaneve che è già stato a Torino, ospitato dalla Fondazione TRG, e che tornerà a gennaio per Fertili Terreni Teatro; e ugualmente per La Scortecata, prima volta a Torino, ma che gira già da due anni. Questi spettacoli, che fanno parte della storia della compagnia, contribuiscono a definirne l’identità e il percorso poetico di ricerca. Non sono spettacoli che vengono poi accantonati: “Sono organismi viventi che hanno bisogno di un cammino e di crescere.”

Il debutto vero, prima assoluta, è quello di Hans e Gret, spettacolo per ragazzi prodotto dalla Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani di Torino. Si tratta di un’anomalia per Dante che solitamente non accetta di affidare ad altri la produzione dei propri spettacoli (per paura che possano essere “sciupati”). Lo spettacolo resterà nel repertorio della Fondazione, una realtà che Emma riconosce come unica nel panorama del Teatro Ragazzi, in grado di avere quella cura e quel rispetto per la materia viva: non solo dello spettacolo in sé, ma anche degli interlocutori ragazzi, troppo spesso ‘abbindolati’ da spettacoli superficialmente ridanciani, ma che in realtà non sanno farsi vettore di quella che Rodari avrebbe definito la “capacità dei bambini a impegnarsi nelle cose grandi”.

Lavorare sul repertorio significa mantenere vivo uno spettacolo, che muta e si riadatta seguendo una continua ‘riscrittura’, in linea con il trascorrere del tempo e con la sua natura di organismo vivente.  Consideriamo per esempio Ballarini, spettacolo del 2011.  È stato ripreso di recente con gli attori storici che nel frattempo sono invecchiati. Uno spettacolo tutto ballato non parlato, quindi molto fisico che nella ripresa è stato modificato aggiungendo un dialogo tra i due protagonisti. La ‘riscrittura’ nasce da una maturazione sia dei tempi, ma anche del vissuto degli stessi interpreti e della regista. “Questo spettacolo, che parla di due vecchietti che danzando ritornano alla loro giovinezza, ripreso quasi dieci anni dopo la sua creazione, ha ancora qualcosa da dire se continua ancora oggi a commuovere giovani di vent’anni”, cioè – dice Emma Dante – gli allievi della sua scuola di teatro che hanno assistito alle prove.

2. La lingua teatrale di Emma Dante

“Chiamarlo dialetto è riduttivo”

Anna Barsotti docente dell’Università di Pisa ha parlato del lavoro sulla lingua di Emma Dante, soprattutto in rapporto alla prima trilogia della famiglia siciliana (mPalermu, Carnezzeria e Vita mia). La radice della lingua è il palermitano, ma un palermitano reinventato, perché è il lavoro con l’attore nelle prove non-prove che la lingua diventa corpo e si reinventa attraverso la struttura dell’opera. C’è un rispetto profondo per l’identità degli attori e dei loro idiomi. Nel teatro di Dante troviamo commistioni con il campano, con il pugliese, il siciliano e accenti francesi rubati all’identità e alla verità degli attori, che nei suoi spettacoli entrano a pieno titolo nella scrittura drammaturgica. La lingua del teatro nasce dalle lunghe sessioni di laboratorio, in cui avviene la reinvenzione della lingua per cui le parole diventano corpo e si modificano.

Sempre secondo Barsotti, la fiaba è all’origine di tutte le opere di Emma Dante, contiene i temi fondamentali della sua poetica: il tema della vita e della morte, il sesso, il rapporto tra le generazioni e la valorizzazione del diverso. Diverso per genere, nel teatro della Dante spesso i generi vengono mescolati donne interpretano uomini e viceversa, diverso per status sociale. E dulcis in fundo, commenta Barsotti, tematica cardine delle sue opere, la difficile compagine familiare che forse nelle Sorelle Macaluso viene smussata un po’, aprendo a una prospettiva più positiva, anche se la famiglia rimane per Dante il luogo dove si possono commettere le peggiori atrocità.

Per Barsotti un altro elemento caratterizza la produzione e lo stile di Emma Dante: il tragi-comico (non il grottesco, ci tiene a precisare). Nel senso che si va da una punta all’altra, dal tragico più aulico al comico più basso. Nella ripresa dei motivi classici, il fiabesco e il mito si uniscono spesso, e il tragicomico affiora dalla leggerezza della fiaba. Inoltre, l’alto e il basso si confermano nella mescolanza dei linguaggi.

Come in Gli alti e bassi di Biancaneve, essenziale nella scenografia dove una specie di paratia con delle cravatte permette di far interpretare ai soli tre attori tutti i personaggi, che sbucano da dietro con la sola testa incarnando di volta in volta un personaggio diverso, in un gioco di vestizione e svestizione anche questo tipico di Dante.  Viene ribadita l’importanza dell’aspetto filologico, che viene  trasformato,  ma non ignorato. Per la regista-autrice, la crudeltà delle fiabe non va edulcorata, tuttavia occorre mettere lo spettatore bambino/ragazzo di fronte a una realtà trasfigurata, filtrata, ma che deve conservare un riverbero cupo e brutale.

Secondo Barsotti, in La Scortecata, una fiaba questa esclusivamente per adulti come sottolinea la stessa Dante, l’originale di Basile è messo in scena da due bravissimi attori uomini, che interpretano due vecchie sorelle che si recitano la storia tra di loro per continuare a vivere attraverso la rievocazione di un fatto già avvenuto. Barsotti, ricordando i precedenti spettacoli di Dante, si aspettava un finale più cruento, più macabro, con la scena dello  scorticamento che in realtà non avviene: Dante blocca l’azione mentre una delle due sorelle brandisce il coltello, cristallizzando l’azione in un fermo immagine immerso in una luce drammatica, che evidenzia i corpi e che ricorda i quadri di Caravaggio. Non mostrare la scena dello scorticamento, per la regista significa rendere la minaccia più terribile e allo stesso tempo creare un finale più drammatico.

3. Hans e Gret – Cambiare il finale per ristabilire una morale

Secondo Federica Mazzocchi, nel teatro ragazzi di Emma Dante si riconosce una radice riconducibile al lavoro sulle fiabe fatto da Gianni Rodari, in particolare la possibilità di rimontarle, reinventarle in chiave ludica e liberatoria, nonostante poi, per Dante, ci sia sempre una cifra legata alla violenza, alla drammaticità, al conflitto tra adulti e ragazzi. Mazzocchi chiede a Dante come ha proceduto per l’adattamento drammaturgico di Hans e Gret, che cosa gli interessava di questa storia e come ha voluto raccontarla.

La regista-autrice risponde che, da bambina, nessuno le raccontava le fiabe, e che oggi le mette in scena anche per colmare quell’assenza, per raccontarsele. Della fiaba ama il fatto che non ci sia un’autorialità forte del testo –  “La fiaba non è di nessuno”, dichiara, appartiene al mito e dunque a tutti. Tuttavia, il fatto che le fiabe siano sempre state tramandate oralmente, e che ogni tanto qualcuno si sia preso la briga di scriverle, per Dante è uno stimolo a servirsene per un’esigenza particolare, per riflettere sulla propria epoca, insomma uno stimolo a prenderle e farle sue.  Molto importante, in questo percorso di ‘impossessamento’ e di rielaborazione della fiaba, è il lavoro di Dante sui finali, cioè sulla ‘morale della favola’. Se non c’è morale – dichiara – la fiaba non ha funzione. E’ lo stesso per il teatro: per Dante se lo spettacolo non fa riflettere, se lo spettatore non si alza dalla sedia un po’ cambiato rispetto a prima, il teatro fallisce la sua funzione, che è sempre anche una funzione sociale.

A maggior ragione, il teatro ragazzi: pur pensato per intrattenere, è un tipo di teatro che chiama a una responsabilità maggiore, perché i bambini non sono equipaggiati come i grandi, e quindi i gesti devono essere lineari e non equivocabili. In La bella Rosaspina addormentata, la principessa doveva essere svegliata dal primo che passava di lì e, poiché a passare per prima era una ragazza, per i bambini era naturale che fosse lei a baciare la principessa e che, una volta svegliatala, la principessa se ne innamorasse, perché questo è ciò che dice la favola (“Ti innamorerai della prima persona che ti risveglierà con un bacio”). Si trattava di un bacio tra le due donne, ma non significava qualcosa di erotico. A questo punto, di solito, i bambini guardano i genitori per capire se possono accettare in maniera libera questa cosa. Quasi sempre è l’adulto a intendere quel bacio in termini di erotismo osceno. Diversi genitori hanno protestato fuori dai teatri per questo bacio.

Per quanto riguarda Hans e Gret, Emma Dante cambia il finale per ristabilire una morale, perché per lei è importate dire ai bambini che cosa quella fiaba ci può insegnare. Nelle sue riscritture, la regista-autrice tende sempre a punire i cattivi, a non perdonarli (senza però, come uscì tempo fa sui giornali, demonizzare Walt Disney e i suoi happy end). Fa un lavoro che cerca di scardinare certe convenzioni, in primo luogo l’obbligo di perdonare un malvagio solo perché alla fine si pente. “Non è giusto ”, dice Emma Dante, che le matrigne siano perdonate e la  facciano franca. Per contrappasso, “La matrigna di Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, per esempio, ho voluto trasformarla in una zecca e le due sorellastre in due cani su cui la matrigna va a vivere e di cui si nutre”. Dunque, fare in modo che i buoni vincano, ma anche che i cattivi non solo perdano, ma che siano puniti.

La riscrittura trasforma Hans e Gret in una favola sulla miseria, in una riflessione sulla mancanza di cibo, che in una società consumistica come la nostra forse non si sente più. Questa favola vuole raccontare la presenza dei poveri che nessuno vede, uno stato di privazione tale da generare un gesto mostruoso e vile:  spinto dalla matrigna, il padre arriva ad abbandonare i propri figli nel bosco. Dante prova imbarazzo a raccontare questa favola a suo figlio, soprattutto il punto in cui il padre abbandona i figli, e si chiede: “Che cosa può pensare mio figlio di questo momento? Se lo fa quel genitore allora potrei farlo anche io?”. In più, continua la regista, questo gesto terribile viene raccontato nella fiaba come la cosa più naturale del mondo, e viene addirittura ripetuto due volte. La favola permette anche di riflettere sulla distinzione tra matrigna e madre. Per Dante, “Chi cresce i figli è madre”. In questa fiaba la matrigna è la strega, è la vera cattiva che costringe il padre a compiere il gesto vile dell’abbandono. Il padre invece alla fine si redime, si pente e capisce che la vera ricchezza è stare insieme, dice Emma Dante, che ritiene sia molto importante che lo spettacolo si chiuda su questa battuta del padre. La scelta dettata dall’amore e lo stare insieme per superare le difficoltà: ecco la morale.

4. Crescere. Boschi e sottoboschi di una cultura consumistica

L’altro lato della medaglia, e dunque della storia, è l’importanza del distacco, della separazione come crescita, afferma Mazzocchi. Emma Dante ammette che c’è anche quest’aspetto, perché alla fine il bosco è il posto dove tutti finiamo, chi a 10 anni, chi a 40, chi a 60… Il bosco, commenta Dante, non è solo un luogo buio in cui perdersi, è anche luogo delle meraviglie. Compaiono colori, scendono dall’alto palle di fiori, i due piccoli protagonisti hanno paura, ma allo stesso tempo si abbandonano a questo bosco che è anche il luogo in cui le cose accadono, accadono illusioni, abbindolamenti… Si tratta di cose fondamentali, di prove che servono a trasformarci, a farci crescere, per tornare alle origini “con i sacchetti pieni” di conoscenza. Così i due bambini tornano a casa con sacchetti, sì, ma carichi di cibo. Del resto, per Dante il supermercato è il luogo in cui passiamo gran parte del nostro tempo, è un po’ diventato la nostra chiesa, una sorta di luogo della ricompensa. In Sicilia, come ovunque, ormai ci sono moltissimi centri commerciali, supermercati che sono diventai i nuovi luoghi di culto, lontani dalla tradizione genuina del mercato che, paradossalmente, è ormai sinonimo di radical chic.

Eppure, a Torino i mercati sono ancora i luoghi dove i poveri possono trovare solidarietà e cibo. Spesso i venditori mettono da parte il cibo non venduto prima di chiudere per donarlo agli anziani che non arrivano alla fine del mese, fa notare Graziano Melano, direttore artistico della Fondazione TRG. Egli sottolinea che è necessario raccontare, anche attraverso il teatro, la realtà difficile che ci circonda. “La povertà esiste eccome”, conclude.

5. La musica e il coraggio dei giovani di rompere i vetri

Simona Scattina (Università di Catania) interviene per ricordare il libro La favola del pesce cambiato, pubblicato da Emma Dante con illustrazioni di Toccafondo e Le principesse di Emma, questa volta con illustrazioni di Maria Cristina Costa, citata in apertura anche da Mazzocchi, e per chiedere a Dante quale sarà il ruolo della musica in Hans e Gret, considerando l’importanza che la musica ha nel suo linguaggio espressivo. 

Emma ricorda che questo è uno spettacolo molto melanconico che, soprattutto all’inizio, si svolge nel silenzio, in cui si sente molto lo scricchiolio del palcoscenico, che sembra avere una sua voce. La musica arriva non come sottofondo, ma come elemento creativo che aiuta il dialogo, e che dialoga con i corpi degli attori. In particolare, c’è una canzone scritta ed eseguita dai cinque attori, tutti usciti dalla scuola di teatro di Emma Dante. La regista ci tiene a sottolineare l’importanza di premiare il merito, promuovere i giovani. Cita a esempio la scelta di Maria Giulia Colace, sua ex-allieva, esordiente voluta come protagonista per Eracle (Teatro di Siracusa, 2018), con seimila spettatori a sera. “Mi sono presa un rischio grosso” –  dice Dante –  “ma non ho paura delle sfide. C’era in lei un’acerbità che trovavo interessante, è ai giovani che bisogna dare la parola, perché non hanno malizia scenica. Maria Giulia sentiva tutto con la verità di chi non ha i filtri smaliziati del mestiere. Bisogna avere il coraggio di mettere i giovani nei posti di prestigio.  I linguaggi nuovi vengono dagli errori, dal modo sgraziato con cui si prova a fare una cosa, non viene da una maturità, da una sapienza che però non ha più niente da dire. Ben venga l’immaturità di uno ‘sganazzato’, per dirla alla palermitana, che viene e rompe i vetri, che fa un sorta di piccola rivoluzione, che può fare paura perché non rispetta la tradizione”.

6. Domande a Emma Dante: curiosità e puntualizzazioni.

  • E se la famiglia che rimane insieme in Hans e Gret non fosse solo per amore ma per salvarsi dalla povertà?

E’ un po’ tutte e due le cose – afferma Emma Dante –, un po’ per esigenza, un po’ per amore. L’amore è qualcosa che ha a che fare con la convenienza, non ci sono dubbi su questo. Facciamo chiarezza su quello che è l’aggregazione degli esseri umani. Gli esseri umani sono animali feroci… Poi, noi siamo educati, abbiamo la virtù, perché abbiamo smesso di mangiarci gli uni con gli altri e quindi in qualche modo rispettiamo l’altro. Nel momento in cui non ti mangi l’altro diventi in qualche modo una persona virtuosa. Accetti la possibilità di una presenza dell’altro senza distruggerlo. Però questo non significa che l’essere umano non sia profondamente, dentro di sé, un animale feroce. Quindi, la famiglia diventa un po’ una tana, un posto comunque dove tornare, perché c’è una sorta di protezione, che è un po’ animale.

  • Che cos’è per te il tornare alle origini?

Tornare alle origini non è necessariamente tornare in un posto dove stai bene, ma tornare in questo posto dove ci sono tanti conflitti, tante cose non risolte e cercare di affrontale. Non tornare per chiudersi, ma andare via e tornare equipaggiati, per poter risolvere questioni lasciate in sospeso. Non credo nella fuga, credo nell’allontanamento, perché ci sono dei momenti in cui devi prendere un tempo e una distanza per capire le cose e poi tornare, perché alla fine torni sempre. Dove sei nato, tu torni sempre, ed è naturale che sia così. Questo è molto animale. Il nostro tornare a casa può essere tornare al posto dove siamo cresciuti, la via, la casa madre. Prima o poi, tutti ci torniamo, perché l’esigenza è troppo forte, ma ciò non significa che sia un ritorno sentimentale, romantico. Può essere anche solo semplicemente istintivo, di appartenenza.

  • Che cos’è per te la famiglia?

Mi sto sempre più convincendo che la famiglia per me non è quella in cui sono vissuta che era fatta di mamma, papà, figli, fratelli, ma quella attuale che mi sono costruita in maniera arbitraria. Mi sono scelta un marito e ho adottato un bambino. Quindi, è una famiglia strana perché noi tre – io, mio figlio e mio marito – non abbiamo geni in comune, non abbiamo lo stesso sangue, non ci assomigliamo neanche un po’, ma siamo una “verissima” famiglia. La famiglia più bella che io abbia mai conosciuto. 

7. Il repertorio della Fondazione TRG

Graziano Melano torna a precisare che, riguardo al discorso del repertorio degli spettacoli, la Fondazione ha quindici spettacoli prodotti e in repertorio che girano in Italia e all’estero. Per esempio Pigiami, che ha trentacinque anni di vita e che tutti conoscono, è a Montreal in questo momento. E’ ovvio che alcuni spettacoli sono invecchiati, non rappresentano più il linguaggio dell’infanzia o dei giovani e vengono messi da parte, oppure gli attori non li vogliono più fare, o ancora ci sono spettacoli che sono più impegnativi economicamente e quindi sono più difficili da far girare (l’economia ha, com’è ovvio, un grande peso nella diffusione di uno spettacolo). Fare repertorio sarebbe molto importante e potrebbe garantire un sano futuro per i giovani che vogliono fare teatro. Tuttavia, la situazione non è rosea, sempre meno le compagnie possono andare in tournée, e quindi fare esperienza e si fanno spettacoli che hanno un tempo di vita limitato, purtroppo per logiche poco lungimiranti dei nostri legislatori.

8. Nella mia fine è il mio principio

Tre spettacoli, tre momenti diversi di riflessione sulla fiaba, intesa come mito, relativo alle modalità in cui il mondo stesso e le creature viventi si delineano nella loro forma presente, si manifestano e, nel loro prender forma e manifestarsi, ce ne fanno scorgere un senso. Perché il teatro – ha detto Emma Dante – deve “avere una funzione sociale” o non ha motivo di esistere.

A cura di Nina Margeri

LAVANDERIA A VAPORE – nuovo membro delle European Dancehouse Network.

 Attiva dal 2008, la Lavanderia a Vapore di Collegno, oggi è gestita da una RTO che vede a capo Fondazione Piemonte dal Vivo in collaborazione con Associazione Culturale Mosaico Danza, Associazione Culturale Zerogrammi, Associazione Coorpi e Associazione Didee Arti e Comunicazioni.

Riconosciuta a livello nazionale e internazionale, la Lavanderia a Vapore dal 2018 diventa membro della prestigiosa rete europea EDN (European Dancehouse Network), puntando a seguire il modello dei centri coreografici europei. Il centro è eccellenza regionale della danza e unico centro di residenza del Piemonte riconosciuto dal Mibact.
Fondamentale per la Lavanderia a Vapore è la centralità dell’artista che svolge la residenza: il processo creativo dell’artista, a cui viene dedicato non solo spazio ma anche tempo per il confronto, è di vitale importanza per la crescita artistica dei progetti e degli artisti.
L’obiettivo secondo Matteo Negrin, presidente di Fondazione Piemonte dal Vivo, potrebbe essere quello di coordinare le residenze artistiche e sostenere le realtà piemontesi, ponendosi come capofila di un processo di sviluppo della danza.

QUELLO CHE CI MUOVE, dichiaratamente ispirato al libro “quello che ci muove. Una storia di Pina Bausch” di Beatrice Masini, è il titolo della stagione 2018/2019; un omaggio a Pina, ricordando che proprio quest’anno ricorre il decennale della sua morte.

Dal 16 al 18 novembre, è stata organizzata un’immersione nel mondo del Tanztheater di Wuppertal; tre spettacoli, una video installazione, un cortometraggio, due mostre fotografiche, un workshop per danzatori, un seminario di studio, vari incontri con artisti e presentazione di libri si sono susseguiti durante la Maratona Bausch – danzare la memoria, ripensare la storia.
A cura di Susanne Franco, la volontà di questi tre giorni intensivi era quella di far confrontare lo spettatore con l’eredità che ci ha lasciato Pina, eredità reperibile in forme e molti modi diversi.

© Fabio Melotti

LA STAGIONE CONTINUA NEL 2019. Danzare la memoria, il progetto che già l’anno scorso aveva dato vita ad un evento specifico per la giornata internazionale della danza, verrà ripreso attraverso the Nelken-line by Pina Bausch e sarà realizzato il 28 aprile a Torino. Quest’anno la città vedrà persone di ogni età e preparazione riproporre un frammento della famosa coreografia Nelken, danzando per le sue strade

Il programma continua con la “nuova danza”, nello specifico con tre appuntamenti: prove d’autore, in collaborazione con la rete Anticorpi XL a febbraio, Cédric Andrieux di Jerom Bel e la morte e la fanciulla della compagnia Abbondanza/Bertoni, a marzo.

Fondazione Piemonte dal vivo e la Lavanderia a Vapore continuano a sviluppare percorsi finalizzati all’audience engagement: da un lato con il progetto Fuori da Coro, legato ai temi dell’inclusione sociale con il percorso Mediadance, e dall’altro con l’indagine delle metodologie di lavoro e delle modalità di inclusione attraverso la danza contemporanea. Questo secondo obiettivo viene realizzato con tre azioni specifiche dedicate: una ai malati di Parkinson con Dance Wells-movimento e ricerca per il Parkinson, in collaborazione con il comune di Bassano del Grappa, una ai giovani richiedenti asilo con le Residenze Trampolino, e una agli studenti con Mindset, laboratorio sui processi creativi degli artisti in residenza.
Mediadance, invece, è realizzato in collaborazione con Agis Piemonte e il sistema bibliotecario urbano della città di Torino e rivolto alle scuole per indagare temi diversi attraverso linguaggi multidisciplinari.
L’inconscio, il bullismo, la diversità, la disabilità, l’inclusione sociale, l’immigrazione, sono i focus centrali del progetto scelti per quest’anno. Gli spettacoli attraverso i quali verranno affrontate queste tematiche sono programmati in orario mattutino, ma aperti a tutti e accompagnati da dibattiti. Il primo è stato Pesadilla di Piergiorgio Milano, a novembre, seguiranno poi Da dove guardi il Mondo? di Valentina del Mas a febbraio, Le fumatrici di pecore della compagni Abbondanza/bertoni, a marzo, e Transhumanance 1 elogio a perdere del Teatro Metastasio di Prato per Contemporanea Festival 2016, ad aprile.
Troveranno casa alla Lavanderia del Vapore, tra aprile e maggio, anche Solocoreografico, rassegna ideata da Raffaelle Irace sulle coreografie d’assolo, con la partecipazione del coreografo Jacopo Jenna, e la serata Permutazioni in collaborazione con Zerogrammi, con il debutto dello spettacolo Luci di carni di Amina Amici.

L’idea di Fondazione Piemonte dal Vivo è quella di dare la possibilità di far vivere la Lavanderia a Vapore come vera e propria casa della danza, in tutte le declinazioni del linguaggio coreutico.

Foto di copertina © Beppe Giardino

A cura di Annalisa Luise